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Editoriali

Dying Light è un inno all’umanità

Ormai si sa che quando si gioca non è solo divertimento. Un videogame, proprio come altre opere dell’uomo, dona a chi ne fruisce molto più di quello che ad una prima occhiata si possa pensare. È il caso di Dying Light, un videogioco di zombi che però è molto più di questo. Se si cerca di collocarlo all’interno del genere horror infatti si perde, a mio parere, una buona fetta di ciò che l’opera vuole raccontare. Dying Light ritengo che possa essere definito un ritratto dell’umanità. Nel gioco i morti viventi sono infatti parte dell’ambiente e costituiscono il contesto in cui è ambientata la storia, non il fulcro di essa.

Un inno all’umanità

Dying Light è un inno all’umanità nelle sue mille sfaccettature. Gli zombi nel gioco diventano fonte di sfida, ma nulla più che il contesto di difficoltà che l’umanità deve affrontare. Su questo banco di prova ogni individuo ha il suo modo di reagire. C’è chi approfitta della situazione per suo profitto, chi aiuta gli altri e chi si scopre leader quando meno se l’aspetta.

Questo cocktail di umani che vivono al limite con la morte, e vi hanno a che fare ogni giorno, crea un contrasto affascinante che non si rispecchia solo nell’ambiente ma anche nei suoi abitanti. Dentro ad ognuno di loro si scontrano l’istinto dell’uomo civilizzato e quello di sopravvivenza dovuto alla situazione attuale. Il conflitto continuo di queste due parti mette in luce la capacità degli abitanti di Harran di adattarsi alla situazione e cercare di trarne il meglio finché non arriveranno tempi migliori. Il fatto che il mondo al di fuori sia un luogo sicuro inoltre alimenta la loro speranza e rende l’emergenza un po’ più sopportabile. In ognuno di loro si scontrano la crudele realtà e la speranza di poter tornare al mondo che conoscevano.

Il videogioco è quindi una specie di tributo alla capacità adattativa umana, unica specie sulla Terra che si è adeguata agli habitat più disparati: se ci si pensa, l’uomo ha colonizzato il pianeta dal luogo più freddo a quello più caldo senza mai fermarsi davanti alle difficoltà. Adattandosi e migliorando come altre specie sulla Terra non avevano mai fatto.

Dying Light, come gli altri giochi zombi, porta all’umanità una nuova minaccia da affrontare. Sfruttando quel pretesto però inneggia alle sfaccettature che rendono la razza umana unica nel suo genere, sia nel bene che ne male.

Una parte inaspettata di sé

Harris Brecken

Quasi tutti giocando una storia come quella di Dying Light hanno pensato al cattivo in modo negativo. Diciamo a noi stessi qualcosa come “io non sarei mai così”. Finché siamo nella nostra casetta al sicuro potrà anche essere vero. La realtà però ci insegna che non possiamo veramente sapere in cosa ci trasformerebbe una determina­ta situazione. In Dying Light questo concetto si può recepire molto bene dalle storie dei personaggi.

Il protagonista in primis, parte per una missione come ogni altro buon soldato farebbe. Obbedisce agli ordini e non fa domande. Possiamo credere che prima di arrivare ad Harran (città esistente) non avrebbe mai pensato di tradire l’organizzazione per cui lavorava. Vivere a stretto contatto col problema lo ha cambiato e gli ha fatto vedere la situazione in modo diverso. Una volta in città percepisce la realtà come chi si trova fuori da Harran non potrà mai fare.

Seguendo alla perfezione il suo ruolo di eroe, si ribella e cerca di salvare la situazione. Il personaggio che però stupisce di più sé stesso è Brecken. Il leader della Torre ha una storia interessante alle spalle, che giocando superficialmente potrebbe fuggire. In una confessione al protagonista ci rivela di essere stato un semplice istruttore di parkour. Prima dell’epidemia si era trasferito nella speranza di trovare lavoro ad Harran. Sicuramente non si sarebbe mai aspettato di diventare un capo, una figura di riferimento. Non credeva che le sue capacità avrebbero potuto salvare delle vite eppure per sopravvivere agli zombi sapersi destreggiare velocemente nella giungla architettonica della città è diventato essenziale.

L’egoismo della sopravvivenza

Rais alias Kadir Suleiman

Nella difficoltà è facile dimenticarsi degli altri. L’altruismo è figlio dell’abbondanza, è facile condividere e donare quando non manca nulla. È nel momento in cui si ha poco che si vedono la vera bontà o il vero egoismo. In Dying Light percorriamo entrambe le strade. Gli abitanti della Torre hanno poco Antizin, a malapena basta per loro, eppure aiutano Crane (il protagonista) e gli somministrano il farmaco per rallentare la trasformazione. Aiutando uno sconosciuto scommettono parte delle loro scorte, già esigue, nella speranza che quel gesto porti a qualcosa di buono.

La fazione di Rais al contrario pensa a sopravvivere e non si cura minimamente di chi potrebbe aiutare, se non per il proprio tornaconto. Ad esempio quando il protagonista raggiunge il villaggio portuale scopre che la popolazione viene protetta solo in cambio di qualcosa.

L’egoismo però non sempre è così palese. Il governo infatti sembra un’organizzazione intenta a perseguire il bene dei cittadi­ni di Harran. In realtà cova qualcosa di losco e nel momento in cui quella verità sta per trapelare fa di tutto perché non venga svelata. Minaccia di sterminare un’intera città in cui ci sono ancora sopravvissuti. Arriva ad offrire un accordo a Rais, il ricercato che sembravano voler morto fin dall’inizio, pur di salvare la propria reputazione.

L’esperimento scientifico di Harran

Città di Harran

Le situazioni di difficoltà però non possono durare in eterno. L’umano non è progettato per sopportare uno stato scomodo a lungo, in esso ci sarà sempre la tendenza a ricercare una normalità. Ad esempio, per quanto contorta, la società nella Torre persegue una sua quotidianità. I bambini giocano e schiamazzano e gli adulti vanno al lavoro. Il fatto che quel lavoro sia incentrato sul sopravvivere e salvarsi diventa ad un certo quasi superfluo. L’uomo tende a ricercare un ordine in ciò che fa, si aggrega in comunità più o meno regolarizzate, crea una scala sociale e si adopera per la sopravvivenza comune.

Dying Light con la città di Harran completamente isolata dal resto del mondo sembra voglia invitarci ad osservare un esperimento scientifico. Come quando si mettono tante formiche in una teca di vetro per osservarne l’organizzazione. Harran alla fine è proprio quello, solo che il governo non vuole studiare le formiche ma la diffusione e gli effetti della sua arma biologica, ovvero il virus che tramuta la gente in zombi. In questa situazione però vediamo come le persone ricerchino comunque una normalità e resistano a questo cambiamento forzato che è l’immissione del virus.

L’entropia di Dying Light

Perché ci sia la vita, ci dev’essere ordine. Le cellule si devono organizzare, le reazioni chimiche devono svolgersi e tutto deve scorrere nel verso giusto perché ognuno di noi esista. È così che questo gioco mi ha fatto capire che l’opposto della vita non è la morte ma il caos. La morte è la naturale fine della vita e fa parte anch’essa di quell’ordine che permette l’esistenza. Il caos invece è ciò a cui il protagonista si oppone alla fine. Durante uno dei suoi deliri Rais inneggia proprio al caos, ed è in quel momento che possiamo capire che è impazzito completamente. Nessun essere umano che tenga alla sua vita e a quella dei suoi cari desidererebbe una situazione simile. Proprio per questo motivo probabilmente non sempre capiamo chiaramente le motivazioni dietro le azioni di questo personaggio. Anch’esso un leader, proprio come Brecken, ma a lui contrapposto, non solo nel dominio delle risorse ma anche per le sue caratteristiche.

Rais è un capo che ha reclamato il suo posto e che ama il potere, è spietato e controlla i suoi sottoposti con il ricatto e con la paura. Coloro che lo seguono ne sono spaventati o sono egoisti alla sua stregua.

Brecken, come detto prima, è un leader quasi per caso. Non avrebbe voluto quella carica e se ne sarebbe disfatto volentieri, ma non si sottrae ai suoi doveri in quanto si preoccupa delle persone che dipendono da lui.

I due sono i capi delle fazioni al­l’interno di Harran, e si contrappongono proprio come l’ordine e il caos. Agente dell’equilibrio in questa storia è quindi il nostro protagonista, che durante il gioco si trova a lavorare allo stesso tempo per entrambe e per nessuna delle due fazioni, sperimentando in egual misura le leadership e alleandosi alla fine con il rappresentante dell’ordine che fino a poco prima del suo arrivo sembrava sul punto di arrendersi a Rais.

Le domande che mi ha lasciato Dying Light

Dying Light è stata un’esperienza diversa. Un gioco di zombi che parla di umanità (l’origine degli zombi nella cultura) Un’opera che mi ha aperto davanti agli occhi un ventaglio di possibili me stessa. Mi sono ritrovata a chiedermi cosa avrei fatto. Sarei stata così debole da volermi unire alla fazione di Rais per sopravvivere a qualun­que costo? O avrei trovato il fegato di rischiare me stessa per uno sconosciuto come i ragazzi della Torre? Le risposte potrebbero essere vere o no, non lo potrò sapere finché non verrò catapultata in un’apocalisse zombi. Per ora mi limiterò a giocare dando il meglio di me.

Quindi per quanto questo gioco sia pieno di morti viventi, in realtà per me non parla affatto di morte ma di vita. Di scelte giuste e sbagliate, di buoni e cattivi e di quanto questa divisione netta sia impossibile quando si tratta del fallibile essere umano.