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Alan Wake: riassunto della trama e gameplay (Nightmare incluso)

L’ottimo riscontro di critica e utenza per Alan Wake 2 ha incuriosito molti nostri lettori, che non hanno giocato il primo capitolo e ora si chiedono se possono iniziare la nuova opera di Remedy Entertainment pur non conoscendo la trama del survival horror del 2010.

Remedy ha creato un vero e proprio universe che lega le principali opere della software house, in ordine cronologico: Max Payne, Alan Wake, Quantum Break e Control. Tutti i videogiochi di Remedy sono gradevoli e vi consigliamo di dargli una possibilità, ma è comprensibile che vogliate subito tuffarvi su Alan Wake 2. Non vi preoccupate: in questo articolo vi spieghiamo la trama del primo capitolo tanto quanto basta per poter affrontare il nuovo survival horror di Remedy Entertainment, ma allo stesso tempo vi forniamo tutte le informazioni necessarie per iniziare dall’inizio la saga, spin-off incluso.

Incipit

Alan Wake è uno scrittore di best-seller. Alan sta attraversando una crisi creativa e decide di recarsi con la moglie Alice nella cittadina di Bright Falls, con l’intento di ritrovare l’ispirazione. Una volta giunti in loco, le cose prendono una svolta inaspettata: Alice scompare e Alan inizia la sua personale ricerca restando coinvolto in eventi sovrannaturali ed inquietanti.

Il gioco è strutturato come una serie TV ad episodi, con tanto di riassunto della puntata precedente all’inizio di ogni nuovo capitolo; questo aspetto aumenta il coinvolgimento del videogiocatore, ampliando così l’interesse e la voglia di sapere le cose come andranno a finire.

Luce e ombre

Il gameplay si basa su armi e oggetti per scacciare i nemici, ombre chiamate Taken, ma l’elemento fondamentale è la luce contrapposta all’oscurità. Puntando la torcia sul viso dei nemici, molti di essi vengono sconfitti già al primo “colpo”, mentre per ombre più forti ed ingombranti bisognerà tenere per più tempo la luce puntata, o ricorrere ad altre strategie.

Il primo capitolo di Alan Wake è noto per gli eventi Poltergeist, con oggetti, persino automobili e altro, che si alzeranno in volo per poi prenderci di mira con tutta la violenza possibile. Anche questi si eliminano con l’uso della luce puntata, spesso prolungato a seconda delle dimensioni dell’oggetto. Naturalmente, la torcia si potrà anche potenziare nel corso del videogioco.

“Alan Wake Remastered” – Torcia e pistola per abbattere meglio un nemico

La differenza fra Alan Wake e i vari giochi che negli anni successivi hanno popolato la scena horror videoludica sta principalmente nel modo in cui gli sviluppatori hanno deciso di spaventare il giocatore. Per esempio, in giochi come Amnesia e Oulast, la paura nasce soprattutto dall’impossibilità di difendersi concretamente, nascondendosi e non potendo usare armi. Nel videogioco di Remedy, viviamo di una costante tensione, spesso crescente, che mette il seme della paura ad ogni passo, con la possibilità di fuggire dai nemici, ma anche con la possibilità di respingere gli stessi. Percorrere le strade e le foreste significa vagare tra i nostri peggiori incubi senza mai arrivare a destinazione.

Le arti di Alan Wake: tra scrittura e musica

Elemento chiave della trama di di Alan Wake sono le pagine del manoscritto. Le troveremo andando avanti nel corso dell’avventura: alcune saranno complicate da trovare mentre altre si potranno ottenere solo alla difficoltà di gioco Nightmare. Le pagine forniscono indizi o svelano parte degli eventi che stanno per svolgersi e delineano meglio la psicologia del personaggio.

Inoltre, fungono sia da guida strategica per il giocatore, aiutandolo a progredire nella storia e affrontare le varie creature, sia come elemento narrativo, con la funzione di dare profondità e ancora più mistero all’intera esperienza.

Nel corso dell’avventura ci capiterà abbastanza spesso di trovarci nelle condizioni di ascoltare trasmissioni della Radio KBFF FM. Le trasmissioni sono una parte importante della trama di Alan Wake, poiché forniscono elementi per capire ancora meglio la vita di Bright Falls e dei suoi cittadini, che difatti saranno sono spesso coinvolti nelle telefonate trasmesse dalla radio stessa.

Le trasmissioni radio non solo aiutano a comprendere il background della storia, ma aggiungono indizi su cosa stiamo per affrontare in determinate fasi del gioco; in altre parole, quello che sembra un elemento di importanza secondaria, in realtà è parte integrante della narrativa di Alan Wake ed è altamente consigliato ascoltare più trasmissioni radio possibili.

Alan Wake’s Nightmare

Nel 2012 è stato rilasciato esclusivamente in digitale su Xbox 360 e PC, Alan Wake’s Nightmare, un episodio spin-off che ha lo scopo di approfondire la trama del primo capitolo. Lo stile di gioco cambia un po’ rispetto ad Alan Wake: Nightmare è principalmente uno sparatutto, mentre il primo capitolo era soprattutto a metà tra un survival horror e un’avventura dinamica.

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Lo stato dell’arte dei videogiochi d’avventura

Il confine tra cinema e videogioco, specialmente con il progredire di quest’ultimo medium, si sta facendo sempre più sottile. Mi riferisco soprattutto a quel genere di videogiochi d’avventura che pongono l’aspetto narrativo in maniera più centrale rispetto al gameplay, privilegiando il coinvolgimento emotivo dell’utente e intrattenendolo con una trama che diventa l’anima dell’opera stessa.

Negli anni 90 alcune software house si specializzarono nelle avventure grafiche punta e clicca (Lucasarts, Sierra Entertainment, Revolution Software, per dirne alcune), mettendo al centro dei loro titoli narrativa e puzzle da risolvere. Alcuni dei giochi di queste case non erano del tutto lineari, visto che permettevano al videogiocatore di prendere decisioni in grado di influenzare il corso della storia, portando in alcuni casi anche a finali diversi.

Avventura
Il gioco di “Blade Runner”

Nel 1997 venne pubblicato “Blade Runner”, videogioco d’avventura di Westwood Studios, basato sul film di fantascienza cult di Ridley Scott. Il film a sua volta si ispirava al romanzo “Il cacciatore di androidi” di Philip K. Dick. Io grazie a quel gioco cominciai a capire quanto le decisioni che prendevo di volta in volta portassero a cambiamenti di trama ancora più palpabili, considerando soprattutto la quantità di finali differenti, circa una dozzina.

La realizzazione grafica, l’atmosfera cupa e distopica ed il comparto audio, erano molto fedeli al film, e aumentavano di conseguenza l’immersione del videogiocatore. Inoltre erano presenti delle scene di intermezzo di notevole impatto, che contribuivano a far sì che il giocatore si sentisse coinvolto in un gioco dalla forte impronta cinematografica.

Esperienze interattive

Con l’avanzare del progresso tecnologico in ambito gaming, certe avventure sono diventate sempre più esperienze interattive e realistiche. Determinate software house si sono specializzate in questa ramificazione specifica del genere adventure: Quantic Dream, con Heavy Rain e Detroit: Become Human; Dontnod, nota per la saga di Life Is Strange; Telltale Games, con i suoi videogiochi ad episodi su The Walking Dead, ed altri).

Ritengo che, in questa tipologia di giochi, il puro gameplay non debba essere necessariamente al primo posto. L’esperienza stessa non vive delle nostre abilità manuali, della gestione di risorse in game o altro, ma viene valorizzata dal coinvolgimento che la storia stessa ci regala; le decisioni da prendere durante un dialogo, oppure in una sequenza d’azione (quick time event) fanno scaturire vari tipi di emozioni, poiché scegliere un bivio rispetto ad un altro può avere conseguenze sulla storia.

In ambito cinematografico, Netflix nel 2018 pubblicò sulla propria piattaforma il film “Black Mirror: Bandersnatch”, un vero e proprio film interattivo. Lo spettatore di tanto in tanto, col telecomando, doveva prendere delle decisioni. In base a queste, la storia prendeva l’una o l’altra piega. Quando il cinema prende ispirazione dal videogioco: chi lo avrebbe mai detto un po’ di anni fa?

Walking simulator e affini

In questa tipologia di giochi spesso non dobbiamo far altro che camminare all’interno dei vari scenari, analizzare oggetti, di tanto in tanto interagire con qualche enigma, NPC, ed assistere a scene di intermezzo, essendo partecipi dei pensieri del protagonista e di eventuali altri personaggi.

Videogiochi d'avventura
The Town of Light

Uno dei videogiochi che mi colpì più profondamente all’epoca fu “The Town of Light”, un’avventura/thriller psicologica in prima persona. Il gioco è ambientato in Italia, precisamente a Firenze, nell’ex-manicomio di Volterra. Sviluppata da LKA, software house italiana, e pubblicata nel 2016.

Siamo nei panni di Renèe, un tempo paziente dell’istituto, in cerca di verità sul suo passato. L’esplorazione la fa da padrone, con i silenzi che ci tengono in apprensione, un crescendo di curiosità e tensione, uno scavare costante in questo scenario decadente, colmo di verità nascoste sotto polvere e macerie. Solitudine e profondità in un titolo che, con appunti trovati in giro e flashback, ricostruisce la storia della protagonista e ci trasmette emozioni di ogni genere, alcune sorprendenti.

Un’esperienza davvero immersiva

Ed è impossibile non parlare del gioco che diede una ventata di aria fresca alle avventure grafiche di questo specifico sottogenere, vale a dire quel piccolo grande capolavoro del 2017: “What Remains of Edith Finch” (di cui abbiamo approfondito l’importanza in un altro articolo), sviluppato da Giant Sparrow e pubblicato da Annapurna Interactive. La protagonista, Edith Finch Jr, unica sopravvissuta della sua famiglia, torna nella vecchia casa del bisnonno per ricordare e ricostruire la vita di tutti i suoi parenti.

Estetica splendida, ambientazioni pittoriche, un modo artistico e toccante nel raccontare e rivivere i ricordi dei membri della famiglia – tra simbolismi e metafore – una narrativa solida, ed una forte impronta autoriale, rendono questo videogioco d’avventura un titolo imperdibile. Dura poche ore, ma si cuce dentro di noi, dimostrando quanto il fattore longevità possa dipendere anche dal modo in cui si mettono in scena le cose. Mai dispersivo, sempre immersivo, un’esperienza che vi consiglio con tutto il cuore.

Avventura
What Remains of Edith Finch

Considerazioni finali

La parte di utenza che non gradisce tutto ciò (o parte) che vi ho scritto finora, punta il dito contro il fatto che se non c’è abbastanza interazione, si sente troppo nel ruolo di spettatore, sottolineando quanto si tratta pur sempre di videogiochi e non di film. Per me invece, c’è spazio per tutto; io stesso apprezzo moltissimo sia il videogioco più “classico”, sia quello improntato maggiormente su trama e trasporto emotivo.

Ritengo che il videogiocare non sia solo una sfida manuale, una competizione, oppure un passatempo, ma anche un’esperienza puramente narrativa, un viaggio all’interno di storie che a loro volta si fanno strada tra le nostre emozioni, mettendo radici.

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Tutti i platform 2D di Super Mario in ordine cronologico

Oggi è il giorno dell’esclusiva Nintendo Switch per eccellenza del 2023: Super Mario Bros. Wonder, nuovo capitolo in 2D della celebre saga platform. Quale occasione migliore per parlare dei giochi platform a scorrimento in 2D di Super Mario?

Un po’ di storia

Dietro la creazione di Mario (e di serie come Donkey Kong e The Legend of Zelda) c’è Shigeru Miyamoto, uno dei direttori creativi di Nintendo più celebri, da molti considerato uno dei padri del medium videoludico.

Donkey Kong – 1981

Mario fece la sua prima comparsa nel videogioco Donkey Kong (1981) col nome di “Jumpman”, gioco arcade, diventando rapidamente la mascotte di casa Nintendo. In questo gioco a piattaforme, dobbiamo salvare la sua fidanzata Pauline dal gorilla Donkey Kong, scalando i piani del palazzo, ed evitando gli ostacoli che il gorilla ci lancerà addosso.

Mario Bros – 1983

Due anni dopo, sempre come gioco arcade, uscì Mario Bros., spin-off della serie Donkey Kong, in cui esordisce anche il fratello di Mario, Luigi, e con lui la modalità a due giocatori. Mario diventa l’idraulico che tutti conosciamo, e il suo scopo è eliminare i nemici che escono dai tubi delle fognature di New York, specialmente le tartarughe (i Koopa Troopa).

Super Mario Bros. – 1985, NES

platform 2D Super Mario: Bros
Super Mario Bros. – 1985

Pubblicato su NES, console Nintendo a 8 bit, il gioco ci trasporta nel Regno dei Funghi, luogo pacifico popolato da creature con la testa a forma di fungo, i Toad. L’equilibrio viene rotto da Bowser (malvagio re dei Koopa Troopa) che conquista il regno, lo trasforma e rapisce la principessa Peach Toadstool.

Nel primo vero platform 2D di Super Mario dovremo salvare la principessa e riportare la pace nel regno, superando mondi popolati da ostacoli e nemici vari. Ad aiutarci, power-up come il Super Fungo, che raddoppia le dimensioni di Mario, il Fiore di Fuoco, che fa sparare palline infuocate, la Super Stella, che dona per pochi secondi l’invincibilità, ed il Fungo 1-up che regala una vita.

Come non citare poi l’iconica asta con la bandiera, che ad ogni fine livello dobbiamo afferrare per poterlo finire e andare al successivo, e le monete da raccogliere in giro. Nell’immaginario di tutti i videogiocatori di Mario e non solo, anche questi due elementi sono iconici, così come i passaggi Warp, scorciatoie per andare direttamente ad altri mondi.

Super Mario Bros.: The Lost Levels – 1986, Famicom Disk System

platform 2D Super Mario: Bros The Lost Levels
Super Mario Bros.: The Lost Levels – 1986

Il secondo capitolo, inizialmente pubblicato solo in Giappone e sul Famicom Disk System, segue le orme del primo, ma con un livello di difficoltà più alto, introducendo il fungo velenoso e confermando i power-up del predecessore. I salti richiedono più precisione e ci sono anche dei blocchi invisibili sui quali atterrare; pochi upgrade grafici, ma funzionali.

Il secondo platform 2D di Super Mario non arrivò subito in Occidente poiché Nintendo credeva che il livello di difficoltà fosse alto per quella fetta di pubblico. Venne distribuito successivamente, nel 1993, tramite la raccolta Super Mario All-Stars, che includeva il capitolo precedente ed anche quelli successivi, fino a Super Mario World, incluso però solo in un’altra edizione successiva.

Super Mario Bros. 2 – 1988, NES

Super Mario Bros. 2 – 1988

Il secondo capitolo di Super Mario, pubblicato inizialmente in Occidente e poi anche in Giappone nel 1992, fu quello che vedete nell’immagine più in bassos; un gioco del tutto differente dal vero secondo capitolo, cioè Super Mario: The Lost Levels, di cui abbiamo parlato qui sopra.

Super Mario Bros. 2 era una conversione di un gioco già esistente, vale a dire Doki Doki Panic, per l’occasione ritoccato graficamente e cambiato soprattutto nell’aspetto dei personaggi giocabili, difatti qui in ogni livello possiamo scegliere chi usare fra Mario, Luigi, Toad e la principessa Peach.

Ogni personaggio ha le proprie caratteristiche: Mario è il più equilibrato, mentre Luigi può saltare più in alto, Toad è piccolo e rapido, Peach è in grado di planare per qualche secondo. In certi livelli conviene usare uno piuttosto che un altro per superarlo più agevolmente.

Inoltre rispetto al Super Mario classico, non basta saltare sulla testa dei nemici per poterli eliminare, ma bisogna andarci sopra, premere il tasto per raccoglierli e scaraventarli contro ostacoli o altri nemici, eliminando così entrambi, o anche gruppi interi, a seconda della situazione.

Super Mario Bros. 3 – 1988, NES

platform 2D Super Mario: Bros 3
Super Mario Bros. 3 – 1988 – NES

Il terzo capitolo del platform 2D di Super Mario introduce come novità più sostanziali la mappa, l’inventario, una maggiore verticalità e power-up nuovi. Ogni mondo ha la sua mappa e noi dovremo entrare nei livelli muovendoci sulle relative caselle; è possibile spesso anche non affrontarli nell’ordine classico, ma scegliere una strada alternativa.

Gli upgrade grafici hanno permesso ai mondi di avere biomi più dettagliati e variegati. Ogni mondo ha il suo; il primo ha le classiche colline verdeggianti, il secondo è desertico, il terzo acquatico e così via. Ogni mondo ha mediamente almeno una mini fortezza e il castello (una nave volante) con la battaglia finale di quella mappa.

Ci sono dei minigiochi sparsi, che se fatti correttamente, possono donare vite ed altro. Alla fine di ogni fine livello c’è un box da colpire, che ha al suo interno lo scorrere veloce dei simboli di stella, fungo, fiore; quando completeremo 3 livelli, di volta in volta, a seconda della combinazione dei simboli colpiti sino a quel momento, avremo delle vite extra.

Tra i nuovi power-up troviamo la Super Foglia che dona a Mario la coda da procione, permettendogli di volare dopo aver preso la rincorsa (per qualche secondo e al massimo della velocità). Ciò aggiunge profondità al gameplay, verticalità e segreti piazzati in maniera anche più fantasiosa.

Super Mario Land – 1989, Game Boy

Super Mario Land – 1989

Titolo di lancio del Game Boy, Super Mario Land è anche il primo Super Mario ad uscire su console portatile. Il videogioco è stato diretto da Gunpei Yokoi, conosciuto per aver creato sia il Gameboy che i Game & Watch, una serie di giochi elettronici portatili. Super Mario Land è ambientato nella pacifica regione di Sarasaland, suddivisa in quattro regni: Birabuto, Muda, Easton e Chai.

Il gioco vede anche debuttare la Principessa Daisy, qui rapita da un alieno di nome Tatanga, che ipnotizza tutti gli abitanti del regno e rapisce Daisy con l’intenzione di farla diventare sua moglie. Toccherà come sempre a Mario attraversare i regni, sconfiggere tutti e andare a salvarla.

Super Mario World – 1990, SNES/Game boy Advance

platform 2D Super Mario: World
Super Mario World – 1990

Questo titolo, da molti ritenuto il miglior gioco in 2D della saga principale di Mario, amplia tutto ciò che c’era nel terzo capitolo della saga, migliorando la grafica, introducendo il dinosauro Yoshi (cavalcabile e in grado di mangiare i nemici), altri nemici, ampliando la mappa ed i livelli con segreti e strade alternative.

Graficamente ci fu un bel balzo rispetto al già ottimo terzo capitolo, con sfondi ancora più dettagliati, livelli, nemici, più vari, un level design ineccepibile che fa ancora storia.

Oltre al dinosauro Yoshi, in grado di trasformare i gusci rossi dei Koopa in fiamme per poter colpire i nemici, abbiamo la novità della piuma, che dona a Mario un mantello che lo rende in grado di volare per pochi secondi. Un altro power-up inedito è il palloncino P, che gonfia Mario e gli permette di galleggiare per un tempo limitato.

L’inventario ha una sua funzionalità anche in-game in quanto è possibile acquisire un power-up di riserva nel caso dovessimo essere colpiti, cosa che non accadeva nel terzo, dove i power-up si potevano utilizzare solo quando eravamo nella mappa, PRIMA di accedere al livello.

Super Mario Land 2: 6 Golden Coins – 1992, Game Boy

platform 2D Super Mario: Land 2
Super Mario Land 2: 6 Golden Coins – 1992

Il gioco si svolge su una mappa principale che rappresenta Mario Land, dove Mario è il Re, con il villain di turno che qui è Wario, invidioso del nostro idraulico baffuto e della sua popolarità fin da quando erano ragazzi.

Mario dovrà sconfiggere i capi delle 6 zone (Tree Zone, Space Zone, Macro Zone, Pumpkin Zone, Mario Zone e Turtle Zone) in cui l’isola è divisa, per recuperare le relative monete d’oro, una per ogni zona. Una volta fatto ciò, Mario potrà accedere alla fase finale del gioco e liberare il suo mondo dalle grinfie di Wario.

Wario Land: Super Mario Land 3 – 1994 , Game Boy

platform 2D Super Mario: Warior Land
Wario Land: Super Mario Land 3

In questo terzo capitolo guideremo lo stesso Wario che, dopo aver perso tutte le ricchezze accumulate sul finale del precedente capitolo, decide di mettersi contro dei pirati, i Brown Sugar, guidati dal Capitan Melassa. Quest’ultimi hanno rubato un’enorme statua dorata della principessa Peach dal Regno dei Funghi.

Lo scopo di Wario è di rubare questa statua, rivenderla a Mario e costruirsi un castello ancora più grande del precedente. Il gioco è ambientato su Kitchen Island, il covo dei pirati, isola suddivisa nelle seguenti zone: Spiaggia di Riso, Monte Teiera, Terra del Sorbetto, Canyon Stufa, Veliero Tazzaditè, Foresta di Prezzemolo, Castello di Melassa.

Super Mario World 2: Yoshi’s Island – 1995 – SNES

platform 2D Super Mario: World 2
Super Mario World 2: Yoshi’s Island

Il gioco ci fa vedere Baby Mario e Baby Luigi trasportati da una cicogna verso quella che diventerà la loro casa. Purtroppo il malvagio mago Kamek è al corrente di questo viaggio ed intercetterà i nostri piccoli eroi; durante il volo Baby Mario cade su un’isola e viene trovato da un gruppo di Yoshi.

Da qui in poi comincia il gioco, un viaggio di ritorno in cui noi comanderemo Yoshi e i suoi compagni, che di livello in livello, porteranno Baby Mario a destinazione, come in una staffetta.

Il gameplay cambia moltissimo dai precedenti giochi della saga, difatti qui usiamo Yoshi che trasporta Mario, ed ogni volta che subiremo dei danni Baby Mario comincerà a piangere e ad allontanarsi da noi, e noi dovremo riacciuffarlo in tempo per non compromettere la partita.

Va detto che il gioco graficamente è molto ben fatto, sfondi molto dettagliati, molte animazioni, colori vivi, accesi, come se fosse un disegno fatto con acquerelli o pastelli, ed ha un level design eccezionale.

New Super Mario Bros. – 2006, DS

New Super Mario Bros. – 2006

Pubblicato su Nintendo DS, questo titolo inaugurò il nuovo filone di platform 2D di Super Mario negli anni 2000. La storia è quella che conosciamo, dobbiamo salvare Peach, superando 8 mondi con più di 80 livelli in totale.

Tra power-up vecchi e nuovi, fra quest’ultimi abbiamo il guscio Koopa blu, che consente a Mario di nascondersi nel guscio ed eseguire poi il “tarta-scatto”; inoltre ha anche l’effetto di velocizzare il nuoto. Abbiamo poi il Megafungo che fa crescere Mario fino a dimensioni incredibili, distruggendo tutto ciò che trova sul suo cammino.

Il Minifungo fa ovviamente l’opposto e ci permette di entrare nei passaggi più piccoli, raggiungendo zone altrimenti inaccessibili; inoltre ci fa diventare così leggeri che possiamo correre sull’acqua e saltare più in alto.

New Super Mario Bros. Wii – 2009, Wii

platform 2D Super Mario: New Super Mario Bros. Wii
New Super Mario Bros. Wii – 2009

Il secondo capitolo di questa saga introduce una serie di novità, fra le quali spiccano:

  • Modalità cooperativa fino a 4 giocatori su schermo in contemporanea, in cui è possibile aiutarsi, oppure ostacolarsi a vicenda.
  • Nuovi power-up come l’Elmetto di Ghiaccio, che trasforma i nemici in blocchi di ghiaccio, Fiore di Ghiaccio, che fa sparare proiettili di ghiaccio
  • Veicoli come la Super Roulotte, che serve in determinati livelli.

Ci sono poi nuovi nemici, come i Fratelli Martello, e i Bowser Jr. Inoltre aumentano percorsi e passaggi segreti per una maggiore varietà e senso di sfida. Ovviamente la grafica è ulteriormente migliorata rispetto al precedente capitolo, vista la maggior potenza della Nintendo Wii.

New Super Mario Bros. 2 – 2012 , 3DS

New Super Mario Bros. 2 – 2012

Il gioco riprende lo stile del precedente capitolo uscito su 3DS, ed oltre a confermare il Mini-Fungo e il Mega-Fungo, vede il ritorno dell’amata Super Foglia di Super Mario 3. In questo titolo gioca un ruolo molto importante la raccolta di monete.

Il Fiore d’Oro trasforma i blocchi in monete, anelli che per un breve lasso di tempo trasformano i nemici in oro, ed una maschera che produce monete durante la corsa di Mario.

Ci sono 9 mondi che includono 94 livelli, quelli base, 44, sono numerati, mentre gli altri includono 15 livelli lettera, sbloccati con la scoperta di uscite segrete, 4 cannoni Warp, 6 torri, 9 castelli, 9 livelli arcobaleno e 7 case dei Boo.

New Super Mario Bros. 2 è il primo capitolo della serie ad introdurre DLC a pagamento, espandendo così la modalità Febbre dell’Oro, con livelli inediti in cui bisogna raggiungere obiettivi che riguardano il numero di monete raccolte.

Super Mario Maker – 2015, Wii U

Super Mario Maker – Wii U (2015)

Questi due giochi sono stati i sogni di milioni di videogiocatori: poter creare i propri livelli in un platform 2D di Super Mario, condividerli online e giocare quelli degli altri. Il primo usava bene le caratteristiche ibride della console di casa Nintendo, tra modalità portatile e quella su TV; ciò rendeva molto comoda la realizzazione di livelli, soprattutto con l’uso del pennino su schermo.

In questo primo capitolo è possibile la creazione di livelli con gli stili dei seguenti giochi:

  • Super Mario Bros.
  • Super Mario Bros. 3
  • Super Mario World
  • New Super Mario Bros U.

Super Mario Run – Mobile, 2016

In questo gioco non abbiamo il controllo diretto di Mario, che corre da solo, ma dobbiamo premere il touch al momento giusto e l’intensità del salto dipende dalla pressione del nostro dito sullo schermo, con i dovuti limiti. Ci sono poi delle meccaniche che ci fanno tornare indietro di qualche passo, nel caso volessimo recuperare delle monete.

Nella modalità “World Tour” dovremo raccogliere quante più monete possibili e arrivare al traguardo, sbloccando così i livelli successivi. Ci sono 6 mondi in tutto, con 4 livelli ciascuno, suddivisi in maniera identica (3 normali più fortezza), con eccezion fatta per l’ultimo, che ha 2 fortezze nel terzo e nel quarto livello.

C’è anche una modalità denominata “Sfide Toad” che ci permette di sfidare gli altri utenti nei vari livelli e un’altra per costruire il nostro personale Regno Dei Funghi, acquistando oggetti, decorazioni e piazzandole dove vogliamo.

Un’altra modalità è la “Remix 10”, in cui bisogna affrontare 10 livelli brevi ad un ritmo frenetico, per arrivare a salvare Daisy. Al termine di questi livelli comparirà un minigioco bonus che ci permetterà di avere altri elementi per abbellire il nostro regno.

Super Mario Maker 2 – 2019, Switch

Super Mario Maker 2 – 2019 – Nintendo Switch

Nel secondo capitolo troviamo le stesse possibilità del primo, con una miriade di possibilità in più per personalizzare i nostri livelli, soprattutto con l’aggiornarsi del gioco nel tempo. I livelli sono realizzabili con i seguenti stili:

  • Super Mario Bros.
  • Super Mario Bros. 3
  • Super Mario World
  • New Super Mario Bros U.
  • Super Mario 3d World

Inoltre è possibile creare i propri mondi rappresentati con la mappa stile “Super Mario World”, con selezioni di livelli, minigiochi e così via. Presente anche la modalità online multigiocatore, fino a 4 in contemporanea, con modalità cooperative o di sfida, con tanto di rank.

Super Mario Bros. Wonder – Switch, 2023

platform 2D Super Mario: Wonder
Super Mario Bros. Wonder

Il futuro dei platform 2D è già qui? Dai primi trailer del gioco è possibile subito notare uno stile grafico, in generale, diverso dai classici Super Mario, con più animazioni facciali dei personaggi, sfondi molto dettagliati, fasi di gioco al limite del trip mentale, nuovi costumi come l’ormai già famoso “Elefante“, in grado di spazzare via i nemici e non solo.

Sembra essere tutto molto frenetico, soprattutto quando utilizzeremo questo “Fiore meraviglia”, che cambia il mondo attorno a noi, rendendolo più psichedelico, animando i tubi, facendo arrivare gruppi di animali contro di noi, modificando l’inclinazione dei livelli ed altro ancora, come le trasformazioni in nemici, citando così “Mario Odissey“.

Ciò che più balza agli occhi, grafica a parte, è l’introduzione delle “Spille”, che sembrano essere dei perk da assegnare al personaggio in ogni livello – massimo uno alla volta – aggiungendo profondità al gameplay, in quanto ciò permetterà probabilmente di affrontare livelli in modo diverso e di giungere in punti altrimenti non raggiungibili, senza l’uso di alcune spille.

Passato, presente e futuro

Super Mario per molti videogiocatori e non solo, rappresenta l’icona per eccellenza dei platform in particolare quelli 2D, ma anche l’emblema nostalgico di una saga, di un personaggio, che ci ha tenuto compagnia durante la nostra crescita. Lui è sempre lì, a ricordarci quanto in un videogioco sia importante il puro divertimento, lo stupirsi ancora per le novità introdotte ogni volta.

Voglio chiudere così questo articolo, ringraziandovi per la pazienza avuta in questo lungo viaggio fatto assieme, ed affermando che Mario, assieme ad altre poche saghe e personaggi, rappresenta passato, presente e futuro del suo genere… e non solo.

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Doki Doki Panic: il Super Mario Bros. 2 occidentale

Mario, Mario, Mario. Nonostante il baffuto idraulico di casa Nintendo calchi la scena videoludica da ormai più di quarant’anni, il suo nome sembra essere sempre sulla cresta dell’onda. Con il successo del film di animazione targato Luminous e il nuovo Super Mario Bros. Wonder ormai in dirittura di arrivo, si prospetta un periodo davvero roseo per il nostro eroe.

Del resto i videogiochi con protagonista Mario, in particolare la serie Super Mario Bros., sono sempre stati sinonimo di qualità, divertimento e spensieratezza. Questa saga ha sempre ottenuto grandi successi e riconoscimenti, fin dal primo episodio, apparso nel 1985 su NES e vanta alcuni dei migliori giochi platform di sempre (per un approfondimento sulla saga vedi qui).

In questo articolo però andremo a parlare dell’episodio della serie Super Mario Bros. che vanta la storia più strana e particolare: Super Mario Bros. 2 e Doki Doki Panic, la sua versione occidentale. Recuperiamo cappello, guanti e funghi magici e lanciamoci alla scoperta di questo vecchio classico.

Un Mario decisamente diverso

Super Mario Bros. 2 uscì nel 1988 su NES, la leggendaria console a 8 bit Nintendo. Il gioco riuscì ad ottenere un ottimo successo, entrando nella top 5 dei giochi NES più venduti.

Fin da subito, però, i videogiocatori si accorsero delle grandi differenze tra questo sequel e il titolo originale. Non solo infatti in Super Mario Bros. 2 era possibile selezionare un differente personaggio all’inizio di ogni stage (Mario, Luigi, Toad e la principessa) ma l’intero gameplay del gioco sembrava essere stato rivoluzionato.

Saltare in testa ai nemici, per esempio, non avrebbe più avuto alcun effetto su di loro. Per eliminarli era necessario attaccarli con i vari oggetti che era possibile raccogliere e lanciare all’interno dei livelli. Era anche possibile raccogliere i nemici stessi e lanciarli contro altri nemici

Inoltre, la struttura dei livelli era molto diversa rispetto al primo capitolo. Non più lunghi corridoi irti di ostacoli e nemici, bensì livelli con una struttura molto più vasta ed aperta. Per farsi strada attraverso gli stages il giocatore avrebbe dovuto esplorare con cura il livello e tornare più volte sui suoi passi. Inoltre i livelli contenevano numerosi enigmi e rompicapo per superare i quali il cervello e l’orientamento erano molto più utili di un dito pronto.

L’originale Super Mario Bros. 2

Super mario bros. 2 originale

Come mai Nintendo fece la strana scelta di andare a stravolgere una struttura così apprezzata ed amata come quella del Super Mario Bros. originale? Per capirlo occorre fare un passo indietro.

Nel paese del sol levante, infatti, l’avventura di Mario aveva già ricevuto un sequel. Nel 1986, sempre su NES, era infatti apparso Super Mario Bros. 2. Questo titolo, tuttavia, era molto diverso da quello giunto in seguito nel mondo occidentale. Il Super Mario Bros. 2 giapponese, infatti, si presentava come un gioco davvero molto simile all’originale. Le uniche reali differenze erano la possibilità di scegliere se giocare come Mario o Luigi e un livello di difficoltà notevolmente superiore all’originale.

Proprio quest’alto livello di difficoltà convinse Nintendo a non far uscire il gioco in occidente. Vi era infatti la convinzione che l’eccessiva difficoltà avrebbe finito con l’alienare il favore del pubblico occidentale. Il Super Mario Bros 2 originale verrà distribuito per il mercato europeo ed americano solamente nel 1993 all’interno della raccolta Super Mario All Stars, col titolo Super Mario Bros. The Lost Levels.

Tuttavia, Nintendo desiderava realizzare un nuovo gioco di Mario anche per il meccato occidentale, in particolare quello nordamericano. Ed è proprio a questo punto della nostra storia che entra in scena un altro gioco, ovvero Doki Doki Panic.

Notti d’oriente

Doki Doki Panic

Nel corso del 1987 era apparso su Famicom (versione giapponese del NES) un gioco davvero particolare, ovvero Yume Kojo: Doki Doki Panic. Il gioco aveva lo scopo di sponsorizzare l’evento Yume Kojo ’87, un festival televisivo dell’emittente Fuji Television. In particolare, il gioco vide la luce all’interno di un contest volto alla creazione di contenuti interessanti legati proprio alle mascotte della suddetta emittente.

La trama di Doki Doki Panic si presentava come una sorta di grande libro animato, che narrava le gesta di una magica famiglia (i cui membri erano mascotte dello dello Yume Kojo) impegnata a salvare alcuni bambini, rapiti dal malvagio Mamū e dalla sua orda di strane creature.

Il programmatore del gioco era nientemeno che Takashi Tezuka, famoso designer e scrittore in forze alla grande N. Fino a quel momento, Tezuka aveva realizzato Devil World, semplice clone di Pac-Man e aveva collaborato alla realizzazione del primo Super Mario Bros. Tuttavia, il nostro programmatore avrebbe contribuito alla creazione di capolavori come The Legend of Zelda, Super Mario Bros. 3 e Super Mario World (di cui fu addirittura direttore principale), A Link to the Past e moltissimi altri. Insomma, il nostro Takashi sapeva bene come programmare un videogioco!

E infatti anche la qualità di Doki Doki Panic era molto elevata, sia per quanto riguarda la grafica che per quanto concerne gameplay e complessità dei livelli. Tuttavia, il forte legame tra Doki Doki e Fujifilm rese Nintendo molto restia a convertire il gioco per il mercato occidentale.

Ma cosa ha a che fare questo gioco col Sequel di Super Mario Bros.? Come i più sgamati tra voi avranno già intuito, quello che in Europa venne presentato come Super Mario Bros. 2 altro non è che Doki Doki Panic con una serie di aggiustamenti grafici e con Mario e i suoi amici al posto della famiglia originale del titolo.

Tutto il resto è assolutamente identico. L’ ambientazioni legata all’oriente, i livelli ricchi di segreti e rompicapo, persino le sezioni a bordo dei tappeti volanti (che con Mario avevano ben poco a che fare). L’unica reale differenza tra i due giochi è la presenza di un sistema di salvataggio in Doki Doki, rimosso in SMB2 e il fatto che in Doki Doki il boss finale, Mamū, in Doki Doki deve essere sconfitto con tutti e 4 i personaggi.

Svelato il mistero

Doki Doki Panic è Super Mario Bros. 2

Cosa era accaduto? Molto semplicemente Nintendo, constatando la poca attrattiva che un titolo come Doki Doki avrebbe avuto in occidente, decise di mantenere la base del gioco e di trapiantarci sopra i personaggi di Super Mario.

E il bello è che lo strano esperimento funzionò alla grande, viste le ottime vendite si Super Mario Bros 2. Evidentemente, la grande popolarità di Mario e la buona qualità di Doki Doki spinsero la gente ad acquistare il gioco, senza prendersi troppo pensiero delle tante differenze rispetto al titolo precedente.

Addirittura, la versione occidentale di SMB2 fu convertita anche in Giappone, con il titolo Super Mario USA. Ancora più significativo è il fatto che molte delle creature apparse in questo gioco, tutte pensate originariamente per Doki Doki, siano entrate a tutti gli effetti a far parte del mondo di Super Mario. Basti pensare alla grossa creatura rosa Strutzi o ai mitici Tipi Timidi, presenti anche nella pellicola del 2023 su Super Mario!

Bene, eccovi sviscerata la strana storia del primo sequel di Super Mario Bros. Eravate già a conoscenza di questa strampalata vicenda? O per voi è stata una divertente scoperta? Fateci sapere!

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Editoriali

The Talos Principle 2: Intervista a Jonas Kyratzes

Recentemente, è stata rilasciata la data di uscita ufficiale dell’atteso puzzle filosofico a cura di Croteam: The Talos princple 2 esce il 2 novembre 2023, tutti i videogiocatori potranno finalmente mettere le mani sul titolo completo.

Nell’attesa, abbiamo avuto modo di provare il gioco in anteprima, oltre all’onore di un’intervista esclusiva con Jonas Kyratzes, lead writer del team dietro la creazione di The Talos Principle 1 prima, e del suo seguito adesso.

Vi ricordiamo che una demo è disponibile gratuitamente su Steam, e vi invitiamo caldamente a provarla, vista l’ampissima mole di contenuto che regala.

Nell’intervista qui di seguito potrete leggere un’interessante discussione che esce dai limiti del videogioco, sfociando in contenuti filosofici – e in un certo senso antropologici – ma anche di puro mercato: cosa comporta lavorare a un gioco così legato alla filosofia, e cosa è lecito aspettarsi dal venturo nuovo capitolo.

IlVideogiocatore.it: Perché sentivate il bisogno di un sequel? Pensate che c’erano molti altri temi inesplorati di cui volevate parlare, che per una ragione o un’altra sono stati tralasciati in The Talos Principle 1?

Jonas Kyratzes: La struttura di base di The Talos Principle 2 è stata creata durante le fasi finali di The Talos Principle 1, ed è anticipato sia in The Talos Principle 1 che nel suo DLC, Road to Gehenna. Abbiamo sempre saputo che fosse possibile raccontare altre storie in questo mondo, e la filosofia certamente non termina con le questioni di identità esplorate nel primo gioco. Al contrario, comincia lì.

IlVideogiocatore.it: The Talos principle 1 è stato rilasciato nel lontano 2014, e quasi una decade è passata. Il rapporto dei videogiocatori con il genere dei puzzleè cambiato nell’ultima decade? Se sì, come questi cambiamenti hanno influenzato The Talos Principle 2?

Jonas Kyratzes: Non so se siano cambiati, e se lo hanno fatto, non è stato qualcosa che abbiamo preso in considerazione. Abbiamo solo provato a fare un buon gioco che proseguisse logicamente dal primo.

IlVideogiocatore.it: In The Talos principle 1, la storia è stata scritta dopo aver stabilito le meccaniche essenziali, con la narrazione costruita attorno al gameplay. Il vostro approccio è cambiato nel sequel?

Jonas Kyratzes: Ncessariamente. Perché sia possibile un sequel genuino (invece di una mera ripetizione), design e narrazione devono andare di pari passo dal giorno 1. Ciascuno doveva tenere l’altro in considerazione così che potessimo dare forma al mondo creato alla fine della storia originale.

IlVideogiocatore.it: The Talos principle 1 aveva qualche puzzle particolarmente complesso. Dovremmo aspettarci un range di difficoltà simile nel sequel?

Jonas Kyratzes: La curva di difficoltà del sequel è un po’ differente, nel senso che i puzzle più complessi non sono tutti ammassati alla fine, e inoltre ci sono ridondanze e modi di saltare certi rompicapo. Questo significa che è molto più improbabile rimanere bloccati in modo frustrante. Detto ciò, c’è comunque un importante livello di sfida per coloro che lo desiderano, e la storia li ricompenserà per averli completati.

IlVideogiocatore.it: Alcune discussioni attorno The Talos principle 1 suggerivano che il gioco fosse a favore dell’ateismo. Anche se io ritengo che sarebbe eccessivamente semplicistico parlare del gioco in questi termini, certamente la religione è un tema centrale in The Talos principle 1. Pensi che la religione sia cruciale per definire la società e inoltre, la religione verrà discussa anche in The Talos principle 2?

Jonas Kyratzes: La fede, piuttosto che la religione per sé, è uno dei temi più importanti di The Talos principle 2. La fede può essere pericolosa, può essere fuorviante, ma è anche necessaria. La domanda è: dove poniamo la nostra fede? Nei leader, negli eroi, nella natura o in noi stessi, nell’umanità? Alexandra Drennan, la scienziata dal primo gioco, possedeva un bellissimo, ottimistico ethos umano. Che cosa ci vuole per rendere quella visione reale, e come puoi continuare ad avere fede quando è facile diventare cinici o misantropi?

IlVideogiocatore.it: Devolver Digital è sicuramente cresciuta in popolarità negli anni che separano The Talos principle 1 da The Talos principle 2. Questa crescita ha influenzato il vostro rapporto con il publisher?

Jonas Kyratzes: Croteam appartiene a Devolver, a dire il vero. Ma sono eccezionali e sono stati molto supportivi. Decisamente non c’è nessuno dietro di me che impugna una pistola mentre scrivo queste parole.

IlVideogiocatore.it: Alcuni ritengono che il vostro gioco usi l’intelligenza artificiale per parlare degli umani, mentre altri dicono che ha usato umani per parlare di IA. I recenti sviluppi dell’intelligenza artificiale generativa hanno influenzato il gioco, o la sua filosofia?

Jonas Kyratzes: A dire il vero, no. Gli LLMs sono una tecnologia affascinante, e il machine learning in generale ha molteplici applicazioni utili, ma non sono intelligenza artificiale generale, e non hanno avuto alcun impatto sulla storia.

IlVideogiocatore.it: Nel gameplay trailer, il narratore domanda “perché puzzle?”, suggerendo che questa volte il narratore domanderà il suo scopo dall’inizio. Dovremmo aspettarci un’esperienza più meta?

Jonas Kyratzes: Come nel gioco originale, i puzzle sono esplicitamente puzzle in un senso intradiegetico. Nel primo gioco dovevi domandarti perché ci fossero i rompicapo. Questa volta sei parte di una spedizione e gli altri membri della spedizione discuteranno i puzzle esplicitamente per quello che sono, domandandosi come si relazionino agli eventi del primo gioco e alla cultura della società che è stata creata da quegli eventi. Tuttavia, non considererei queste conversazioni come “meta”. Non è inteso come per trarre l’attenzione sulla natura artificiale della narrazione, ma segue la scienza fittizia della trama.

IlVideogiocatore.it: Dovremmo aspettarci che il narratore sia presente più frequentemente, raccontando la storia in un modo più “tradizionale” o dobbiamo aspettarci di nuovo di rivelare la storia attraverso elementi in-game?

Jonas Kyratzes: Non c’è alcun narratore in Talos 2, solo un gruppo di personaggi che si uniscono nella tua spedizione verso l’isola misteriosa in cui ha luogo la maggior parte del gioco. Scoprirai la storia attraverso una varietà di strumenti, compreso unire i pezzi autonomamente, e discutere le tue scoperte con i tuoi compagni.

IlVideogiocatore.it: Scrivere per un gioco filosofico come Talos Principle deve avere delle sfide uniche. Come bilanci il bisogno per trasmettere idee filosofiche complesse con il rendere la narrativa accessibile a un’ampia utenza?

Jonas Kyratzes: Penso che la maggior parte delle idee filosofiche possano essere espresse in termine relativamente accessibili. Qui e lì delle parole più specializzate sono necessarie, ma certamente non è necessario affogare il giocatore in un gorgo oscuro (i filosofi moderni lo fanno, se devo essere controverso, per nascondere la povertà delle loro idee). Il più grande rischio è semplicemente se le persone siano davvero interessate abbastanza con lo stato del mondo e della loro specie per preoccuparsene sinceramente. Ma anche questo è ciò di cui tratta il gioco.

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Perché Mortal Kombat ha fatto la storia dei videogiochi

Finish him”! Alzi la mano chi ricorda in quale videogame si sentono queste parole pronunciate da una voce profonda e cavernosa. Tutti, vero? Già, perché nessun videogiocatore può misconoscere “Mortal Kombat”. Questo iconico picchiaduro si trasformò ben presto in un must have di qualunque amante dei videogame, a prescindere dal genere preferito.

Chi come me ha sulle spalle parecchi lustri ormai, ha ancora i brividi nel ricordare la straordinaria brutalità di MK. Basti pensare che un altro imperatore dei picchiaduro, Street Fighter II, ricevette critiche per i disegni troppo forti dei combattenti battuti alla fine di ogni round. E quei disegni non hanno scandalizzato neppure un cucciolo di unicorno.

E invece Ed Boon e John Tobias nel 1992 decisero di spezzare una volta per tutte le catene del PEGI. Con Mortal Kombat inondarono di sangue, ossa e budella tutti gli schermi del mondo. In seguito alle proteste di diverse associazioni venne poi approntata in fretta e furia una patch che eliminava il sangue. Diciamocelo, però: in realtà nessuno l’ha mai usata.

Già, perché Mortal Kombat non affronta il tema della violenza in modo morboso. Ci si tuffa a piè pari senza limitarsi, facendo il giro e diventando sublime. Va a toccare le corde più profonde dell’essere umano, lo dilania dall’interno e ne scopre le carte.

Badate bene, non ho alcun interesse a fare filosofia spicciola, tutt’altro. Ma parlare di Mortal Kombat senza introdurre il tema degli istinti umani è impossibile.

Mortal Kombat

Tutto parte da una domanda ben precisa: perché nel lontano 1992 Mortal Kombat ebbe un successo talmente abbagliante da garantirsi uno stuolo di sequel che sono culminati, 31 anni dopo, con un remake del primo capitolo?

Potremmo rispondere parlando del comparto tecnico. Le scelte stilistiche, i colori, la caratterizzazione splendida dei personaggi (per approfondire tali argomenti rimando allo splendido pezzo del collega Marco Gioletta). Ma saremmo lontani dalla verità totale.

Badate bene, MK fu un vero e proprio big bang visivo per l’epoca. Con un colpo di spugna insanguinata furono relegati in un angolo i seppur splendidi disegni di Ryu, Ken, Blanka e compagnia cantante. Al loro posto apparvero sullo schermo personaggi assai più reali. Ciò fu possibile grazie alla grafica digitalizzata e del campionamento di movimenti fatti da atleti in carne ed ossa. Il risultato fu un film di kung fu infinito nei cabinati di tutte le sale giochi del mondo.

Ma bastò questo a trasformare Mortal Kombal nel più giocato picchiaduro di tutti i tempi? Fu davvero una mera questione grafico/stilistica? La risposta è semplice: no.

Mortal Kombat, invece, rispondeva a tutti i sentimenti che i giocatori di picchiaduro provano durante un match: la voglia di uccidere l’avversario, dilaniarlo, distruggerlo, spazzarlo via. Guardate le espressioni tirate dei gamer, per cercare di capire. Ancora di più, guardate l’estrema soddisfazione che si legge nel volto di quanti, vinti 2 round su 3, azzeccano la combinazione di tasti per sferrare la Fatality. Un godimento assoluto, ancestrale, animalesco. Fino a MK, battere l’avversario significava vederlo a tappeto, ora assumeva un senso tutto nuovo, macabro, violento, potente.

In un certo senso, se vogliamo, un illustre successore di MK, Tekken, coglie il nocciolo della questione. Pur non copiandone (giustamente) lo stile, trasforma i match in una battaglia di supremazia. Nello scontro è possibile, scegliendo tempestivamente le varie combinazioni, realizzare combo talmente lunghe e potenti da impedire, di fatto, all’avversario di contrattaccare fino alla sconfitta (Qualcuno ricorda un certo King…?)

Mortal Kombat fu proprio questo, e ritengo, non a caso fu scelta una grafica il più prossima, per l’epoca, al reale. Sullo schermo dovevano esserci delle persone da uccidere, sbudellare, fare a pezzi, schiacciare e tagliuzzare alla julienne.

Da quel primo, fantastico capostipite, MK ha visto un susseguirsi inarrestabile di sequel che mai hanno abbandonato il tema centrale della violenza. Certo, successivamente sono state introdotte anche le babality (per trasformare gli avversari in neonati indifesi) e le friendship (con cui il vincitore stringe un patto di amicizia con lo sconfitto). Ma, diciamoci la verità: hanno un sapore dolce/amaro. A tal proposito ho amato alla follia, la finta friendship di Joker nel recente Mortal Kombat 11. Durante la quale il folle arcinemico di Batman apparecchia tutto per accogliere lo sconfitto per poi finirlo inaspettatamente.

Ma quindi, Mortal Kombat è solo e soltanto violenza? Assolutamente no. Vale la pena fare una sottolineatura importante per evitare che ciò che sto scrivendo possa essere tacciato di miopia e faciloneria.

Mortal Kombat è un titolo che esalta la violenza e la assurge a tema fondamentale, ma non si esaurisce lì. Mortal Kombat è, probabilmente, uno dei titoli con la trama più lunga e meglio gestita dell’intera storia videoludica. I personaggi hanno alle spalle storie complesse, mitiche, magiche e anche tragiche. Sono caratterizzati in modo minuzioso, molto di più di qualunque altro combattente che appartiene ad altre dinastie videoludiche.

Non è un caso, infatti, che Mortal Kombat abbia ben presto sfondato la parete videoludica interessando sceneggiatori e registi cinematografici. I risultati, del 1995 e del 2021 non hanno fatto gridare al miracolo, ma sono sicuramente la dimostrazione che il franchise abbia qualcosa (molto) da raccontare al di là dei combattimenti e del sangue.

In definitiva, Mortal Kombat è riuscito e riesce tutt’ora a raggiungere livelli epici sia da un punto di vista estetico (l’estetica del macabro ovviamente) che da quello della narrazione. Dalla sua nascita ha fagocitato la preferenza di quasi la totalità degli amanti di genere, lasciando agli altri una buona fetta di consensi e poco altro (Tekken e Street Fighter non sono titoli dimenticati e continuano ad avere milioni di appassionati).

La saga oggi rinasce con un remake che sta già facendo discutere e che, ci scommettiamo, continuerà a far parlare di sé per parecchio tempo. Intanto noi amanti di MK ci lasciamo trasportare dalle sue atmosfere mistiche, affascinare dai suoi personaggi fantastici e torcere le budella per la sua eccessiva e scanzonata violenza.

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Armored Core VI: rigiocare la saga dopo 25 anni

Era il lontano 1998, settembre per la precisione. Da poco diciannovenne e felice possessore della prima Playstation, uscita qualche anno prima sul mercato, mi apprestavo a festeggiare il mio compleanno, rigorosamente posticipato poiché, cadendo in agosto, gli amici erano tutti in vacanza. Nel giorno del mio compleanno bis, i miei amici si presentarono a casa con una decina di giochi per la mia amata console: tra questi, non posso dimenticare, c’era un titolo che stuzzicò da subito la mia curiosità. Si trattava di Armored Core, AC per gli amici.

Genesi

Armored Core nasceva da un’idea di Shoji Kawamori, mecha designer di storiche serie di anime (una delle più note in Italia è Capitan Harlock), oltre che dall’amore sconsiderato dei giapponesi per i robot giganti.

La saga di FromSoftware era ed è formata da simulatori di combattimento tra Mech (o Mecha), enormi robottoni guidati da un pilota che se le danno di santa ragione in scenari più o meno realistici. L’aspetto migliore del primo Armored Core era il fatto che si trattava di un titolo 3D in cui era possibile spostarsi in ogni direzione, sparare ovunque e trovarsi contro nemici che provenissero da ogni angolo, con una fluidità al tempo inimmaginabile.

La caratteristica principale della serie è sempre stata la personalizzazione del proprio mech. Il gioco metteva a disposizione una marea di potenziamenti per gambe, braccia e armi; scalabili al massimo, altamente modulari, i mech potevano essere plasmati ad uso e consumo del giocatore per affrontare le varie missioni, a patto di avere abbastanza crediti per farlo. Come ottenere crediti? È presto detto: bastava concludere le missioni e ottenevate la giusta ricompensa, dopo aver scalato ovviamente il costo dei proiettili usati e le spese di gestione.

Caratteristiche di gioco

Esplorare quei mondi e quegli scenari mi teneva incollato allo schermo per ore. Armored Core aveva una grafica poligonale in 3D che non faceva gridare al miracolo, ma considerando l’anno di uscita e la piattaforma, non si poteva chiedere di più onestamente.

Il gameplay fu considerato ottimo dalla critica e piacque molto anche a me: lo trovai molto interessante e coinvolgente. Questo mio giudizio deriva dalle ore di divertimento che trascorsi e dalla buona struttura a missioni che From Software creò. Gli scenari infatti proponevano città piene di detriti, basi lunari e ambienti desertici. La base lunare, in particolare, attirò la mia attenzione poiché la missione che ospitava era caratterizzata dalla bassa gravità. Nello specifico, nel tentativo di salvare la terra da un attacco dalla luna, il nostro mech avrebbe dovuto fare i conti con la poca gravità che influiva sui salti e sui suoi movimenti.

Un piccolo appunto negativo sul gioco era la difficoltà nel controllare il mech con il pad: i tasti da utilizzare erano troppi, a volta anche contemporaneamente. A parte questo piccolo intoppo, il primo Armored Core risultava godibile sotto tutti i punti di vista, grazie alle missioni ben congegnate, alla fluidità dei movimenti e all’arsenale a disposizione. Infine, la longevità era un altro punto forte, con quasi 50 missioni da completare. Il gioco fu pubblicato nel luglio del 97 in Giappone per poi arrivare in Europa nel giugno dell’anno successivo.

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Approccio a Fires of Rubicon

L’università, la ricerca del lavoro e tante altre vicissitudini – naturali nella crescita di ogni individuo – mi hanno portato ad allontanarmi dal mondo videoludico (ma sono rientrato alla grande negli ultimi anni). Dopo 25 anni, in una calda giornata di fine agosto, mi imbatto in Armored Core VI Fires of Rubicon. Dopo una rapida ricerca mi rendo conto di essermi perso ben quindici capitoli (spin off inclusi), ma i ricordi suscitati dal gioco sono più forti del tempo perso. Così lo ordino senza troppo pensarci.

Il giorno dopo, al day one, Armored Core VI è nelle mie mani. Emozionato inserisco il gioco nella mia Xbox Serie X, ed eccomi di nuovo ai comandi di un mech, dopo tanto, tanto tempo. Quello che non avevo messo in conto è che si ha a che fare con From Software (Dark Souls, Elden Ring): la difficoltà di gioco è elevatissima e non “settabile”; inoltre, gli sviluppatori sono noti per gettare letteralmente il videogiocatore nel mezzo del gioco senza alcun preambolo. Complice la mia età avanzata e i riflessi non più pronti come una volta, mi sono ritrovato ad impiegare due giorni per sconfiggere il boss alla fine del tutorial, maledetta From Software!

Addentrandosi più nel gioco, comprendo che la struttura portante del gameplay è immutata, ma ovviamente abbiamo una storia che fa da contorno alle battaglie.

Caratteristiche narrative e tecniche

Sul pianeta Rubicon 3 è stata trovata una nuova fonte di energia che le varie corporazioni tentano con ogni mezzo di accaparrarsi. Il giocatore interpreta un mercenario che, combattendo ora per una ora per l’altra di queste fazioni, cambierà il destino della guerra e del pianeta. Niente di trascendentale o innovativo dunque. Forse però è proprio questa la forza di Fires of Rubicon.

Giocarci è sempre e maledettamente divertente. Le mappe sono credibili e varie, forse eccessivamente post apocalittiche, ma è la storia che lo impone. Peccato non aver implementato una specie di open world. Infatti, gli scenari sono delimitati da una banda rossa laterale che il mech non può oltrepassare. Una scelta che sicuramente limita la strategia di combattimento.

Voci confermate dicono che avremo ben tre finali diversi, quindi sarà obbligatorio effettuare almeno tre distinte run e fare scelte diverse per completare pienamente il gioco. Le missioni hanno alti e bassi, alcune sono troppo facili altre ai limiti dell’impossibile, con boss finali veramente duri a morire. Fortunatamente ci viene in soccorso la modularità dei mech e il loro collaudo, che è possibile effettuare prima di iniziare ogni battaglia. In questo modo è possibile rendersi conto della efficacia della configurazione adottata.

I combattimenti, infine, sono davvero spettacolari, con un arsenale molto vario da utilizzare che rende piacevole sparare missili di vario genere nei denti degli avversari!

Conclusioni

Armored Core VI è il videogioco che From Software avrebbe voluto sin dall’inizio, ma che i limiti tecnici della tecnologia a disposizione impedivano di creare a suo tempo. Fires of Rubicon è un titolo maturo con bellissimi modelli poligonali dei robot, un ambiente vivo e dinamico, una IA non eccelsa ma percepibile, una storia convincente e una personalizzazione del robot ancora maggiore.

La longevità è di circa 25 ore: si snoda tra 5 capitoli, 41 missioni e la possibilità di scegliere tra finali alternativi. Il gameplay di Armored Core VI – rispetto al primissimo del 97 – mantiene inalterato il divertimento introducendo, grazie a mappe ben strutturate, un’importante componente strategica che costringe il videogiocatore a sfruttare le caratteristiche ambientali per cercare di sorprendere i nemici e procurarsi un vantaggio su di loro.

In definitiva, Armored Core VI è un gran gioco, sia che siate fan della serie sia se non abbiate mai pilotato un mech prima d’ora. L’opera di From Software merita la vostra attenzione, poiché la soddisfazione ed il divertimento che può dare non è inferiore a qualsiasi soulslike di Hidetaka Miyazaki.

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Giocare a Starfield senza alcuna aspettativa, un’esperienza da 10 e lode

Io, su Starfield, non avevo aspettative, nel senso che non lo attendevo proprio. Forse per distrazione sono rimasto fuori da tutto quel susseguirsi di news e rumors che, come succede da anni, ogni titolo Bethesda si porta dietro in attesa del lancio ufficiale, generando quel mix di hype per un nuovo gioco che si sa, avrà tantissimo da offrire, e di critiche preventive da parte di chi si aspetta una marea di bug che probabilmente rimarranno irrisolti nei secoli.

Ecco, io da tutto questo ne sono rimasto fuori, oltretutto involontariamente, finché navigando nel negozio di Steam mi è arrivata la notifica (tardiva): “Ehi, è uscito Starfield, compralo”. Quel poco che avevo sentito a riguardo era estremamente negativo (e per alcune cose, a ragion veduta, ma ne parliamo tra un po’), eppure ho deciso di comprare lo stesso il gioco. Il risultato? L’ho trovato strabiliante.

Ora, di cose che non vanno ce ne stanno parecchie. Dalla grafica distante anni luce dagli standard odierni alla gestione dell’inventario rimasta immutata nel corso dei diversi Elder Scrolls e Fallout, caotica e poco intuitiva, così come accade per il quest tracker che accorpa tutto lasciando giusto la possibilità di raggruppare le missioni per tipologia o fazione (ma con oltre mille pianeti, non era forse il caso di aggiungere un organizer per località?).

Queste, in sintesi, sono le principali cose che non vanno, di cui probabilmente si è discusso ovunque e di cui ha parlato anche qualche Nostradamus prima di poter mettere le mani sul gioco. Eppure, come dicevo, sto trovando Starfield un gioco eccezionale. Mi sono chiesto perché, e questa volta il mio incarnare l’autentico spirito della contraddizione non c’entra nulla: Starfield mi piace come pochi altri giochi perché puoi fare una miriade di cose e io da questo titolo non mi aspettavo proprio nulla.

L’ultimo lancio di Bethesda prosegue a modo suo la piccola rivoluzione avviata da Baldur’s Gate 3: si tratta di un gioco completo, senza microtransazioni o dlc (al netto di future possibili espansioni, ovviamente) e una libertà di movimento infinita. Mi sono ritrovato subito a vivere le stesse vibes che mi hanno regalato i diversi Fallout, di cui ho un bellissimo ricordo e mi sono trovato bene nonostante l’assenza V.A.T.S. (ossia della mira assistita introdotta nel terzo capitolo, poi utilizzata anche in New Vegas, Fallout 4 e Fallout 76), essenziale per chi non è proprio un campione negli sparatutto.

La cosa che più mi piace in questo gioco sono le quest. Sono tantissime, così tante da mettere all’angolo un maniaco del completismo come me. Infatti, se Baldur’s Gate 3 (ormai metro di paragone di ogni titolo videludico) mi ha stordito per la vastità delle mappe, tanto da infastidirmi perché sapevo che mi sarei perso qualcosa, lo stesso non è successo con Starfield: i pianeti, gli avamposti e gli npc sono così tanti che mi sono felicemente arreso all’idea di non poter materialmente esplorare tutto in una sola run (e neanche in due, tre, forse dieci).  

Poi c’è la bella novità della personalizzazione della navicella spaziale: se ne può avere una o un’intera flotta e per ognuna di queste si può modificare ogni singolo pezzo. A questo si aggiunge la possibilità di costruire avamposti negli oltre 1.000 pianeti dislocati nei 100 sistemi solari della mappa. Insomma, una figata pazzesca.

Certo, non è tutto oro quello che luccica: c’è più di qualche elemento che ha fatto storcere la bocca anche ad un outsider come me. La cosa che più mi da fastidio è la gestione dei dialoghi: avviando una conversazione, l’inquadratura passa ad un primo piano dell’npc di riferimento, il quale non si muoverà più di tanto dalla posizione originale. Per farla breve, se avete interagito con un personaggio che era di spalle, è capace che questo vi parlerà senza guardarvi in faccia, che non è il massimo.

Stessa cosa vale per le interazioni dei seguaci, i quali ogni tanto proveranno ad inserirsi nei discorsi avviati dal personaggio con i vari npc, ma il 90% delle volte sono commenti a sé stanti e che non provocano alcuna reazione. Insomma, è come quando l’amico poco simpatico si mette in mezzo e fa una battuta che nessuno capisce e quindi tutti stanno in silenzio facendo finta di nulla. Il gelo.

Male anche la realizzazione degli npc privi di interazioni che popolano il mondo: sembra che sia stato fatto copia e incolla su una decina di modelli e che le varie città siano abitate da un’infinità di fratelli gemelli, oltretutto vestiti uguali. Su questo bisogna chiudere un occhio o si rischia di spegnere il pc o la console.

Pecche inaccettabili da un gioco così tanto atteso, ma se non ci si aspetta nulla non è un problema passarci sopra. Anche la tanto citata “ripetitività” dei pianeti è stata criticata forse ingiustamente: non è vero che gli ambienti sono tutti uguali. Anche le lune, prive di vegetazione e fauna, presentano differenze tra loro (e ho girato già parecchi sistemi). Sulla presenza di insediamenti nemici estranei a quest (ossia i mini dungeons) è vero, vige ancora la ricetta Bethesda che abbiamo tutti quanti sperimentato per anni sia negli Elder Scrolls che nei Fallout: si trova la base nemica dove ci sono pirati spaziali, contrabbandieri o un’invasione di insettoidi alieni, la si ripulisce e si torna a casa con il bottino generato casualmente. E che male c’è, soprattutto vista l’enorme mole di quest che ci si trova a dover affrontare, già alle prime ore di gioco?

In conclusione, Starfield è un titolo da consigliare assolutamente a tutti gli amanti del genere che hanno voglia di esplorare, di immergersi in un viaggio planetario in cui le scelte contano, in cui l’azione frenetica si alterna con meritati momenti di pausa ad esplorare pianeti nascosti o a modificare e migliorare la propria nave, oppure a riposarsi nel proprio rifugio costruito con tanto sudore.

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La storia di Mortal Kombat: ascesa, declino e redenzione

Da pochi giorni è finalmente disponibile Mortal Kombat 1, dodicesimo episodio della celeberrima saga di NetheRealm Studios. Per celebrare l’occasione abbiamo deciso di proporvi un piccolo viaggio nel tempo, alla riscoperta dei primi episodi di questa pluricelebrata serie.

Questi titoli, usciti originariamente in versione arcade e convertiti per praticamente tutti i sistemi dell’epoca, sono stati gli artefici del successo di Mortal Kombat e della nascita della sua leggendaria eredità. Recuperiamo una manciata di gettoni e prepariamoci a riscoprire le origini di uno dei dominatori assoluti del genere dei picchiaduro. Fight!

Mortal Kombat: il primo mitico episodio

Il Mortal Kombat originale vide la luce nel 1992 in versione arcade ad opera di Midway Games. In quel periodo il panorama dei giochi da sala era quasi interamente dominato dal leggendario Street Fighter 2 di Capcom. Anche il solo pensare di competere con quel titolo sembrava pura follia.

Eppure Midway riuscì nell’impresa, dal momento che il suo picchiaduro si rivelò un successo planetario, divenendo uno dei cabinati più giocati in assoluto. Come se non bastasse, nel corso del 1993, arrivò su praticamente ogni sistema di gioco esistente, comprese le console portatili Gameboy e Game Gear.

Gli ingredienti del successo furono molteplici. Anzitutto l’utilizzo della grafica digitalizzata, novità assoluta per quei tempi. Midway infatti assoldò un team di attori le cui movenze vennero trasposte direttamente in forma digitale. I videogiocatori ebbero davvero l’impressione di trovarsi di fronte ad un film di arti marziali interattivo.

La trama del gioco inoltre era davvero avvincente e veniva sviscerata nei dettagli nell’intro di gioco e nei finali dei personaggi. Fulcro della storia era il Mortal Kombat, torneo interdimensionale utilizzato dall’Outworld per impossessarsi degli altri regni. I guerrieri della terra, guidate dal Dio del tuono Raiden, hanno il compito di sconfiggere lo stregone Shang Tsung e i suoi guerrieri per salvare la terra dalla conquista.

I personaggi del gioco erano tutti ben caratterizzati, sia visivamente che per quanto riguarda il loro background. Ad entrare nel cuore dei videogiocatori più di ogni altro furono però i due ninja, Sub-Zero e Scorpion, che divennero ben presto le due figure più iconiche della saga.

Per quanto riguarda il gameplay, Mortal Kombat proponeva un sistema a cinque tasti: due pugni, due calci e una parata. Gli attacchi base dei personaggi tendevano ad essere molto simili ed erano le mosse speciali a differenziare in maniera significativa i vari lottatori. Rispetto a Street Fighrer 2 il gameplay era sicuramente meno profondo, ma dannatamente divertente, intuitivo e dinamico: seppe far breccia nell’animo dei giocatori.

Naturalmente, l’ultimo ingrediente del successo di Mortal Kombat fu la sua incredibile violenza. Durante gli scontri, infatti, ogni colpo andato a segno avrebbe causato copiosi spruzzi di liquido rosso dal corpo del nostro avversario. Come se ciò non bastasse, al termine dello scontro, dopo l’apparizione dell’iconica scritta “Finish Him!”, il giocatore avrebbe avuto la possibilità di eseguire le celeberrime fatality: mosse finali, attivabili tramite combinazione, che causavano l’uccisione dell’avversario, spesso in modi davvero spettacolari e brutali.

Mortal Kombat II: un sequel leggendario

Nonostante l’incredibile successo del primo capitolo, Midway non rimase a dormire sugli allori. Già nel corso dell’anno successivo, il 1993, fece la sua apparizione nelle sale giochi di tutto il mondo Mortal Kombat II.

Ambientato interamente nel regno di Outworld, Mortal Kombat 2 introdusse Shao Kahn, imperatore di Altromondo e nuovo antagonista del gioco. Ancora una volta, i guerrieri della terra erano chiamati a difendere il loro mondo attraverso il Mortal Kombat, con l’ulteriore svantaggio di combattere in territorio nemico.

Mortal Kombat 2 non introdusse nessun elemento particolarmente innovativo a livello di gameplay, ma si limitò a potenziare e migliorare ogni singolo aspetto del gioco originale. La grafica, il sonoro, il numero dei lottatori selezionabili, persino la complessità della trama. Ogni singolo elemento di Mortal Kombat 2 ampliava e perfezionava il suo predecessore.

Unica novità davvero degna di nota era la netta accellerazione del ritmo di gioco, che rendeva MK2 molto più veloce e frenetico del suo predecessore. Il gioco introdusse anche un maggior numero di fatality per personaggio, oltre alle babality (con cui potevamo tramutare l’avversario in un bambino) e le friendship (simpatici scherzi che deridevano l’avversario anzichè ucciderlo).

Tutti questi elementi fecero di Mortal Kombat II un successo planetario, apprezzato dalla quasi totalità dei giocatori e convertito ancora una volta per ogni sistema casalingo esistente. Il gioco è tuttora considerato uno dei picchiaduro più famosi ed influenti di sempre.

Unico neo del gioco era costituito dalla sua terribile difficoltà, dovuta anche ad una CPU programmata in modo davvero perfido. Oltre ad imbrogliare sui frame delle mosse, infatti, il computer era anche in grado di “leggere” in anticipo i comandi inseriti dal giocatore, in modo da anticiparli. L’unica maniera davvero efficace per contrastare la CPU era imparare a sfruttare i suoi pattern preimpostati. Così facendo il giocatore aveva la possibilità di anticipare a sua volta le azioni nemiche. Un esempio pratico era l’utilizzo del salto all’indietro che, da una certa distanza, spingeva sempre il computer a saltare a sua volta, esponendosi agli attacchi.

Mortal Kombat 3: un’eredità pesante

Mortal Kombat 3

Dopo Mortal Kombat 2 passarono due interi anni prima che Midway decidesse di riproporre il suo cavallo di battaglia. Nel frattempo, il mondo dei videogiochi cambiò profondamente. Le console a 16 bit vennero pian piano soppiantate dalle più prestanti 32 bit, come il Sega Saturn e la prima mitica Playstation.

Anche il genere dei picchiaduro, mietitore assoluto dei primi anni 90, stava cambiando rapidamente. Titoli come Virtua Fighter e Tekken avevano letteralmente stregato i videogiocatori, attratti dal fascino dei nuovi giochi in 3D. Nonostante il clima difficile, nell’aprile del 1995 Mortal Kombat 3 invase le sale giochi di tutto il mondo, riuscendo di nuovo ad ottenere un ottimo successo.

Questo terzo episodio presentava toni ed atmosfere ancora più oscure ed opprimenti rispetto ai suoi predecessori. Il malvagio Shao Kahn stavolta decide di aggirare il Mortal Kombat, invadendo direttamente il pianeta terra. Di conseguenza, gli stages di MK3 presentano scenari presi sia da Outworl sia da una terra sull’orlo della catastrofe.

Rispetto ai predecessori, Mortal Kombat 3 pigiava ancora di più sull’accelleratore, con un gameplay ancora più forsennato e veloce. L’aggiunta delle combo e del pulsante della corsa aumentava ulteriormente la frenesia degli scontri e i riflessi dei giocatori dovevano essere più che buoni per ottenere risultati accettabili.

Anche il comparto grafico e il sonoro del gioco migliorarono ulteriormente rispetto al secondo capitolo, sebbene le tecniche di digitalizzazione risultassero ormai superate. Naturalmente fecero il loro ritorno le mitiche fatality, accompagnate dalle babality, dalle friendship e dalle nuovissime animality. Queste ultime vedevano il nostro combattente tramutarsi in una vera e propria belva, che in alcuni casi sbranava interamente l’avversario.

Pur ricevendo una buona accoglienza, Mortal Kombat 3 non riuscì a conquistare interamente il pubblico, soprattutto a causa di un roster piuttosto bislacco che inseriva un enorme numero di new entry, a volte non proprio azzeccate e andava ad escludere lottatori leggendari come Scorpion, Raiden e Kitana.

Per ovviare a questo difetto l’anno successivo Midway pubblicò due nuove versioni del gioco, Ultimate Mortal Kombat 3 e Mortal Kombat Trilogy, che andarono ad espandere in modo molto significativo il roster, lasciando praticamente inalterato il gioco.

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Una transizione difficile

Nel 1997 Midway decise che era giunto il momento anche per Mortal Kombat di passare alla terza dimensione. Ecco dunque arrivare Mortal Kombat 4, primo titolo della saga a proporre una grafica interamente in 3D.

Mortal Kombat 4 introdusse Shinnok, letale divinità anziana nemica di Raiden, evaso dal Netherrealm per invadere la terra. Toccherà di nuovo a Raiden e ai suoi guerrieri sconfiggerlo e porre fine alla sua minaccia. Queste premesse permisero ai programmatori di proporre un cast davvero ben assortito, con quasi tutti i volti storici della saga affiancati da alcune new entry davvero interessanti.

Le novità introdotte da Mortal Kombat 4 erano davvero molte. I personaggi avevano la possibilità di estrarre un’arma tramite particolari sequenze e di sfruttarla temporaneamente. In più, all’interno degli stages erano presenti diversi elementi interattivi, che potevano essere raccolti ed utilizzati come strumenti offensivi. Inoltre, i personaggi avevano la facoltà di muoversi in profondità per effettuare particolari schivate, sebbene gli scontri restassero confinati su un’asse orizzontale.

Nonostante tutte queste innovazioni, Mortal Kombat 4 non riuscì a far breccia nei cuori dei giocatori. Questo insuccesso fu anzitutto dovuto ai controlli, piuttosto legnosi e non sempre rispondenti. Inoltre, pur presentando una grafica interamente poligonale, Mortal Kombat 4 restava saldamente ancorato ai canoni dei giochi di combattimento 2D: questa situazione creò una sorta di ibrido che non seppe accontentare pienamente né i fan dei picchiaduro in 3D né gli amanti dei classici giochi bidimensionali.

Un lungo percorso di redenzione

Dopo Mortal Kombat 4 la saga iniziò un lungo periodo di sperimentazione. I giochi che si susseguirono nel corso degli anni, infatti, pur presentando una qualità più che discreta e diverse interessanti innovazioni, non seppero raggiungere i fasti degli episodi originali.

Questo almeno fino al 2011, data di uscita di Mortal Kombat, nono episodio della saga. Questo titolo, uscito per PS3, Xbox 360 e PC, propose un vero e proprio reboot della saga. Grazie ad una serie di viaggi del tempo, infatti, la timeline di Mortal Kombat venne riscritta, annullando tutti gli eventi successivi a Mortal Kombat 3.

Anche il gameplay venne profondamente rinnovato e migliorato, regalando un picchiaduro divertente, profondo e godibile. Il successo del nuovo Mortal Kombat permise alla saga di vivere una vera e propria seconda giovinezza, grazie ad una nuova serie di giochi dalla qualità davvero eccelsa.

Infine, il punto più alto della saga è stato raggiunto dal meraviglioso Mortal Kombat 11, uno dei migliori picchiaduro di sempre. Vedremo se Mortal Kombat 1 saprà essere all’altezza di questi grandi picchiaduro.

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Editoriali

Baldur’s Gate: vale la pena giocare i primi due capitoli?

Che Baldur’s Gate 3 sarebbe stato un successo fuori scala si sapeva già da tempo, da almeno tre anni, quando Larian Studios annunciò di aver preso la pesante eredità dello storico titolo.

I numeri successivi al lancio hanno persino superato le già alte aspettative, ciò significa che il gioco non ha catturato solo i nostalgici o i fan dei giochi di ruolo cartacei, ma anche un’importante platea di nuovi giocatori, che magari di riflesso ora saranno interessati anche a testare per la prima volta Dungeons & Dragons e simili.

Insomma, stiamo parlando di un evento che ha sconvolto non solo il mercato dei videogiochi, ma un intero settore ludico che spazia da pc e console ai giochi pen & paper, ma anche serie televisive, libri e chi più ne ha più ne metta.

Di questo ne abbiamo già parlato in precedenza, ma c’è un elemento fondamentale che ha permesso a BG3 di essere quello che è oggi: il peso del nome che il titolo porta con sé.

Già prima del terzo capitolo, i due predecessori avevano letteralmente sconvolto il mondo dei videogiochi, diventando una tra le prime trasposizioni videoludiche di un gioco di ruolo cartaceo. Partiamo da un presupposto: Baldur’s Gate 1 e 2, entrambi capitoli di una saga prodotta da Bioware, non hanno nulla a che vedere con Baldur’s Gate 3 (o quasi nulla, ma non vogliamo fare spoiler su certi personaggi, come per esempio un certo criceto spaziale…). Non si tratta solo di ovvie questione di differenze grafiche e giocabilità (per i primi due capitoli parliamo di titoli rispettivamente del 1998 e del 2000), ma anche la storia è completamente slegata.

Vale dunque la pena giocare oggi, per chi non l’ha mai fatto, Baldur’s Gate 1 e 2? Sì, ma solo se vengono soddisfatte determinate condizioni. Per cimentarsi in una simile avventura serve una buona dose di determinazione e curiosità, perché il comparto grafico è talmente datato da fare male agli occhi, la visuale isometrica con combattimenti in tempo reale è piuttosto caotica per chi ormai è abituato a giocare con il sistema a turni e soprattutto non ci sono tutorial. Infatti, Baldur’s Gate 1 e 2 danno per scontato che i giocatori conoscano la seconda edizione di D&D (Advanced Dungeons & Dragons, anno di pubblicazione 1989, mentre Baldur’s Gate 3 è basato sulla quinta edizione).

Detto ciò, se si soddisfano questi requisiti, chi non ha mai giocato ai primi due capitoli dovrebbe farlo, subito. Una storia coinvolgente e indimenticabile trasporta il giocatore nell’Amn, tra la città di Baldur’s Gate e i suoi confini, permettendo al videogiocatore di esplorare piccoli e grandi insediamenti, terre selvagge, incontrare un grande numero di potenziali alleati, ognuno con il suo allineamento e i suoi obiettivi.

La generazione del personaggio è completamente libera: non ci sono pregen tra cui scegliere e bisogna dare vita alla propria fantasia, selezionando la razza (tra i classici umani, elfi, mezzelfi, nani, gnomi e così via), la classe, l’allineamento (se buono o malvagio, caotico o legale) e quel minimo di estetica che il gioco permette.

Anche in Baldur’s Gate 1 e 2 le scelte fanno la differenza. Manca tutta la componente dei tiri abilità, ma le finestre di dialogo permettono al giocatore di scegliere le proprie risposte, a volte con stringhe aggiuntive dettate dalla classe scelta (il Paladino, per esempio, ha spesso maggiori opzioni). Una novità per il periodo in cui vennero pubblicati i due titoli; infatti, BG fu tra i primi a dare l’impressione che il personaggio fosse l’estensione del videogiocatore.

Una menzione speciale per la composizione del party: in entrambi i capitoli possiamo portare con noi cinque companion, per un totale di sei personaggi. Le possibilità di scelta, però, sono molto vaste: nel primo capitolo possiamo scegliere tra un totale di 25 npc (29 nell’Enhanced Edition), mentre nel secondo ce ne sono 17 (20 nell’Enhanced Edition). Trovarli non è automatico. A volte potrebbe essere necessario completare delle quest o semplicemente essere abbastanza curiosi da parlare con tutti i personaggi che incontriamo sulla mappa per scoprire che tra loro si cela un potenziale alleato. Mantenerli è ancora più complesso: ognuno di loro ha una propria personalità e se il gruppo agisce in contrasto con i loro ideali potrebbe portarli a lasciarvi a piedi, anche nel bel mezzo di un dungeon (a volte potrebbero addirittura rivoltarsi contro l’eroe e gli altri suoi compagni). Altri, invece, hanno esigenze, come per esempio una quest personale, che se non viene completata entro una determinata scadenza li porta a spazientirsi e, ancora una volta, a lasciarci.

In tutto questo, non ci sarà nessun accampamento raggiungibile facilmente con un clic sull’interfaccia: nel migliore dei casi, se lasciamo un companion, ci dirà dove possiamo incontrarlo se abbiamo ancora bisogno di lui, in altre occasioni, i più orgogliosi, ci saluteranno per sempre.

Entrambe le avventure si concentrano nella Costa della Spada. Nel primo capitolo si parte dal livello 1 nella cittadella fortezza di Candlekeep, per poi giungere a Baldur’s Gate nel late game, con un epico combattimento finale e annesso colpo di scena a cui si dovrebbe assistere una volta raggiunto il livello 10. Il secondo capitolo, invece, è il naturale prosieguo del primo: si riparte dal livello 10 proprio dove avevamo lasciato il nostro eroe e parte dei compagni più iconici. Altri volti noti potranno essere incontrati per strada, così come altre facce nuove potranno entrare a far parte del gruppo.

Rigiocare i titoli, per chi non l’ha mai fatto, oggi potrebbe essere un po’ più semplice. Infatti, rispettivamente nel 2012 e nel 2013, sono uscite le versioni Enhanced Edition, con grafica e sonoro aggiornato, formato widescreen e HD; tra l’altro, entrambi i giochi sono stati prodotti anche in versione iOS.

La storia di Baldur’s Gate non finisce qui: entrambi i capitoli hanno delle loro espansioni, rispettivamente Tales of the Sword Coast e Siege of Dragonspear per il primo e Throne of Bhaal per il secondo, ma ci sono anche gli standalone della serie Dark Alliance (Recension del primo capitolo), usciti per console come dei platform d’azione in cui la storia lascia il passo alle sane botte.

Un successo stratosferico, dunque, quello dei primi Baldur’s Gate, che hanno dato vita anche ad altri gioielli di questo genere, come Icewind Dale 1 e 2, Neverwinter Nights 1 e 2 e Planescape: Torment. Giochi che, però, meritano più di qualche riga in coda a questo articolo.