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L’esplorazione come narrazione: da Stray a Flow

Cosa significa esplorare? Conoscere l’ignoto o scoprire meglio sé stessi? Nel cinema e nei videogiochi l’esplorazione può assumere diverse forme come il viaggio interiore di un personaggio o la scoperta di un nuovo mondo. Stray (2021) e Flow (2024) rappresentano due prospettive complementari sullo stesso tema, invitando a riflettere su come l’ambiente e la narrazione visiva possano trasformarsi in un potente strumento di connessione emotiva.

Stray, celebre videogioco indie di BlueTwelve Studio e Annapurna Interactive, è ambientato in una città futuristica in declino, dalle tinte cyberpunk, popolata da robot senzienti. Il giocatore assume il ruolo di un gatto randagio che intraprende un viaggio per ritrovare la strada di casa. Lungo il suo percorso svilupperà un’amicizia insolita con un’IA chiamato B12, scoprendo pian piano frammenti di un mondo un tempo esistente e attualmente privo di esseri umani.

Flow, film d’animazione di Gints Zilbalodis narra le avventure di un micio solitario alle prese con un diluvio universale. La ricerca di un modo per sopravvivere lo porterà ad intraprendere un viaggio in compagnia di altri animali attraverso paesaggi onirici e surreali.

La narrazione visiva in videogiochi e film

La narrazione visiva differisce profondamente tra medium videoludico e cinematografico.

Nel sistema di coinvolgimento ludico una caratteristica essenziale è l’interattività: la richiesta di un comando da parte del giocatore che non si limita all’osservazione della scena che gli si pone davanti. Sono presenti rarissimi casi cinematografici in cui questo è possibile, come Bandersnatch (2018)o Erica (2019), ma si tratta principalmente di film in cui è possibile imboccare diverse biforcazioni narrative. Quello a cui mi riferisco è in particolar modo la possibilità di esplorare il mondo che ci circonda scegliendo noi cosa, come e a quale ritmo vederlo.

Stray utilizza la narrazione visiva in modo profondamente interattivo. La città con i vicoli illuminati da neon e le atmosfere decadenti diventa un espediente narrativo a sé stante che racconta la storia di un mondo in cui l’elemento antropico è svanito ormai da tempo, lasciando spazio alle macchine. Il giocatore scopre gradualmente l’ambiente esplorandolo, scoprendo via via pezzi di un puzzle più grande. Il racconto si evolve dinamicamente adattandosi alle nostre azioni, proprio come un viaggio esplorativo che diventa metafora del nostro coinvolgimento.

La narrazione cinematografica, al contrario, si concentra sulla capacità di guidare lo spettatore attraverso un percorso emotivo e visivo senza l’intervento diretto. In Flow questo processo è affidato principalmente all’animazione, all’estetica minimalista e al movimento del protagonista.

Pur essendo un film, privo dunque di un naturale elemento interattivo, la regia riesce ad offrire l’illusione di un’esplorazione attiva. La curiosità del micio guida la narrazione visiva, stimolando l’immaginazione dello spettatore su ciò che potrebbe nascondersi oltre i limiti visibili dell’ambiente che lo circonda.

L’importanza dell’elemento ambientale

Stray: luce

Ad arricchire l’esperienza narrativa, l’ambiente non rappresenta solo lo scenario in cui si svolgono gli eventi, ma interagisce direttamente con il protagonista favorendo la connessione tra i due.

In Stray, l’interazione con l’ambiente conferma il ruolo attivo degli scenari. Ciò è evidente sin dalle prime ore di gioco con i neon che lampeggiano in risposta al miagolio del gatto. La presenza di ostacoli che si frappongono tra lo spostamento da un’area all’altra contribuisce alla resa di un mondo vivo e reattivo. Inoltre, la meccanica del parkour, lo spostamento di oggetti e la presenza di puzzle ambientali, pur nella loro semplicità, stimolano la curiosità del giocatore suggerendogli di soffermarsi di più sui vari luoghi che si trova davanti e restituendo l’idea di un ambiente non solo vissuto, ma anche oggetto di modifiche da parte del protagonista.

In Flow i paesaggi evocativi rappresentano stati emozionali e cambiamenti interiori del protagonista. L’esplorazione di spazi differenti delinea un ritmo dinamico in cui ogni frammento dell’avventura diventa essenziale per la costruzione di un disegno più grande, generando una dinamica implicitamente simbolica.

Tematiche e simbolismo

A livello tematico le due opere contengono alcuni spunti simili pur mantenendo la loro unicità e le loro differenze.

Una delle tematiche più importanti, se non la principale, apparentemente antitetica rispetto all’assenza degli esseri umani è proprio la riflessione sul concetto di umanità. Entrambe le opere si pongono un interrogativo fondamentale: “È indispensabile essere umani per possedere umanità?” Questo viene esplorato attraverso personaggi che, in situazioni ardue manifestano qualità tipicamente umane quali l’altruismo e l’empatia.

Stray: gioco


In Stray, l’assenza degli esseri umani è una diretta conseguenza della progressione tecnologica incontrollata. In questo mondo, privo ormai di esseri umani, i robot senzienti hanno sviluppato valori e legami che richiamano caratteristiche tipicamente umane. Il gatto, unico essere vivente presente, attraversa il mondo devastato e, grazie alle sue interazioni, si pone come catalizzatore di riflessioni sul significato di umanità, suggerendo che le caratteristiche che crediamo ci appartengano possono emergere anche oltre i confini dell’umanità biologica.

In Flow, il viaggio è narrato attraverso un cast di soli animali. Le loro rappresentazioni allegoriche ci mostrano come l’armonia, basata su compromessi e somiglianze più che differenze sia essenziale per affrontare un pericolo comune.

L’elemento acquatico si rivela centrale, passando da forza distruttiva a presenza costante che modella il percorso del protagonista. Più di un semplice disastro naturale, assume un significato simbolico, diventando spazio di esplorazione e adattamento. Il gatto, attraversando e riaffrontando l’acqua in più occasioni, trasforma la sensazione di minaccia in un’opportunità di crescita.

La ragione della scomparsa umana è indefinita, anche se si lascia intendere che la causa sia una malagestione delle risorse naturali.

Stray: passeggiata

Esperire le due opere

In definitiva, Stray, si affida all’interattività come aspetto basilare per veicolare il coinvolgimento emotivo. I luoghi evocativi raccontano il mondo distopico in cui ci muoviamo, mentre i legami che sviluppiamo con i personaggi, principali e secondari, arricchiscono l’esperienza del giocatore.

Un tratto significativo del gioco è la capacità di farci sentire davvero nei panni di un gatto: funzioni che a prima vista sembrano semplici espedienti ludici come la possibilità di miagolare, farsi le unghie o accoccolarsi su una superficie morbida restituiscono invece una sensazione ben più profonda. Questi momenti, apparentemente giocosi, contribuiscono a costruire un’intesa affettiva con il protagonista, amplificando l’immersione e offrendo al giocatore una nuova dimensione sensoriale coinvolgente.

Stray: riposo

Flow punta ad offrire un’opportunità meditativa, in cui l’assenza di dialogo diventa fondamentale per non disturbare la quiete del viaggio intrapreso dal protagonista. Lo spettatore si trova dunque in una posizione di contemplazione passivo-riflessiva.

Il ritmo del film segue una linea sinuosa, che si muove fluidamente, si trasforma, avanza e a tratti sembra tornare indietro in una danza che rispecchia lo stato emotivo del personaggio principale. La colonna sonora sposa perfettamente questo concetto, coinvolgendo lo spettatore a un livello profondo. I suoni, infatti, sembrano accompagnare ogni movimento del gatto, trasformandosi in un filo conduttore che ne guida l’attenzione e amplifica l’immedesimazione.

Conclusione

L’esplorazione, come tema centrale, viene trattata in modo unico sia nel contesto cinematografico che videoludico. Entrambe le esperienze ci offrono modi diversi di esplorare, ma al contempo ci accompagnano verso lo stesso fine: la scoperta di sé, del mondo intorno a noi e delle emozioni che lo definiscono.

L’analisi delle due opere, Stray e Flow, rende più ovvia la sfumatura tra i due media, con il cinema che si ispira all’interattività del videogioco e i videogiochi che adottano tecniche narrative cinematografiche.

Il medium videoludico, con la sua capacità di coinvolgere attivamente lo spettatore, si afferma come una forma d’arte a sé stante, che combina estetica, narrazione e interattività, arricchendo la percezione dell’arte contemporanea e offrendo nuove modalità di espressione e di fruizione culturale.

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Società

I cinque peggiori film tratti dai videogiochi

Fin dalla sua uscita nelle sale cinematografiche, Super Mario – il film di Nintendo e Illumination – continua a macinare incassi e ad infrangere record. Mentre scriviamo queste righe, l’opera ha raggiunto l’incredibile cifra di 1 miliardo e 159 milioni, posizionandosi al quinto posto tra i film di animazione più remunerativi di sempre. Nel corso dell’anno, la serie HBO di The Last of Us è stata una delle più viste e apprezzate dell’intera annata, così come altri due film tratti dai videogiochi di Sonic The Hedgehog, che hanno fatto registrare ottimi incassi e incontrato il favore del pubblico.

Insomma, sembra proprio che il mondo del cinema e delle serie tv abbia trovato finalmente la giusta formula per sfruttare e valorizzare al meglio i nostri amati videogiochi, ma non è sempre stato così.

Nel corso degli anni, noi appassionati di videogiochi abbiamo dovuto sopportare cocentissime delusioni, assistendo alla nascita di veri e propri obbrobri cinematografici ispirati a molti dei nostri giochi preferiti. Molti di questi film non solo non rendevano minimamente giustizia ai videogiochi da cui erano tratti, ma spesso e volentieri avevano poco o niente a che spartire con essi. In questo articolo andremo a raschiare il fondo del barile, stillando una classifica dei cinque peggiori film in assoluto tratti dai videogiochi. Prendiamo un bel respiro e prepariamoci ad imboccare il viale dei ricordi, nella speranza di non risvegliare antichi incubi a lungo sopiti.

5. Alone in the Dark

Alone in the Dark fu uno degli esempi più eclatanti delle pessime doti registiche di Uwe Boll

Uscito nel 2005 sotto la regia del leggendario Uwe Boll (che, per chi non lo sapesse, è considerato uno dei peggiori registi di sempre), il film prende molto liberamente spunto da Alone in the Dark: The New Nightmare, quarto capitolo della serie.

Alone in the Dark racconta la storia del detective dell’occulto Edward Carnby (interpretato da Christian Slater) il quale, indagando su una serie di omicidi, si imbatterà nel mistero di alcuni manufatti magici in grado di comunicare col mondo dell’aldilà.

Tra effetti speciali scadenti, combattimenti al limite del ridicolo e una regia a tratti davvero imbarazzante (l’uso della luce ad intermittenza in particolare è davvero tremendo) il film si trascina per 96 interminabili minuti attraverso una trama banale e terribilmente confusionaria. Completa il quadro la recitazione dei protagonisti, a tratti davvero imbarazzante, in particolare quella della protagonista, Tara Reid.

Tirando le somme, Alone in The Dark è un film davvero anonimo, noioso e dimenticabile. Come stiamo per scoprire, però, esiste di molto peggio.

4. Super Mario Bros (1993)

Il primo film dedicato a Super Mario fu un esperimento quantomeno bizzarro

Forse per i lettori più giovani sarà una scoperta, ma il recente film di animazione non è stata la prima apparizione del nostro Mario nel mondo del grande schermo. Infatti, nel 1993 i registi Rocky Morton e Annabel Jankel realizzarono uno strampalato lungometraggio dedicato al baffuto idraulico di casa Nintendo. Sebbene una ristretta cerchia di fan apprezzi tuttora questo film e lo consideri una sorta di esperimento pionieristico, è davvero difficile trovare aspetti positivi in questa pellicola analizzandola con un minimo di oggettività.

L’errore di fondo dei registi è stato cercare di trasporre le avventure di Mario in un contesto realistico e fantascientifico. Dunque scordiamoci i regni dei funghi, castelli, navi volanti e principesse da salvare (o quasi). Al loro posto ecco una dimensione distopica dominata da esseri senzienti evoluti dai dinosauri, armi avanzatissime in gradi di rievolvere il bersaglio, stivali jet per spiccare balzi altissimi e una marea di altre amenità futuristiche.

Oltre alla trama debole e stereotipata e agli effetti speciali abbastanza miseri, meritano una menzione i costumi, davvero grotteschi e ridicoli. Su tutti spicca Koopa (nome giapponese originale di Bowser), rappresentato come una sorta di uomo-lucertola in giacca e cravatta intento a dominare la sua dimensione e a cercare di invadere le altre.

Nemmeno la presenza del grande Bob Hopkins nei panni di Mario riesce a risollevare questo film, che risulta davvero troppo mediocre e sopra le righe. Potrebbe piacere solo ai fan sfegatati di Mario e dei film trash in generale. Gli altri si tengano alla larga e si godano il nuovo film.

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3. Mortal Kombat: Distruzione Totale

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Il secondo film di Mortal Kombat fu uno dei peggiori sequel di sempre

Ammettiamolo: il primo film di Mortal Kombat non fu così terribile. Certo, il film di Anderson del 95 non era assolutamente un capolavoro. La trama era piuttosto banale e molte scene erano al limite del grottesco. Tuttavia, il film di Mortal Kombat ebbe l’indubbio merito di riuscire a replicare le atmosfere del gioco da cui era tratto, rimanendogli molto fedele nella trama e nella caratterizzazione dei personaggi (ad eccezione dei ninja, vero punto debole del film).

Purtroppo ogni elemento positivo della prima pellicola venne preso e gettato direttamente nell’immondizia due anni più tardi, quando uscì nelle sale Mortal Kombat: Distruzione Totale (Annihilation in originale).

Questo film, diretto da J. R. Leonetti, commette l’enorme errore di portare all’eccesso tutti quegli elementi della prima pellicola che strizzavano l’occhio ai videogiochi originali. Nel film abbiamo caterve di personaggi infilati a forza solo perché presenti nei videogiochi (spesso senza nemmeno presentarli o spiegare chi essi siano) che poi spariscono dopo un paio di scene, senza nemmeno proferire parola (vedi Cyrax).

I combattimenti inoltre sono letteralmente infarciti di mosse speciali prese pari pari dal videogioco, senza curarsi minimamente di renderle credibili. I risultati sono davvero oltre il limite del ridicolo, con coreografie banali e una confusione generale che sembra prevalere su tutto (per capire di cosa parlo basta riguardare il primo scontro tra Raiden e Shao Kahn, a dir poco imbarazzante).

L’apice viene raggiunto nello scontro finale, quando Liu Kang e Shao Kahn ricorrono alle animality, dando vita a due mostruosità in computer grafica che sfigurerebbero anche nel primo film di King Kong.

Anche la trama risulta assolutamente vuota e superficiale. Cercando di unire le trame di Mortal Kombat 2 e 3, il film riprende immediatamente dal cliffangher con cui si concludeva il primo Mortal Kombat, ovvero l’arrivo sulla terra dell’imperatore Shao Kahn. Questo evento dà il via ad una serie infinita di scontri che si susseguono quasi senza sosta, come a voler compensare la pochezza della storia.

Da evitare come la peste, a meno che non si voglia fare quattro risate davanti ad una serie di costumi orrendi, una CGI mostruosa e una serie di combattimenti degni di una puntata qualsiasi dei Power Rangers.

House of the Dead

House of the dead è sicuramente uno dei peggiori zombie movie di sempre

Secondo gradino del podio per un altro film di Uwe Boll. In questo caso, il maestro riesce davvero a superare se stesso, regalandoci uno dei più orrendi film sugli zombie che si siano mai visti. Tanto per cominciare, la scelta di dedicare un film ad un gioco come House of the Dead è quantomeno azzardata. Il gioco Sega infatti è un semplice sparatutto su binari in cui la trama viene appena abbozzata. E infatti la trama del film risulta davvero trita e ritrita, con pochissimi motivi di interesse.

House of the Dead racconta la storia di un gruppo di adolescenti che, per partecipare ad un rave party, si ritrova intrappolato sull’Isla de la muerte. Giunto qui, il gruppo scopre che l’isola è sotto il controllo del malvagio prete Castillo Hermano, che è riuscito a creare una formula per trasformare gli umani in zombie e che ora controlla un’intera armata di non morti. Da qui in poi il film è un susseguirsi di attacchi zombie, tutti infarciti di costumi orrendi, uccisioni al limite del ridicolo e una serie di effetti speciali utilizzati nelle maniere più strampalate e assurde possibili. Da notare soprattutto l’uso massiccio dell’effetto rallenty, spesso inserito in maniera totalmente casuale e spiazzante.

Ma ciò che rende davvero “speciale” House of the Dead” è la scelta a dir poco folle di Boll di inserire intere sequenze prese direttamente dal videogioco per inframmezzare l’azione. Ogni volta che un protagonista muore, infatti, il film si blocca, la telecamera inizia a ruotare intorno al malcapitato, in piedi in posizione contemplativa, finché lo schermo non diviene totalmente rosso. Peggio ancora: durante alcune sequenze d’azione, quando uno dei protagonisti riesce ad uccidere uno zombie, Boll inserisce alcune schermate di uccisioni di zombie prese dal videogioco, in un tripudio di trash e incapacità registica.

Un film davvero terrificante, nel senso più negativo del termine. Recuperatelo solo se avete un amore viscerale per il trash e i film dell’orrore di quart’ordine.

1. Street Fighter – Sfida finale

Film e Videogiochi: Street Fighter
Per i fan di Street Fighter, il film ispirato alla saga fu un vero pugno nello stomaco

Se analizzassimo tutti questi film basandoci solo su elementi di critica cinematografica, probabilmente Street Fighter non sarebbe il peggiore. Tuttavia, la delusione provocata a tutti i fan e la totale mancanza di rispetto mostrata da questa pellicola nei confronti del materiale originale non possono essere perdonate (almeno da chi scrive). Street Fighter – Sfida finale non fa altro che sfruttare la popolarità dei videogiochi da cui è tratto per proporre un film d’azione pigro, banale e strapieno di stereotipi americanisti.

Il film racconta lo scontro tra le forze alleate occidentali, guidate dall’intrepido colonnello Guile (Jean Claude Van Damme) e il malvagio dittatore Bison (Raul Julia, che morì poco dopo il completamento del film), che si è impossessato della città asiatica di Shadaloo. Questo semplice pretesto porta una serie di lottatori esperti di arti marziali a radunarsi a Shadaloo attraverso una serie di scontri assolutamente casuali che culmineranno nella sfida finale tra Guile e Bison.

Al di là dei combattimenti non proprio esaltanti, degli effetti speciali appena nella media e della trama banale, ciò che davvero fa odiare questo film ai fan dei videogiochi di Street Fighter è la caratterizzazione dei personaggi. Questi ultimi, infatti, con pochissime eccezioni, non hanno praticamente nulla da spartire con le loro versioni originali.

Ryu e Ken, protagonisti principali della saga, sono ridotti a due ladruncoli esperti di arti marziali. Dhalsim è un banale scienziato indiano, Sagat è una sorta di mafioso tailandese. E gli esempi potrebbero continuare. Anche la scelta di elevare Guile a protagonista assoluto solo in virtù delle sue origini americane e del suo incarnare lo stereotipo del marine non appare certamente un’idea vincente.

Al di là di queste considerazioni, comunque, la trama di Street Fighter è davvero estremamente semplicistica, con pochissimi colpi di scena e praticamente nessun momento davvero memorabile. Anche i combattimenti sono davvero scialbi e non presentano quasi mai mosse o coreografie che si ispirino chiaramente a quelle mostrate dai lottatori nel gioco originale.

Sicuramente molti di voi non condivideranno questa scelta, ma per chi scrive Street Fighter – Sfida Finale è il peggior film tratto da un videogioco che sia mai stato realizzato. Non è quello più brutto, ma quello che mi ha dato la delusione peggiore e che mi ha trasmesso le emozioni più negative.

Ora come sempre la parola passa a voi! Quali sono i film tratti da videogiochi che più avete odiato? Fateci sapere nei commenti!