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Perché Metroid Prime è una serie così speciale

Metroid Prime 4: Beyond non è soltanto il nuovo capitolo di una delle saghe videoludiche più amate: è il ritorno sulle scene, dopo una attesa decennale, di una serie di scelte creative e industriali che hanno rimodellato il concetto di avventura in prima persona.

In questo articolo vediamo perché la saga di Metroid Prime non è un semplice spin-off, ma è stato (e continuerà ad essere) importante e cosa davvero aspettarsi da Beyond, tra eredità narrativa, novità di gameplay e la posta in palio per Nintendo

Beyond, il punto d’arrivo di un’attesa lunga anni

Quando Nintendo ha mostrato per la prima volta il logo di Metroid Prime 4 all’E3 2017, la reazione è stata sì nostalgica ma intrisa di speranza: un nuovo Prime dopo quindici anni sarebbe stato l’evento che più giocatori aspettavano da tempo. 

Eppure – la storia parla da sé – la vicenda ha preso poi una piega atipica: annunci, silenzi, e infine il riavvio completo dello sviluppo nel 2019 – una scelta rara per un publisher della portata di Nintendo. La responsabilità del progetto è stata poi affidata a Retro Studios, lo studio texano che aveva ridefinito la serie Prime nei primi anni 2000. 

Quel restart non ha fatto fuori l’hype, ma l’ha sublimato: da curiosità a attesa quasi rituale, fatta di rumor, speranze e – ultimamente – leak e trailer che hanno ripreso a infiammare la community.

Oggi, con trailer più corposi e demo passate nelle mani della stampa, Metroid Prime 4: Beyond è di nuovo una presenza tangibile nel calendario videoludico. Non è un’uscita casuale: è il capitolo che arriva dopo un periodo di studio e riallineamento creativo, e per questo va letto nel contesto della saga intera – delle sue innovazioni tecniche, ma soprattutto del suo linguaggio narrativo. L’appuntamento per tutti è il 4 dicembre, con l’arrivo del videogioco direttamente su Switch e Switch 2. 

Metroid Prime 4: Beyond – Una delle immagini tratte dal gameplay. Fonte: Gamesradar

Perché Metroid Prime conta ancora: numeri e segnali dal mercato

I numeri possono essere una prima lente di analisi per capire il perché dietro il ritorno del brand. La saga Metroid ha visto una nuova vivacità con l’ultima generazione Nintendo: Metroid Dread (2021) ha superato la soglia delle tre milioni di copie vendute, diventando il titolo più remunerativo del franchise e dimostrando che l’interesse per Samus è tutt’altro che esaurito. 

Parallelamente, il ri-lancio del primo Metroid Prime con la versione Remastered (2023) ha consolidato il fascino storico della trilogia: la remaster ha raccolto recensioni molto positive e ha segnato vendite importanti nel breve periodo, con oltre 1 milione di copie vendute nei primi mesi – segno che anche il back catalogue può tornare a essere un volano commerciale.

Investire su Samus non è stato quindi un capriccio nostalgico alla Nintendo, ma una scelta con senso commerciale. Il franchise è tornato a essere rilevante sia per i fan di vecchia data che per nuove generazioni.

Come Prime ha riscritto l’avventura in prima persona

La serie Metroid Prime (la trilogia originale: Prime, Prime 2: Echoes, Prime 3: Corruption) non è la semplice trasposizione 3D di un franchise 2D: è la reinvenzione del genere. Retro Studios ha creato una forma di “first-person adventure” che privilegia l’esplorazione, la scoperta e la costruzione ambientale della storia. E ogni capitolo ha un carattere distinto.

Il primo Metroid Prime è stato un punto di rottura. La vera innovazione non sta nelle armi o nei combattimenti, ma nel modo in cui il gioco racconta la storia attraverso l’ambiente. Lo Scan Visor, una sorta di ibrido tra scanner narrativo e lente interpretativa, trasforma così ogni rovina, creatura e frammento di architettura in un pezzo di trama. Non c’è la voce di un narratore né un personaggio che spiega cosa fare: è il giocatore, attraverso l’atto stesso dell’esplorazione, a ricostruire il passato dei Chozo, la tragedia di Tallon IV, la minaccia del Phazon. A livello commerciale il successo non si è fatto attendere per GameCube, una console sfortunata – tutto sommato – a livello di hardware e di ricezione sul mercato. 

Metroid Prime: il gameplay originale del primo videogioco della serie su GameCube. Fonte: Youtube

Due anni dopo, Metroid Prime 2: Echoes amplia le ambizioni del progetto in una direzione più coraggiosa. Retro Studios sceglie qui una struttura duale basata sulla contrapposizione tra Luce e Oscurità, un’idea che influenza narrazione e gameplay. L’alternanza fra dimensioni non è infatti un espediente estetico, ma una meccanica di sopravvivenza: il mondo oscuro consuma energia vitale e obbliga il giocatore a ragionare su posizionamento, timing e mobilità. Queste meccaniche, unite a un’atmosfera più cupa e al ritmo incalzante, hanno acceso più di una discussione tra fan e critica.

Con Metroid Prime 3: Corruption, nel 2007, la saga fa un altro salto, questa volta verso un universo narrativo più espanso. I controlli con il Wii Remote – spesso sottovalutati perché associati alla “fase casual” della console –  portano una precisione sorprendente nei combattimenti e una fisicità nuova nell’interazione con l’ambiente. Samus, per la prima volta, non è solo silenzioso e distante: il mondo reagisce in modi più espliciti, e il conflitto con Dark Samus e il Phazon raggiunge un’intensità cinematografica capace di chiudere un ciclo narrativo in grande stile. 

Metroid Prime 3: il gameplay originale su Wii. Fonte: Youtube

A unire i tre giochi c’è un approccio al design che oggi definiremmo quasi “filosofico”: livelli costruiti come organismi interconnessi, una progressione basata su abilità che sbloccano luoghi prima inaccessibili, e un uso dei visori che apre le porte a una maggior consapevolezza del giocatore nei confronti del mondo circostante. Metroid Prime non chiede di sparare o di muoversi con precisione: chiede di osservare, riflettere e interpretare. Da qui nasce quell’immersione silenziosa che molti ricordano oggi, e che pochi titoli moderni riescono a replicare con la stessa naturalezza.

È per questo che parlare di “trasposizione 3D” è riduttivo. Prime ha introdotto un modo diverso di abitare lo spazio digitale, un modo più contemplativo e allo stesso tempo più partecipato. Ha riscritto le regole del genere senza dichiararlo apertamente, semplicemente mostrando che anche in prima persona si poteva raccontare non attraverso dialoghi o cutscene, ma attraverso rovine, paesaggi, tracce e silenzi. È una lezione che ancora oggi rimane intatta e che spiega perché, a vent’anni di distanza, l’attesa per Metroid Prime 4: Beyond abbia il sapore di un ritorno più che di una scommessa.

Perché parliamo di una saga eterna: atmosfera, identità, gameplay

Ci sono saghe che resistono al tempo perché sanno rinnovarsi, e altre che restano immortali perché non hanno bisogno di farlo. Metroid Prime appartiene alla seconda categoria

Non è “solo” un insieme di prodotti videoludici ben correlati tra loro: è un’esperienza che lavora sotto pelle, che ti accompagna nel silenzio dei suoi corridoi e nell’eco dei suoi pianeti. Per capire perché sia rimasta impressa nella memoria collettiva, bisogna guardare a quella miscela di atmosfera, identità e design che ancora oggi molti studi provano a replicare senza riuscirci.

Metroid Prime: quando la solitudine agisce nell’universo. Fonte: Multiplayer

Il cuore pulsante della saga è, va da sé la solitudine. Non una triste o punitiva, ma che quasi ti accarezza. Samus è un’eroina che agisce senza clamore, senza compagni di viaggio, senza la voce onnipresente di un narratore. È l’atto della scoperta – e non l’azione spettacolare – il motore emotivo dell’esperienza. Ogni stanza, abilità e persino ogni porta che si apre dopo ore di tentativi dà la sensazione di un progresso personale: è un tipo di ricompensa che appartiene ai videogiochi di un’altra epoca, quelli che lasciavano spazio all’immaginazione e non spiegavano tutto per filo e per segno.

L’atmosfera, poi, è un personaggio a sé. Retro Studios ha creato mondi che sono ecosistemi viventi, a sé stanti: pianeti corrosi dal Phazon, deserti abitati da civiltà antiche, laboratori abbandonati che raccontano fallimenti e vite spezzate – ogni ambiente ha un respiro proprio. Il level design mette così il giocatore in condizione di osservare e interpretare, perché la storyline si dipana tra detriti, resti archeologici, creature mutate, luminescenze, segnali sonori. Il visore è lo strumento che lega tutto insieme: un traduttore diegetico che trasforma l’esplorazione in linguaggio. È questo approccio – il mondo che parla al giocatore e non il contrario – che ha permesso alla saga di essere ricordata come una delle migliori forme di environmental storytelling mai realizzate.

A dare solidità a tutta questa poetica c’è un gameplay che evolve senza perdere la sua identità. Ogni capitolo della trilogia Prime ha introdotto idee che servivano a espandere il modo in cui il mondo stesso poteva essere letto e attraversato. Il primo capitolo ha reso il visore il centro della narrazione; Echoes ha trasformato l’esplorazione in un gioco di equilibrio tra luce e ombra mentre Corruption ha introdotto il Phazon come materiale, minaccia e potenziamento. Anche le remaster più recenti hanno fatto emergere un dettaglio spesso sottovalutato: la solidità del level design regge perfettamente anche con controlli moderni, un segno inequivocabile che l’ossatura ludica è ancora straordinariamente attuale.

Quello che rende Metroid Prime “una saga eterna” non è dunque la componente nostalgia, ma la sua architettura: un equilibrio tra solitudine, osservazione e azione, che porta alla scoperta e al racconto in sé. Oggi, in un panorama dominato da giochi che spesso spiegano troppo e lasciano poco spazio all’immaginazione, questa purezza rischia quasi di sembrare rivoluzionaria.

Beyond è chiusura o nuovo inizio?

Ora, però, la discussione non verte sulla possibilità che Beyond sia il “capitolo finale”, ma su quale ruolo avrà nell’arco narrativo complessivo e nell’ecosistema Nintendo. Fonti vicine agli annunci suggeriscono che Beyond è pensato come capitolo ambizioso, in grado di chiudere alcuni archi (Dark Samus, Phazon) ma lasciarne altri aperti: una strategia, questa, che permetterebbe a Nintendo di riavviare o estendere il franchise a seconda del successo commerciale e creativo. 

Sul piano industriale, se Beyond confermerà le attese in termini di recensioni e vendite, allora è probabile che Nintendo consideri la saga in sé come una proprietà da sostenere con contenuti multipli, sia first-party sia in partnership. Se invece la reception fosse tiepida, la saga potrebbe ritirarsi nuovamente… ma oggi, grazie all’interesse che è tornato in hype tra vecchi e nuovi fan, lo scenario più probabile è proprio un ritorno duraturo.

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Kingdom Hearts: la storia e l’importanza della saga di Disney e Square Enix

Tra leak, misteri e nostalgia, Kingdom Hearts IV è uno dei giochi più attesi (del 2027?) ma anche tra i più enigmatici della scena videoludica. Mentre i fan attendono notizie ufficiali, la saga di Tetsuya Nomura è ancora un pilastro del gaming: un ibrido unico tra favola e introspezione giapponese che, a oltre vent’anni dal debutto, continua a far discutere, vendere e anche un po’ commuovere. Ecco perché

L’attesa infinita di Kingdom Hearts IV: tra leak e mondi in lavorazione

Ufficialmente, di Kingdom Hearts IV non si parla da mesi. Nessun trailer, nessuna data, nessuna dichiarazione concreta da parte di Square Enix o Disney. 

Eppure, dietro le quinte, qualcosa si muove. Secondo l’insider accreditato “Midori”, una figura vicina al team di sviluppo, lo sviluppo del titolo prosegue a ritmo regolare, e la selezione dei mondi sarebbe già in fase avanzata. 

Kingdom Hearts IV: una delle immagini tratte dall’unico teaser di gioco. Fonte: IGN

Le ambientazioni trapelate delineano un viaggio ancor più ambizioso del passato: Quadratum, la città ultrarealistica vista nel primo trailer, dovrebbe essere il fulcro di tutta la narrazione, e si affianca agli Inferi di Hercules – già noti con KH2 – e a luoghi tratti da Oceania, La Principessa e il Ranocchio, il Candy Kingdom di Ralph Spaccatutto, Zootopia, la Metroville degli Incredibili, il Regno dei Morti di Coco, e un misterioso Galaxy World, per un totale compreso tra 18 e 21 mondi.

Un’espansione immensa, che conferma l’intenzione di Nomura di spingersi oltre i confini estetici e tematici dei capitoli precedenti, abbracciando l’idea di un multiverso Disney maturo e stratificato.

Ed è proprio da qui che vale la pena ripartire. Perché, se oggi Kingdom Hearts IV è ancora in sviluppo e ogni minimo dettaglio genera discussione, è anche grazie a una saga che ha costruito un’eredità ventennale fatta di mondi, personaggi e emozioni condivise.

Capire cosa rende questo universo così iconico – e perché continua a resistere al tempo – significa tornare alle origini, ripercorrere i suoi capitoli e scoprire come Kingdom Hearts sia riuscito, contro ogni previsione, a trasformare un crossover impossibile in una delle epopee più amate della storia del gaming.

Una saga nata per unire più mondi

Quando Kingdom Hearts arrivò su PlayStation 2 nel 2002, nessuno si aspettava che un crossover tra Final Fantasy e l’universo Disney potesse funzionare. E invece fu un successo immediato: più di un milione di copie entro una settimana dalla sua uscita – soltanto per il Giappone – e un punteggio su Metacritic di 85/100.

Era un videogioco che non doveva esistere: troppo audace per i fan Disney, troppo “occidentale” per gli amanti dei JRPG. Ma proprio quell’incontro impossibile creò una formula irripetibile: un universo dove Topolino e Sephiroth potevano convivere, e dove l’amicizia era la chiave narrativa per attraversare la luce e l’oscurità.

Con il tempo, però, la saga si è trasformata in un labirinto. Tra sequel, prequel, spin-off e capitoli mobile, Kingdom Hearts si è distribuito su più di 10 piattaforme diverse: PlayStation 2 e 3, PSP, DS, 3DS, PS4, Xbox One, PC, e perfino browser e smartphone. Un ecosistema frammentato che ha reso la cronologia difficile da seguire, ma anche affascinante da decifrare.

Proviamo a mettere ordine nel caos: la timeline 

Per comprendere il fascino di Kingdom Hearts, bisogna guardarlo come una saga organica, non come una sequenza di giochi isolati.

La timeline di Kingdom Hearts. Fonte: Deviantart

Il primo capitolo (2002) presenta Sora, un ragazzo catapultato in mondi Disney alla ricerca dei suoi amici Riku e Kairi. È il classico racconto dell’innocenza che affronta il buio, con un combat system ibrido e cinematiche che all’epoca erano la vera novità su PS2.

Nel 2004, Kingdom Hearts: Chain of Memories per Game Boy Advance porta una rivoluzione: il sistema di combattimento diventa basato su carte, miscelando action e strategia. È un esperimento audace, narrativamente ponte tra il primo e il secondo capitolo, ma che si rivela debole e macchinoso dal punto di vista del gameplay. 

Poi arriva Kingdom Hearts II (2005): più fluido, più epico, più emozionale sia dal punto di vista della storia che del gameplay. Introduce le Fusioni o Drive Forms, un’evoluzione tecnica e visiva che alza l’asticella dell’action RPG su PS. Non a caso, è ancora oggi il capitolo più amato e venduto, con oltre 6,2 milioni di copie distribuite.

Il 2010 segna una svolta con Birth by Sleep, pubblicato su PlayStation Portable, che svela le origini della saga e introduce tre protagonisti e tre punti di vista diversi sull’intera vicenda: Terra, Aqua e Ventus. È un prequel profondo, con un gameplay sorprendentemente moderno per la portatile Sony. Nel frattempo, gli spin-off come 358/2 Days (DS, 2009) e Dream Drop Distance (3DS, 2012) ampliano la lore, introducendo meccaniche come il Drop System, che alterna i punti di vista dei personaggi e aggiunge una dimensione strategica al ritmo di gioco.

Infine, Kingdom Hearts III (2019) chiude almeno in parte la lunga saga di Xehanort. Con il motore Unreal Engine 4, Disney Pixar e mondi come Toy Story, Frozen e Pirates of the Caribbean, è un trionfo tecnico e visivo. Il gioco supera 6 milioni di copie vendute nel primo anno, come riporta Square Enix, e segna il miglior debutto della serie.

Kingdom Hearts III: una delle “nuove” dinamiche introdotte nel 2019. Fonte: Disney

Numeri e community: un fenomeno che non si è mai spento

Nel 2023, Square Enix ha dichiarato che la saga di Kingdom Hearts ha superato le 36 milioni di copie vendute globalmente: è un risultato impressionante per un brand sostanzialmente di nicchia, che non pubblica un titolo principale da più di cinque anni.

Ma le vendite non raccontano tutto, perché l’anima di Kingdom Hearts è la sua community. Su Reddit, il subreddit ufficiale conta oltre 470.000 membri attivi, mentre su Discord i server più popolari superano i 100.000 utenti. Su Twitch, nel 2024, la saga ha registrato un incremento del 18% di ore visualizzate rispetto al 2022, come riporta StreamHatchet.

Questo coinvolgimento costante deriva non solo dalla nostalgia, ma anche dal continuo supporto “postumo”: le versioni Kingdom Hearts HD 1.5 + 2.5 Remix e 2.8 Final Chapter Prologue, oltre alla raccolta All-in-One Package, hanno riportato la saga su piattaforme moderne, ampliando l’accessibilità e attirando nuovi giocatori – del tutto all’oscuro della complessità cui stavano andando incontro.

Dal punto di vista qualitativo, la saga gode di una reputazione stabile. Kingdom Hearts III ha un Metascore di 83/100, con lodi per l’aspetto tecnico e critiche per la narrazione (inutilmente) complicata, mentre la community lo ha premiato con un user score medio di 8.5 su 10.

L’iconicità della saga va oltre le piattaforme

Ventidue anni dopo, Kingdom Hearts resta una delle serie più uniche mai realizzate. La sua forza non risiede solo nel gameplay, ma nell’idea di fondo: unire due mondi apparentemente incompatibili – la filosofia introspettiva dei JRPG Square e la magia pop di Disney – per raccontare un’unica grande storia sull’amicizia, la perdita e il coraggio.

La saga è iconica perché ha saputo evolversi senza mai rinunciare alla propria anima più emotiva. Ogni capitolo parla a un pubblico che è cresciuto insieme ai suoi protagonisti: da bambini che inseguivano il Keyblade a adulti che oggi rivivono quei ricordi con nostalgia e consapevolezza. È un’esperienza che, come i suoi mondi, vive di connessioni: tra generazioni, culture e immaginari.

E se Kingdom Hearts IV continua a sfuggire dai radar, è forse proprio perché rappresenta ancora oggi quel sogno impossibile che ha reso la saga immortale: unire il magico e il reale, la luce e l’ombra, in un solo, grande gameplay.

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La paura secondo Keiichiro Toyama

Quest’anno la Chiesa di San Francesco di Lucca ha avuto una serie di ospiti che, per temi trattati, si discostano dal luogo stesso. In una mattina, l’Auditorium ha visto prima un maestro dell’horror come Keiichiro Toyama, e subito dopo John Romero entrare tra luci rosse e heavy metal. Ma non è solo l’effetto scenico che mi ha spinto a scrivere questo articolo: sentire parlare Toyama mi ha mostrato come sia possibile rimanere fedeli alla propria visione pur creando opere molto diverse tra loro. E lo stesso sensei ce lo ha spiegato.

Il padre di Silent Hill

Keiichiro Toyama è un nome fondamentale nel mondo videoludico: è la mente dietro al primo Silent Hill, l’horror onirico ispirato a David Lynch e alla sua opera più amata, I segreti di Twin Peaks.

La sua carriera, stabile e coerente, si sviluppa tra il 1994 e il 2017. Debutta con Snatcher, il secondo gioco di Hideo Kojima, per poi cambiare completamente genere con International Track & Field, uno sportivo di Konami.

La svolta arriva nel 1999 con il suo capolavoro: Silent Hill.
Negli anni successivi Toyama consolida la sua fama di maestro dell’horror con Forbidden Siren e Forbidden Siren 2.

La lezione di Lucca Comics 2025

Durante il Lucca Comics & Games 2025, Toyama ha spiegato la sua idea di paura e come costruirla nei videogiochi.
Tutto parte da una frase semplice ma potente:

“Non possiamo sapere”.

Lo spavento, dice, nasce da un concetto umano antico: l’impossibilità di conoscere nel dettaglio ciò che sta accadendo. Tutto il gioco della paura si basa sull’ambiguità percettiva, dove il dubbio genera l’evento onirico. Il sogno, infatti, è parte fondamentale di Silent Hill: è ciò che permette di accettare le assurdità del gioco — come curarsi all’istante o trovare medicine per terra — perché il sogno ha una logica tutta sua.

Come nasce la paura secondo Toyama

Per creare un buon videogioco, Toyama parte sempre dal concept, costruito sulle esperienze sensoriali del giocatore. Per generare spavento bisogna lavorare sulla sensibilità del pubblico, su ciò che si vuole fargli sentire, fino al punto di “toccarlo” attraverso il gameplay. Solo dopo arrivano la tecnica, il game design e infine la parte artistica.

Nel caso di Forbidden Siren, tutto nasce dalla volontà di creare un’esperienza unica. Poi vengono l’ambientazione, la città, i personaggi e infine il protagonista. Sembra un paradosso, ma non lo è: per Toyama, il protagonista è sempre un alter ego dell’autore, sia negli horror che in Gravity Rush.

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Dall’horror alla gravità (e ritorno)

Dal 2012 al 2017, Toyama cambia direzione e pubblica due capitoli di Gravity Rush, un titolo d’azione basato sulla manipolazione della gravità. Eppure, secondo lui, Gravity Rush può suscitare le stesse emozioni di Silent Hill: paura e curiosità nascono anche dal senso di novità, dal trovarsi in un mondo sconosciuto.

Dopo la fondazione del Bokeh Game Studio, Toyama è tornato all’horror con Slitterhead, un titolo con buone idee ma accolto tiepidamente dalla critica per via della sua parte tecnica datata. Il maestro spiega che questo è il riflesso di come sia cambiato l’horror videoludico: le opere classiche erano colossal, enormi produzioni costose pensate per stupire tecnicamente. Con l’arrivo dell’ondata indie, però, l’horror è tornato alla sua essenza: lo spavento nasce dal ritmo e da un’idea originale, non dai mezzi.

L’essenza dell’horror videoludico

Dalle parole di Toyama emerge una lezione chiara: la paura non è solo un effetto, ma una sensazione costruita su misura per chi gioca. Non serve mostrare tutto — basta suggerire, lasciare spazio all’incertezza, al sogno, al dubbio. Perché, come dice lui stesso, non possiamo sapere.

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Perché Castlevania: Symphony of the Night ha fatto la storia dei videogiochi

Non si può certo dire che la serie Castlevania se la passi bene ultimamente. Sembra infatti che Konami abbia relegato nel dimenticatoio quella che negli anni 80 e 90 era una delle sue saghe di punta. All’interno di questa storica serie esiste tuttavia un titolo che riesce tutt’oggi a far parlare spesso di sé e che viene tuttora ammirato e preso a modello da numerosi giochi. Stiamo naturalmente parlando di Castlevania: Symphony of the Night.

Visto l’avvicinarsi delle festività di Ognissanti e della notte di Halloween, riscopriamo insieme questa autentica pietra miliare della storia del videogioco. Affiliamo la nostra spada e prepariamoci ad accompagnare Alucard nella sua avventura all’interno del maniero di Dracula.

Una serie leggendaria

Quando Symphony of The Night vide la luce, nel marzo 1997, la serie di Castlevania aveva raggiunto il suo culmine. La serie contava una prima trilogia, uscita per NES, che fu seguita da altri due giochi, ovvero Super Castlevania IV e Castlevania Dracula X, entrambi per SNES (anche se Dracula X uscì originariamente su PC Engine Super CD-Rom).

Si trattava di titoli action che univano elementi platform a meccaniche tipiche dei giochi di azione e combattimento. Alla guida del protagonista, quasi sempre appartenente alla famiglia Belmont, il giocatore avrebbe dovuto farsi strada attraverso i vari livelli di gioco sbaragliando orde di mostri fino allo scontro col boss di fine livello. Arma iconica della serie era la frusta vampire killer, dotata del potere di debellare gli spiriti maligini.

Quasi tutti questi giochi presentavano dunque una struttura lineare e un gameplay focalizzato sull’azione e gli scontri più che sull’esplorazione. Unica eccezione il secondo capitolo, Castlevania 2: Simon’s Quest, che invece proponeva un mondo di gioco liberamente esplorabile pieno di personaggi con cui interagire e oggetti da raccogliere. Questa struttura però non aveva ottenuto consensi unanimi e ciò aveva spinto Konami a riportare la serie sui binari originali. Almeno fino all’uscita di Symphony of the Night.

Il metroidvania originale

Con SOTN, Konami decise di tentare una strada diversa. Il gioco infatti si lascia definitivamente alle spalle la struttura a livelli. L’intera avventura è ambientata in un’unica, enorme, ambientazione, ovvero il castello di Dracula. Per orientarsi al suo interno, il giocatore dispone di una mappa, che però viene completata solo man mano che le varie aree vengono scoperte.

In modo analogo a quanto accadeva nella serie Metroid, molte delle aree del castello risultano inizialmente inaccessibili. Diventa possibile visitarle solo dopo aver ottenuto determinate abilità o potenziamenti. Questa struttura obbliga il giocatore a visitare più volte le stesse aree e a farsi ogni volta uno schema mentale, per tenere sempre a mente il suo obiettivo principale.

Proprio il fatto che questo gameplay fosse presente sia nella serie Metrodi che in Castlevania diede origine al termine Metroidvania, tutt’oggi utilizzato per indicare questo genere di giochi.

Trama e personaggi di Symphony of the Night

Ma Symphony of the Night non si limitò a modificare il gameplay. Anche la trama e i personaggi del gioco offrirono diverse novità. Il protagonista del gioco, per cominciare, non era più un Belmont né un ammazz-vampiri. In SOTN infatti, se si eccettua il prologo iniziale, il giocatore controlla Alucard, figlio del conte Dracula già apparso in Castlevania 3.

Il nostro mezzosangue deve indagare sull’improvvisa ricomparsa del castello del padre, oltre che sulle voci secondo le quali l’ultimo dei Belmont, Richter, sarebbe passato dalla parte del male. Nel corso dell’avventura Alucard avrà modo di interagire con vari personaggi tra cui lo stesso Richter, Maria Renard (sorella della fidanzata del cacciatore) e lo stregone Shaft.

La trama del gioco verrà esplorata attraverso una serie di dialoghi tra i personaggi (il cui doppiaggio risultava già ai tempi molto sopra le righe) e presenta una serie di finali differenti. Il gioco può persino essere rigiocato nei panni di Richter e di Maria.

Il gameplay di Symphony of the Night

L’uso di un nuovo personaggio non è solamente una scelta estetica. Alucard infatti non utilizza la Vampire Killer, ma una spada corta. Inoltre la sua natura di vampiro fornisce al nostro protagonista numerose abilità speciali, che dovranno essere sbloccate nel corso dell’avventura.

Appena giunto al castello, infatti, Alucard viene intercettato dalla Morte, fida alleata di Dracula, che priva lo priva di quasi tutti i suoi poteri. Proseguendo all’interno delle mura, Alucard guadagnerà la possibilità di potenziare i suoi attacchi ed il suo salto, una serie di armi ed abilità magiche e soprattutto la possibilità di trasformarsi.

Alucard è infatti in grado di tramutasri in un lupo, in un pipistrello e in un piccolo banco di nebbia. Ognuna di queste abilità permetterà al nostro eroe di accedere ad aree altrimenti irraggiungibili o di combattere in modo più efficacie contro boss che presentano particolari punti deboli.

L’uso di tutte queste abilità e poteri rende il gioco estremamente vario e divertente sia nelle fasi di esplorazione che in quelle di combattimento. Oltre a questo, SOTN inserisce anche diversi elementi mutuati dal genere RGP. Nel corso dell’avventura, infatti, Alucard sale costantemente di livello, migliorando le sue statistiche e soprattutto i suoi punti magia, cosa che gli consente l’utilizzo di un maggior numero di incantesimi.

Anche la scelta dell’equipaggiamento risulta spesso fondamentale, dal momento che gli attacchi nemici spesso sono legati a determinati elementi, per i quali esistono specifiche protezioni. Alcune corazze e reliquie donano anche abilità particolari, a volte determinanti (senza dare troppi spoiler, per ottenere il finale migliore sarà MOLTO utile avere un determinato accessorio).

Un castello tutto da scoprire

Uno dei principali punti di forza di SOTN risiede certamente nella sua ambientazione. Sebbene come già detto, tutto il gioco sia ambientato all’interno del castello di Dracula, la struttura della mappa e la bellezza delle varie ambientazioni sono davvero eccezionali.

Ogni nuovo area del castello è perfettamente caratterizzata e si inserisce perfettamente nel mosaico generale della mappa. Anche la progressione avviene in maniera graduale e ragionata. Il giocatore non ha mai l’impressione di trovarsi in un enorme labirinto indistricabile, ma non è nemmeno condotto per mano tutto il tempo. Per raggiungere gli obiettivi principali dell’avventura occorrono un buon orientamento e anche una buona dose di memoria, per tenere a mente i luoghi in cui una nuova abilità può tornare utile.

Anche i nemici sono tutti ottimamente realizzati e vanno a coprire praticamente tutto l’immaginario horror, con diversi riferimenti anche ai boss storici della saga. Le battaglie coi boss e in particolare quelle contro lo stesso Dracula sono davvero maestose ed impressionanti, soprattutto per l’epoca.

In più, per ottenere il finale migliore, il giocatore dovrà esplorare il castello due volte. Nella seconda run, però, il castello sarà capovolto. Questa geniale scelta di design consente di aumentare di molto la longevità del titolo, riproponendo ambientazioni note in una nuova veste.

L’eredità di Symphony of The Night

Come già accennato, l’importanza di SOTN per l’evoulzione dei videogiochi è stata enorme. Quello dei metroidvania divenne un vero e proprio genere videoludico e molti episodi delle rispettive saghe riproposero questo modello, cogliendo spesso ottimi risultati (ricordiamo ad esempio Metroid Fusion o Castlevania Circle of Moon).

É però interessante notare come il genere, da sempre legato ad una grafica e ad un gameplay rigorosamente a due dimensioni, non abbia affatto perso la sua popolarità, sebbene al giorno d’oggi la maggior parte dei giochi sia caratterizzata da grafica fotorealistica e struttura tridimensionale.

Basti pensare al successo di giochi come Hollow Knight e il suo recente sequel Silksong oppure alla saga di Ori. In particolare, Bloodstained: Ritual of the Night, di ArtPlay è considerato il seguito spirituale della saga di Castlevania, dal momento che ne replica non solo il gameplay ma anche le atmosfere e l’ambientazione. Bloodstained: The Scarlet Engagement è previsto per il 2026. vedremo se sarà un erede all’altezza. Nel frattempo invitiamo tutti coloro che non hanno mai avuto il piacere di provare Symphony of The Night a lanciarsi alla scoperta del castello del Signore del Male. Non ve ne pentirete.

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Da PES a Efootball: dalle origini al live service del calcistico di Konami

Nell’ultimo mese Efootball 2025, simulazione calcistica targata Konami ed erede del mitico Pro Evolution Soccer, ha proposto un evento davvero particolare. La casa giapponese ha infatti pensato di realizzare una collaborazione tra Efootball e Yu-Gi-Oh!, celeberrimo gioco di carte collezionabili, anch’esso appartenente a Konami.

Questa collaborazione si è concretizzata anzitutto per la presenza di nuove carte-giocatore ispirate alle creature più iconiche di Yu-Gi-Oh!. Possiamo dunque ammirare Neymar accompagnato dal mitico mago nero o Mbappé affiancato dal leggendario Drago Bianco Occhi Blu.

Ma le novità proposte da questo update non si fermano qui. Se selezionerete le partite legate all’evento, infatti, tutto lo stadio sarà abbellito da nuove animazioni a tema Yu-Gi-OH!.

Gli spalti diventano pieni di ologrammi, che mostrano creature iconiche come Kuriboh o il Coniglio da soccorso. Al momento di ogni gol, poi, farà la sua comparsa il gigantesco Exodia, che scatenerà il suo potere in un tripudio di luci.

Collaborazioni vincenti

Quella con Yu-Gi-OH! non è la prima collaborazione proposta da Konami. Pochi mesi fa, ad esempio, è uscito un evento che coinvolgeva i famosi personaggi del manga Captain Tsubasa. In questa occasione, oltre alle classiche carte, era possibile addirittura controllare i personaggi del suddetto anime in una serie di sfide speciali.

Insomma, Efootball sembra aver ormai consolidato la sua natura di gioco free to play, secondo il modello dei live service. Tuttavia, non tutti i fan sembrano aver apprezzato questa scelta che, se da un lato ha effettivamente espanso l’utenza del titolo, soprattutto nell’area asiatica, dall’altro sembra avergli ormai alienato i fan storici, che tendono a scegliere in maniera decisa la serie FC Football di EA.

Cogliamo quindi l’occasione per ripercorrere la storia di quello che è senza dubbio uno dei franchise calcistici più famosi ed apprezzati, nonché un caso davvero unico in quanto a scelte di gestione e distribuzione da parte della sua casa di produzione.

Le origini di Efootball

Come abbiamo già detto ad inizio articolo, Efootball altro non è che l’erede della leggendaria serie Pro Evolution Soccer. Questa leggendaria saga calcistica ha una lunga storia alle spalle, da sempre legata a filo doppio con la console di casa Sony.

Il primo episodio in assoluto della serie apparve nel 1997 sulla prima Playstation col titolo Internationa Superstar Soccer Pro. Si trattava in realtà del porting occidentale di Winning Elven, titolo calcistico dedicato alla J-League, campionato di serie a giapponese. Nonostante le recensioni roboanti che ricevette ai tampi, ISS Pro era tutt’altro che perfetto. Se da un lato la grafica e i modelli dei calciatori erano di livello altissimo, dall’altro la giocabilità risultava piuttosto legnosa e poco fluida. Anche il numero di modalità e squadre presenti (limitate alle sole nazionali) era molto limitante.

Già l’episodio successivo, ISS Pro 98, corresse molti dei difetti dell’originale, ampliando il numero delle nazionali presenti e soprattutto migliorando moltissimo il gameplay, che univa un buon rigore tattico ad un ottima fluidità nei dribbling e nel possesso palla.

Fu tuttavia l’episodio successivo, ISS Pro Evolution, a far segnare il vero salto di qualità. Oltre a migliorare ulteriormente grafica e giocabilità, questo episodio introdusse la mitica Master League, un campionato speciale in cui, alla guida di una squadra di totali chiaviche, il giocatore avrebbe dovuto passare dalla categoria inferiore a quella maggiore, migliorando via via la squadra comprando nuovi talenti, sfruttando i punti ricavati dalle proprie vittorie.

Sebbene non fossero presenti nomi e marchi originali, squadre e giocatori risultavano facilmente riconoscibili grazie alle loro fattezze e all’uso di nomi storpiati. Questo episodio ed il suo diretto sequel, ISS Pro Evolution 2, permisero alla saga Konami di farsi conoscere dal grande pubblico e di crearsi una buona fanbase di appassionati, nonostante la dura concorrenza della serie FIFA di EA.

La consacrazione

Fu tuttavia col passaggio all’era Playstation 2 che la saga Konami raggiunse il suo apice. Fu proprio in questa occasione che Konami cambiò nuovamente nome alla sua saga, che, da allora, divenne nota col nome Pro Evolution Soccer (abbreviato PES). Il primo PES uscì nel novembre 2001 (titolo originale World Soccer Winning Eleven 5 Final Evolution), rivelandosi un vero capolavoro.

Il gioco univa una grafia ed un sonoro profondamente rinnovati e potenziati grazie alla nuova console ad un gameplay incredibilmente profondo e divertente. Anche la Master League ritornò in una veste notevolmente potenziata, che iniziava a dare maggiore spazio all’aspetto gestionale della squadra. Iniziarono a fare capolino anche le prime squadre dotate di licenza ufficiale.

Da allora e fino al 2020 la serie Pro Evolution Soccer divenne un appuntamento annuale e la sfida tra FIFA e PES fu una delle rivalità videoludiche più accese di sempre. A partire dal 2008, i vari episodi persero la numerazione tradizionale a favore dell’anno in cui il titolo usciva, in maniera analoga a quanto fatto dalla distinta concorrenza.

Naturalmente, la saga non fu composta da soli capolavori. Se titoli come PES 3, PES 5, PES 2009 (il primo ad introdurre l’esclusiva sulla Champions League) e PES 2013 sono ricordati con affetto dai Fans, giochi come PES 2014, PES 2016 e PES 2008 furono clamorosi passi falsi, che contribuirono al controsorpasso da parte di EA e del suo FIFA.

Una transizione difficile

Nel 2021 Konami realizzò quella che fino ad oggi è stata la svolta decisiva per la serie. Konami decise infatti di ritirare per sempre il marchio Pro Evolution Soccer, sostituendolo con Efootball. Non solo: a partire dal primo episodio, uscito proprio nel 2021, la serie divenne free to play, ovvero scaricabile gratuitamente.

Il gioco divenne disponibile per Playstation, X Box, PC e persino dispositivi IOS e Android. Tuttavia, il titolo venne pesantemente criticato. Apparentemente, non c’era un singolo aspetto di Efootball che funzionasse. La grafica appariva datata e presentava numerosi bug. La giocabilità era un pallido ricordo di quella che sancì il successo della serie e il numero di squadre e modalità era estremamente limitato.

I fan criticarono pesantemente non solamente il gioco, ma anche la direzione intrapresa da Konami, la quale non era nuova a scelte discutibili volte a massimizzare gli introiti provenienti dalle sue serie principali (si pensi a quanto accaduto a serie come Castlevania o Silent Hill).

Una difficile risalita

Nonostante le critiche, Konami ha scelto, coerentemente, di portare avanti il suo progetto. Dalla sua prima incarnazione, Efootball ha ricevuto una serie costante di aggiornamenti. Ora Efootball appare molto lontano dalla sua orrida prima incarnazione. Grafica e giocabilità, seppur non ai livelli di FC, risultano aggiornati e apprezzabili e l’enorme numero di eventi e sfide sopperisce al numero, ancora limitato, di modalità.

Il cuore del gioco consiste nella modalità Squadra dei sogni, che, in modo analogo in quanto visto nella celeberrima FUT, permette la creazione della propria squadra ideale con l’ausilio di una serie di carte, che rappresentano differenti versioni dei vari calciatori. Purtroppo, anche in questo caso, le microtransazioni si rivelano davvero determinanti per l’ottenimento dei calciatori migliori e quindi per la creazione di squadre realmente competitive.

Tuttavia, la strategia di Konami non può definirsi del tutto fallimentare. Rendere la serie gratuita ha allargato di molto la sua utenza, sebbene si tratti nella maggior parte dei casi, di giocatori occasionali. Inoltre, il modello life as service, in questo caso, è stato applicato correttamente da Konami, che non ha mai smesso di migliorare ed ampliare il suo titolo, cercando (almeno in parte) di venire incontro alle critiche.

Certo, sarà davvero dura per Konami riconquistare l’affetto ormai perduto dei fan di lunga data. Tuttavia continueremo ad osservare con attenzione l’evoluzione di questa saga, sia perché rappresenta un unicum nell’industria videoludica sia perché speriamo fino alla fine in un ritorno dell’erede di PES alla sua antica gloria. Voi che ne pensate? Avete apprezzato la trasformazione di PES in Efootball? O rimpiangete la storica rivalità con FIFA?

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Editoriali

Dragon Quest: un classico che non smette mai di reinventarsi

Con l’annuncio di Dragon Quest VII Reimagined, previsto per il 5 febbraio 2026, la saga simbolo del JRPG si prepara a riaffermare la sua importanza. Dall’origine di un genere fino alla sua evoluzione su più piattaforme, Dragon Quest ha saputo rinnovarsi senza tradire le proprie radici, conquistando mercati diversi con strategie sempre più mirate.

Dragon Quest VII Reimagined: una nuova vita per un classico

Quando Square Enix ha confermato l’uscita di Dragon Quest VII Reimagined per il 5 febbraio 2026, la reazione è stata immediata. C’è stato grande entusiasmo da parte dei fan storici, ma anche interesse da chi ha scoperto il franchise solo di recente. Non è la prima volta che il settimo capitolo della saga torna a farsi vedere. Nel 2013 era approdato su Nintendo 3DS in Giappone (e nel 2016 in Occidente) con una versione già aggiornata rispetto all’originale per PlayStation del 2000.

La nuova edizione promette di fare un ulteriore salto generazionale: grafica rimodernata, interfaccia più intuitiva, localizzazione più curata e – secondo indiscrezioni – contenuti narrativi ampliati. L’operazione non punta solo sulla nostalgia, ma anche su una più chiara accessibilità per le nuove generazioni di giocatori. Nintendo e Square Enix stanno perseguendo da tempo questo obiettivo con le loro riedizioni.

Un brand dal cuore orientale e dall’anima globale

Guardando al mercato, Dragon Quest ha sempre vissuto un dualismo particolare: fenomeno di massa in Giappone, gioco di nicchia in Occidente. Nel Paese del Sol Levante, ogni lancio di un nuovo capitolo si trasforma in un evento sociale, con file interminabili davanti ai negozi e vendite da record già al day one. Non a caso, la saga ha superato i 85 milioni di copie vendute in tutto il mondo, con gran parte concentrate in Asia.

In Europa e negli Stati Uniti, invece, l’impatto è stato più contenuto, soprattutto se paragonato all’altro grande brand Square Enix: Final Fantasy. Le motivazioni sono molteplici: estetica più tradizionale, con il character design di Akira Toriyama che richiama immediatamente lo stile anime; gameplay a turni meno spettacolare agli occhi del pubblico occidentale; e una comunicazione spesso meno aggressiva rispetto alla sorella più “glamour”.

Come spiegato dagli stessi produttori in diverse interviste, tra cui una a Nintendo Everything, Dragon Quest ha puntato storicamente sulla continuità e sulla riconoscibilità, mentre Final Fantasy ha scelto l’innovazione radicale a ogni capitolo. Questo ha reso più difficile il radicamento di Dragon Quest in mercati dove il pubblico tende a cercare novità visive e narrative. Tuttavia, proprio questa coerenza è diventata nel tempo un valore unico. Questa scelta è stata premiata, soprattutto con l’uscita di Dragon Quest XI, che ha riscosso un successo globale e ha fatto da ponte tra vecchi e nuovi fan.

La storia di Dragon Quest: tra fedeltà e innovazione

Per capire perché Dragon Quest sia così centrale nella storia dei videogiochi, basta guardare alle sue tappe fondamentali. Nato nel 1986 su Famicom, è stato il primo titolo a consolidare le meccaniche del JRPG. Combattimenti a turni, party di eroi da costruire, narrativa epica che si sviluppava lungo un mondo esplorabile. Quello che oggi consideriamo uno standard era, all’epoca, una rivoluzione.

Ogni capitolo della saga ha portato qualcosa di diverso, senza mai spezzare la riconoscibilità del brand. Il terzo capitolo ad esempio, con il suo sistema di classi, ha permesso di creare combinazioni di personaggi uniche, aprendo la strada a più possibilità strategiche per vincere anche gli scontri più ardui. Dragon Quest VIII, invece, ha segnato il passaggio definitivo al 3D, ma senza abbandonare i turni classici. il risultato è stato un titolo che portò il design di Toriyama e le musiche di Koichi Sugiyama a un livello di spettacolarità senza precedenti, aprendo la saga anche a un pubblico occidentale più ampio.

Ancora, Dragon Quest XI ha dimostrato come il brand potesse essere competitivo anche in un mercato dominato da action RPG e produzioni open world. Pur restando fedele ai turni e all’estetica di Toriyama, il gioco ha introdotto un mondo aperto più ampio e narrativamente profondo, guadagnandosi la fama di miglior capitolo moderno della serie. Sono proprio queste differenze calibrate, mai radicali ma sempre sostanziali, a rendere Dragon Quest un brand vincente (ancora) oggi.

La timeline di Dragon Quest e parallelismo con Dragon Ball. Fonte: Steemit.

Un ruolo fondamentale in questa continuità è stato proprio quello di Akira Toriyama, scomparso nel 2024. Il suo stile artistico ha plasmato l’identità visiva di Dragon Quest, rendendolo immediatamente riconoscibile e profondamente legato alla cultura pop giapponese. Allo stesso modo, le colonne sonore di Koichi Sugiyama hanno accompagnato intere generazioni di giocatori, trasformando semplici melodie in inni culturali.

Un universo che si espande

Oltre ai capitoli principali, Dragon Quest si è distinto anche per la capacità di differenziare la propria offerta. Questo grazie ad una serie di spin-off che hanno ampliato l’universo narrativo. Dragon Quest Monsters, ad esempio, ha anticipato la formula che avrebbe reso celebre Pokémon, permettendo ai giocatori di catturare e allenare creature in un contesto JRPG. Dragon Quest Heroes, invece, ha sperimentato con l’action in stile musou, avvicinando al brand chi prediligeva dinamiche più frenetiche.

Il caso più emblematico resta però Dragon Quest Builders, un ibrido tra JRPG e sandbox costruttivo – alla Minecraft. Con il suo mix di avventura, crafting e narrazione, Builders ha dimostrato come il brand fosse in grado di innovare senza perdere la sua identità. Il successo di questi spin-off non è stato marginale: hanno permesso al marchio di restare rilevante anche al di fuori della serie numerata, rafforzandone la popolarità e introducendo nuove generazioni di giocatori.

Il risultato è un catalogo vastissimo, che supera le quaranta uscite tra capitoli principali, remake, remaster e spin-off. Un numero che testimonia non solo la longevità del brand, ma anche la sua capacità di adattarsi ai cambiamenti del mercato, mantenendo sempre intatta la propria anima.

Nostalgia, innovazione e… la strategia di Nintendo

Il caso di Dragon Quest VII Reimagined non è isolato. Nintendo, che negli anni ha fatto della strategia “innovare senza tradire” un mantra, ha spesso investito nella riproposizione di titoli storici sotto nuove vesti. Lo scopo è duplice. Da un lato, si cerca di intercettare la nostalgia dei fan storici; dall’altro, offrire alle nuove generazioni un modo più accessibile per scoprire classici intramontabili.

Questa logica si inserisce in una tendenza di mercato sempre più chiara: i remake e i remaster non sono semplici operazioni commerciali, ma strumenti per rafforzare il brand, consolidare la fanbase e ampliare la platea. Nel caso di Dragon Quest, la scelta di riportare in auge il settimo capitolo risponde perfettamente a questa strategia. Si tratta di un gioco amatissimo in patria, che ora ha l’occasione di conquistare finalmente anche l’Occidente grazie a una veste più moderna e a un marketing più mirato.

In fondo, la forza di Dragon Quest è sempre stata quella di guardare avanti senza dimenticare da dove è partito. E con il ritorno di un capitolo storico, aggiornato e potenziato, la saga non solo celebra le sue radici, ma riafferma la sua capacità di parlare a pubblici diversi in un mercato che cambia.

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Editoriali

Cosa sono i Survival Horror e cosa li contraddistingue

Poche munizioni, oggetti con una durata limitata, puzzle da dover risolvere e mostri che ostacolano il nostro cammino; questo è ciò che possiamo trovare in un survival horror.

La storia di questo genere e la sua evoluzione comprendono molti titoli videoludici, addirittura ben prima della coniazione del termine nel 1996 da parte di Capcom, con Resident Evil per PlayStation.

Infatti alcune scuole di pensiero si scontrano su chi sia stato il primo survival horror della storia: molti pensano sia stato Splatterhouse del 1988, altri pensano sia stato Clock Tower uscito nel 1995.

Come vedremo però il primo gioco che possiamo collegare a questo genere nasce ben prima del 1988 e ce ne furono altri al quale il team di Shinji Mikami fece riferimento per la creazione del primo Resident Evil. Scopriamo insieme cosa sono i Survival Horror e cosa li rende così unici.

Benvenuto al Survival Horror

Come abbiamo detto, il termine survival horror nasce ufficialmente con il primo capitolo di Resident Evil, titolo che piazzerà le fondamenta per quello che sarà il genere da lì in poi.

Questo grazie all’atmosfera tesa data dai corridoi stretti, che rendono difficoltoso sorpassare i nemici; le telecamere fisse che non permettono di vedere cosa si cela dietro gli angoli (come ad esempio il primo zombie che si incontra); ma sopratutto quella sensazione di solitudine in un ambiente ostile e con pochissime risorse in nostro possesso.

Tutto questo non era nuovo nel mondo videoludico, anzi Resident Evil era a tutti gli effetti un remake spirituale di Sweet Home, tie-in dell’omonimo film horror diretto da Kiyoshi Kurosawa e uscito nel 1989 per Famicom (NES Giapponese); oltre ad avere moltissime meccaniche riprese da Alone in the Dark del 1992, gioco che fu fondamentale per la visione classica che abbiamo del survival horror.

L’importanza di Ax-2: Uchuu Yusousen Nostromo

Moltissimi altri videogiochi poi trovarono corrispondenza con questo genere nonostante uscirono molti anni prima, come ad esempio Ax-2: Uchuu Yusousen Nostromo del 1981. Questo è il primo videogioco nella storia che trova corrispondenza con il genere survival horror e prendeva dall’immaginario di Alien (film di Ridley Scott del 1979). Il titolo infatti trova anche molte similitudini con Alien Isolation, videogioco uscito nel 2014, principalmente per come si comporta l’alieno.

In Uchuu Yusousen Nostromo, il giocatore si ritrova in un’unica stanza e deve raccogliere i segni delle carte (cuore, quadri, fiori e picche), riproposti per un massimo di 8 volte, ma potendone raccogliere solo 5 alla volta. L’obiettivo è quello di raccogliere più segni possibile per fare punti e uscire dalla stanza, il tutto costantemente inseguiti da un alieno. Una volta raggiunti i 2318 punti l’alieno verrà mostrato a schermo, appena si troverà nei pressi del giocatore, come se avesse utilizzato i condotti di aerazione per spostarsi come nel film.

In Alien Isolation è la stessa cosa, il giocatore deve risolvere puzzle ambientali per poter sopravvivere e andare avanti di stanza in stanza, stando attento allo xenomorfo che utilizza i condotti per muoversi.

L‘evoluzione del genere

Ad oggi il survival horror ha avuto molte modifiche, sia di gameplay che immaginario, come ad esempio con Silent Hill 2 (2001).

Grazie a questo gioco i nemici che fino ad allora erano zombie, mostri di laboratorio o dinosauri (Dino Crisis del 1999), diventarono prodotti della psiche dell’uomo. Nemici iconici come Piramid Head o le infermiere provocanti (riutilizzati molte volte nella saga) erano frutto della mente di James, il protagonista, che trova in Silent Hill un purgatorio per espiare il suo peccato.

Per il gameplay ci fu una rivoluzione nel 2005 con Resident Evil 4, inizialmente in esclusiva per Nintendo GameCube. Il gioco introdusse la telecamera spallare e una dose massiccia di nemici a schermo, rendendolo di fatto più action e focalizzando il gameplay sulla miglioria delle armi in possesso.

Resident Evil 4 rispetto ai suoi successori 5 e 6 però, manteneva ancora una dose di puzzle ed esplorazione, rendendolo comunque più vicino ai classici per PS1. Questo gioco fu molto impattante e portò alla creazione di titoli come Dead Space (2008) o i remake del secondo, terzo e quarto capitolo (di Resident Evil) che ne riprendevano il gameplay e lo miglioravano.

La rivoluzione indipendente

Il survival horror ebbe una rivoluzione grazie a vari giochi indie. Alien Isolation ad esempio riprendeva le meccaniche principali da titoli come Amensia: The Dark Descent del 2010 e Outlast del 2013 (oltre che ovviamente da Ax-2: Uchuu Yusousen Nostromo, come detto prima).

Questi due videogiochi avevano come obiettivo quello di sopravvivere in mezzo ai nemici, utilizzando la furbizia e l’analisi dell’ambiente circostante. Cosa non semplice dato che il buio rendeva impossibile la vista senza la lanterna (Amnesia) o la videocamera (Outlast) e nell’ambiente circostante l’olio e le batterie sono elementi che scarseggiano.

In sostanza, questa sequela di videogiochi mista all’enorme vicenda e visione dietro al teaser di Silent Hill P.T. hanno rivoluzionato il gameplay degli horror e dei survival horror, portando anche alla creazione del settimo capitolo di Resident Evil (2017) che era riuscito a prendere quelle meccaniche innovative e generare un titolo che era un perfetto connubio con il primo capitolo.

L’evoluzione Multiplayer

Concludiamo questa disamina con l’ultima grande evoluzione avvenuta con Dead by Dealight (2016). Prima di questo gioco ci furono molti titoli survival horror multiplayer, come Resident Evil Outbreak (2004), Left 4 Dead (2008), Cry of Fear (2012), ma nessuno ha saputo rivoluzionare il genere come il titolo uscito nel 2016.

Mentre i survival horror erano stati fino a quel momento cooperativi di sopravvivenza, contro nemici gestiti da una intelligenza artificiale; qui si introduce un nemico gestito da un altro giocatore, che gioca da solo contro altri giocatori. Solitamente questo nemico è più forte dei normali giocatori e il suo obiettivo è quello di catturare tutti, mentre l’obiettivo degli altri è sopravvivere collaborando.

Conclusione

Come abbiamo visto il genere survival horror ha avuto più volte un’evoluzione in base anche al periodo storico e a cosa piaceva ai giocatori. Questo permette sicuramente grande versatilità al genere e dà la possibilità di farlo rivivere sempre con nuove visioni di game design. Bisogna dire però che una parte del pubblico è ancora molto affezionata ai classici, andando a creare continue mod per i titoli originali o videogiochi ispirati ad essi: come ad esempio Crow Country (2024) e Daymare 1998 (del 2019).

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Editoriali

Il 2026 sancirà il ritorno di Football Manager: è tornato il Re?

Ho iniziato ad appassionarmi ai manageriali di calcio a partire dalla metà degli anni 90. All’epoca spopolava Championship Manager Italia (CManita per gli amici). Non sono mai stato un drago a districarmi tra tattiche ma quel mondo, da tifoso calcistico, mi affascinava e, di conseguenza, cercavo di capirlo.

Mano a mano che gli anni passavano i manageriali diventavano sempre più tattici e profondi ed io ci capivo sempre meno ma il mio manageriale annuale lo dovevo comprare, era diventata una abitudine, una bella abitudine.

I fatti

Football manager

La cancellazione di Football Manager 2025 ha rappresentato un terremoto nel settore, più profondo di quanto possa sembrare a chi osserva dall’esterno quindi.

Non si è trattato soltanto di un rinvio o di un cambio di calendario, ma di una scelta drastica che ha imposto agli sviluppatori di Sports Interactive e a Sega un’ammissione rara: il prodotto non era pronto, non era all’altezza delle aspettative e pubblicarlo avrebbe significato tradire un pubblico che da oltre vent’anni alimenta il mito di questa serie.

In un mercato abituato a uscite annuali quasi rituali, la rinuncia ha colpito duramente la comunità, lasciandola con un vuoto inaspettato e un senso di spaesamento.

Ho quindi voluto capirci di più, perché la mancanza si è sentita. Penso che le ragioni dietro questa decisione sono state, ovviamente, molteplici.

I (probabili) motivi

Il passaggio al motore Unity e la volontà di rinnovare l’interfaccia e di rendere più moderna e accattivante l’esperienza utente hanno imposto obiettivi tanto ambiziosi quanto complessi. Nei test sembrava che il gioco non restituisse le sensazioni attese, il feeling non era rassicurante, i punteggi dei consumatori troppo bassi.

Continuare a rimandare avrebbe significato trascinare il titolo verso una finestra di uscita ormai incompatibile con il calendario calcistico, mentre un lancio affrettato avrebbe rischiato di compromettere un marchio che ha costruito negli anni un rapporto quasi fiduciario con i propri appassionati.

È stato un gesto di realismo, forse anche di umiltà: meglio fermarsi piuttosto che consegnare qualcosa che non valesse il prezzo e la fiducia del pubblico. Gesto che, dopo una mia meraviglia iniziale, personalmente ho compreso e apprezzato.

Le conseguenze

Le conseguenze sono state inevitabili. Gli utenti hanno reagito con delusione e con una certa diffidenza verso la gestione della comunicazione. L’attesa per un titolo che ogni anno scandisce la stagione calcistica è stata tradita e la frustrazione si è tradotta in scetticismo.

Eppure, non è mancato chi ha riconosciuto nella cancellazione un atto di responsabilità. Rinunciare a incassi sicuri per non macchiare la reputazione della saga ha dimostrato che esiste ancora un confine tra business e rispetto della community e che questo confine può orientare decisioni drastiche.

Da anni FM accompagna le nostre stagioni calcistiche, diventa il sottofondo delle serate invernali, l’ossessione notturna quando una trattativa di mercato virtuale sembra più importante di quella reale. Non avere avuto un’edizione nel 2025 ha significato rompere un ritmo, mancare a un appuntamento che è parte del calendario emotivo di tanti.

Una nuova speranza

Ecco perché si spera che Football Manager 2026 non sarà soltanto un nuovo capitolo, ma una prova di fiducia. Sarà il momento in cui si dovrà dimostrare di aver ascoltato le critiche e di aver imparato dalla battuta d’arresto.

Il nuovo titolo inaugurerà il pieno passaggio a Unity, integrerà finalmente il calcio femminile, e porterà con sé la Premier League con licenza ufficiale. Non sono semplici aggiunte, ma segnali di un impegno a costruire qualcosa di più grande, più moderno, e soprattutto degno dell’attesa.

So già che lo approccerò con un misto di entusiasmo e prudenza. Da un lato c’è la speranza di ritrovare il vecchio amore con una veste rinnovata; dall’altro c’è la consapevolezza che la fiducia non è infinita, che ogni passo falso peserà il doppio.

Forse la vera sfida di FM26 non sarà convincere la critica o attirare nuovi giocatori, ma riconquistare chi, come me, ha passato ore infinite a negoziare contratti con un talento sudamericano sconosciuto o a plasmare la tattica perfetta con un 4-2-3-1 inventato in piena notte…senza mai riuscirci!

Non chiedo un gioco perfetto, chiedo un gioco che mi faccia rivivere quella magia, quella sensazione di avere tra le mani il destino di un club e di una carriera virtuale che, per qualche strana alchimia, finiscono sempre per sembrare più reali del reale.

La mancata uscita del 2025 resterà un monito per i posteri ma potrebbe diventare anche il punto di svolta. Se Football Manager 2026 saprà mantenere le promesse, l’anno di silenzio sarà ricordato come una pausa necessaria, un respiro profondo prima di tornare a correre. E forse, proprio perché ci è mancato, il ritorno avrà un sapore ancora più intenso.

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Editoriali

Come Bloodborne ha rivoluzionato i Soulslike: combattimento, lore e futuro del genere

Nel 2015, Bloodborne ha preso d’assalto il mondo dei videogiochi, distaccandosi da Dark Souls sia perchè non era un sequel e sia per offrire un’esperienza unica nel suo genere. Nonostante questo titolo di FromSoftware non abbia reinventato il concetto di difficoltà, atmosfera e narrativa criptica, Bloodborne è stato comunque speciale per fan e critica. Ma cosa lo ha reso tale?

Oltre alla sua ambigua e inquietante lore, Bloodborne ha ridefinito il gameplay e ha avuto un impatto profondo sui titoli futuri. In questo articolo, esploreremo come il più horror dei Soulslike di FromSoftware abbia innovato il sistema di combattimento, come la sua lore ha influenzato i giochi successivi e in che modo ha tracciato la strada per il futuro dei Soulslike.

Il Combat System: Velocità, Fluidità e Rischio

Uno dei cambiamenti più radicali che Bloodborne ha introdotto rispetto ai suoi predecessori è stato il sistema di combattimento. Se in Dark Souls il giocatore è invitato a ponderare ogni mossa con un approccio difensivo, Bloodborne ha spinto il gameplay verso una direzione completamente diversa. Il ritmo è frenetico, e la velocità dei combattimenti è molto più alta. La possibilità di utilizzare armi trasformabili come la spada che diventa una lama lunga o l’ascia che si trasforma in una grande mazza ha conferito al combattimento un aspetto dinamico e imprevedibile.

Insomma l’azione diventa il cuore del gameplay, con la necessità di spingersi sempre oltre i propri limiti. Sebbene la stamina giochi un ruolo fondamentale come in altri titoli Souls, la sua gestione in Bloodborne è un po’ diversa. Essendo il combattimento molto più aggressivo, la stamina è utilizzata per fare attacchi veloci e ripetuti, ma anche per schivare gli attacchi nemici. La mobilità è molto importante, e la possibilità di effettuare schivate rapide e precise permette di evitare danni senza dipendere eccessivamente da un blocco fisico. Le schivate sono molto più agili rispetto a Dark Souls, e la loro funzione è cruciale per evitare colpi fatali. Inoltre, la direzione in cui si schiva è molto importante, poiché ti permette di passare dietro o ai lati di nemici potenti, un’abilità che rende il combattimento ancora più tattico.

Questa filosofia si è estesa ai giochi successivi di FromSoftware, come Sekiro: Shadows Die Twice e Elden Ring, che continuano a enfatizzare un combattimento più rapido e più reattivo. In Elden Ring, ad esempio, la libertà di movimento e l’attenzione al tempismo dei colpi ricalcano molto da vicino l’impatto che Bloodborne ha avuto sul panorama dei giochi d’azione, In esso infatti il gameplay si è evoluto ulteriormente, fondendo le meccaniche di Bloodborne con quelle di Dark Souls, mantenendo un sistema di combattimento che premia sia l’aggressività che la difesa.

L’importanza della pistola

Oltre al combattimento corpo a corpo, Bloodborne introduce l’uso di armi da fuoco. Le pistole non sono solo decorative: sono strumenti fondamentali per il combat system. Possono essere utilizzate per stordire i nemici e aprire un’opportunità per un attacco devastante, in un meccanismo che aggiunge strategia. Ad esempio, colpire un nemico con la pistola mentre sta per attaccare ti permette di eseguire un colpo critico devastante.

Visceral Attacks e Parry

La meccanica di Parry è una delle più distintive di Bloodborne. Quando si riesce a parare un attacco nemico al momento giusto con una pistola si attiva un “Visceral Attack”. Questo attacco critico è letale e infligge un danno significativo al nemico, trasformando la lotta in uno scambio di colpi rapidi e brutali.

Il sistema di Visceral Attack è uno degli aspetti più soddisfacenti del gioco, poiché premia il tempismo perfetto. Se eseguito correttamente, si infligge un danno enorme.

La Lore: Follia, Divinità cosmiche e Mistero

Se Bloodborne ha rivoluzionato il gameplay, la sua lore è altrettanto affascinante e complessa. Ispirato dai racconti di H.P. Lovecraft, il gioco esplora il concetto di “horror cosmico”, dove le verità più sconcertanti sono troppo potenti per essere comprese dalla mente umana. La città di Yharnam, con il suo misterioso culto e la sua epidemia, è solo la punta dell’iceberg di una realtà ben più oscura e pericolosa.

Invece di seguire una trama lineare, Bloodborne racconta la sua storia attraverso frammenti di dialoghi, descrizioni di oggetti e gli ambienti stessi. La narrazione non è mai diretta, ma si svela poco a poco, con i giocatori che sono costretti a fare connessioni e teorie sulle origini del male che corrompe Yharnam e i suoi abitanti. Il concetto di “follia” è ricorrente, i personaggi più importanti del gioco sono spesso coloro che sono stati consumati dalla ricerca della verità, mentre gli orrori lovecraftiani che emergono man mano che il gioco prosegue spingono il giocatore a interrogarsi sulla natura stessa dell’universo. Elden Ring segue la stessa filosofia di storytelling.

La trama principale è nascosta dietro a leggende e misteri, che vengono svelati attraverso esplorazione, descrizioni di oggetti, e interazioni con NPC. La presenza di figure divine, la disgregazione dell’ordine cosmico e la corruzione di poteri superiori sono temi che riecheggiano le influenze lovecraftiane di Bloodborne. La lore di Elden Ring è ancora più vasta, ma la sua struttura di narrazione è sicuramente un’evoluzione di quella di Bloodborne, dove il giocatore è incoraggiato a fare ricerche, formulare teorie, e condividere scoperte con la community. Questo non è di certo una novità per I souls, ogni progetto della casa ha questo modello di storytelling ma forse Bloodborne ne ha una tra le più misteriose.

The Duskblood, la nuova esclusiva per Nintendo

Il gioco uscirà entro la fine del 2025. Ci sono stati anche alcuni trailer teaser che ci danno solo un assaggio ma si ipotizza che il gioco sarà rilasciato in una finestra di tempo simile a quella di altri titoli di grande impatto per la console. Annunciato il 2 aprile 2025 alla premier per Switch 2 il gioco si presenta come un seguito spirituale di Blodboorne ma facciamo chiarezza.

The Duskbloods non è un sequel di Bloodborne nonostante alcuni elementi possano inizialmente indurre in errore, si tratta piuttosto di un ambizioso titolo multiplayer action PvPvE, che si distingue per alcuni tratti nell’art design e delle scelte architettoniche che richiamano però molto le atmosfere di Bloodborne. Tuttavia, è fondamentale non lasciarsi ingannare:

The Duskbloods sviluppa una propria identità ben definita, che, per certi versi può sembrare più simile alla città di Krat in Lies of P che a Yharnam. Il trailer di presentazione di tre minuti, con cui FromSoftware ha ufficialmente svelato The Duskbloods pur mantenendo un alone di mistero su molti aspetti, il filmato offre comunque alcuni spunti significativi che consentono di intuire, almeno in parte,la direzione creativa intrapresa dal team di sviluppo. Tra questi spiccano un primo sguardo alla mappa di gioco e un’anteprima di alcune meccaniche di gameplay, interessante che abbiano voluto rimarcare la meccanica del salto introdotta per prima in Elden Ring e che sembra essere stata molto apprezzata dai fan.

Bloodborne 2 in arrivo?

Al momento, non ci sono conferme ufficiali su un possibile Bloodborne 2. Sebbene i fan sperino da tempo in un seguito, FromSoftware e Sony non hanno mai fatto dichiarazioni ufficiali su questo progetto. Ma hanno lasciato sempre indizi.

Il più grande ad esempio è stato quando hanno richiesto ad un famoso modder la rimozione della sua patch che trasformava il gioco in 60 FPS su pc. Una mossa fatta a distanza di quattro anni da quando è stata creata, cosi i fan hanno creato in loro un alone di speranza per un possibile progetto. Insomma se Bloodborne 2 dovesse diventare realtà, sarà sicuramente un evento da segnare sul calendario, ma per ora dobbiamo continuare ad aspettare notizie ufficiali. Mentre I fan continuano a dare la caccia alle belve a Yharnam in una notte di caccia senza fine sperando un giorno che I loro desideri vengano realizzati e che questo gioco fantastico possa riprendere vita in qualcosa di nuovo.

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La saga di Metal Gear Solid

Siamo ormai giunti alla metà del mese di agosto. Tra vacanze, bagni al mare e viaggi in montagna, ognuno cerca di valorizzare il proprio tempo libero e di trovare ogni modo possibile per sfuggire al caldo, davvero rovente, di questi giorni.

Per tutti i fan di videogiochi, però, la fine dell’estate regalerà un evento davvero bollente. Proprio negli ultimi giorni del mese, infatti, uscirà Metal Gear Solid Delta Snake Eater. Questo gioco, presentato come il remake del leggendario terzo capitolo della saga, segna il ritorno della saga di Snake dopo un’attesa di ormai 7 anni.

Per prepararci al meglio all’evento abbiamo deciso di proporvi una retrospettiva di tutti i principali capitoli della saga di Metal Gear Solid, sia per ripassare insieme tutti i momenti salienti della saga, sia per invogliare eventuali neofiti a confrontarsi con questa autentica pietra miliare della storia dei videogames. Prepariamo tutto il necessario e buttiamoci a capofitto in questa incredibile missione!

Le origini: gli episodi per MSX

Come molti di voi sapranno, la saga di Metal Gear Solid è stata partorita dalla geniale mente di Hideo Kojima (vedi qui per un approfondimento sull’autore). Le sue origini, però, risalgono a ben prima della sua consacrazione, avvenuta sulla prima Playstation.

Il primo episodio della saga, intitolato semplicemente Metal Gear, apparve infatti nel 1987 per MSX, un popolare computer giapponese. Metal Gear era un gioco estremamente originale ed avveniristico. Il giocatore impersonava Solid Snake, soldato d’ elite dell’unità Fox Hound, e aveva il compito, sotto la guida del leggendario Big Boss, di salvare il suo compagno Grey Fox e sconfiggere un gruppo di misteriosi terroristi.

La particolarità del gioco era la necessità di agire quanto più possibile in maniera stealth. Metal Gear non premiava la capacità del giocatore di eliminare i nemici, bensì la sua abilità nell’agire di soppiatto e superare le varie ambientazioni senza farsi scoprire. Anche lo sviluppo della trama, sebbene limitato, riservava diversi colpi di scena. Il gioco ottenne un ottimo successo ed una conversione NES, a dire il vero abbastanza pessima.

I primi sequel

Nel 1990 uscirono ben due episodi di Metal Gear. Metal Gear: Snake’s Revenge era un episodio non canonico in esclusiva NES. Si tratta di un gioco action sparatutto piuttosto divertente, ma che poco aveva da spartire col resto della saga.

Metal Gear Solid

Di tutt’altra pasta invece Metal Gear 2: Solid Snake. Uscito sempre per MSX, questo gioco è il seguito diretto del gioco originale e riesce a potenziarne tutti gli aspetti. Grafica, gameplay, sviluppo della storia, dialoghi…tutto risulta più grande e coerente. Risultano potenziati soprattutto l’inventario e le possibilità offerte da esso.

Snake è nuovamente in missione, stavolta a Zanzibar, per debellare la minaccia di Outher Heaven, vera e propria nazione indipendente fatta di soli soldati, che sembra avere a disposizione un’arma devastante, solo accennata nel primo gioco: il Metal Gear.

Questi primi episodi, sebbene molto datati, contengono già molti degli elementi che saranno caratteristici della saga. Personaggi iconici come Big Boss e Gray Fox, l’enorme uso dei dialoghi per sviluppare la trama, l’uso creativo di elementi come le sigarette o le scatole di cartone e molto altro ancora. Questi giochi sono stati inseriti in molte delle collection legate alla saga e consigliamo a tutti di recuperarli (esclusa la versione NES del primo Metal Gear, un vero disastro di bug e cattiva programmazione).

La consacrazione: Metal Gear Solid

Nel 1998, sulla prima gloriosa Sony Playstation, apparve quello che è forse il gioco più famoso dell’intera saga. Metal Gear Solid, pur restando assolutamente coerente con le trame e le meccaniche dei giochi precedenti, riuscì ad elevarsi oltre ogni immaginazione, trasformando una serie di nicchia in un incredibile successo mondiale.

La grafica di Metal Gear Solid era semplicemente stupenda, con ambienti e personaggi solidi, belli da vedere e ricchi di particolari. Anche la colonna sonora risultava coinvolgente e di impatto, con numerose tracce divenute oggi iconiche.

Il gioco narra una missione del nostro Solid Snake in una base in Alaska, dove un gruppo di terroristi, capeggiato dal misterioso Liquid Snake, sembra essere in possesso di missili nucleari e minaccia il mondo intero con lo spettro di una guerra atomica. Grazie alla potenza di calcolo dei CD, Kojima riuscì finalmente a creare una vera trama cinematografica grazie alle numerose sequenze di intermezzo, che sviluppavano l’intreccio con numerosi colpi di scena davvero inattesi.

Anche il gameplay non deludeva. Snake aveva a disposizione molte abilità ed un arsenale davvero vasto e variegato. Riuscire a sfuggire ai soldati è sempre divertente ed appagante ed ogni area può essere affrontata con strategie differenti in base allo stile del giocatore. Anche le boss battle sono davvero divertenti ed iconiche e spesso necessitavano di strategie stravaganti ed originali per essere superate (qualcuno ha detto Psycho Mantis?).

Insomma, Metal Gear Solid si impose subito come un capolavoro assoluto ed è tuttoggi considerato da molti il miglior gioco per la prima Playstation, con come unici difetti la longevità non elevatissima e la presenza di dialoghi a volte fin troppo fitti.

Un seguito divisivo

Quando, nel 2001, fece la sua uscita Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, il gioco appariva un successo annunciato. Konami infatti aveva deciso di non tentare la strada di un sequel immediato al primo Metal Gear Solid, ma di attendere l’uscita di Playstation 2 per poter realizzare un gioco che potesse realmente innovare e migliorare ogni elemento del gioco originale.

Le prime versioni demo del gioco, che mostravano Snake in azione a bordo di una petroliera, avevano generato pareri molto favorevoli ed entusiastici e sembrava davvero che MGS2 fosse un capolavoro annunciato. Stavolta, però, non tutto andò come previsto. Intendiamoci, Sons of Liberty non si può certamente definire un brutto gioco. Alcuni fan lo considerano addirittura il migliore della serie. A livello tecnico, il gioco fa un passo avanti enorme rispetto al predecessore, soprattutto dal punto di vista grafico.

Eppure, ha indubbiamente diversi difetti. Sebbene il gameplay risulti enormemente ampliato e migliorato, con la possibilità di sparare in soggettiva, addormentare le guardie e nascondere i loro corpi e un’interazione con l’ambiente molto più ricca, le situazioni di gioco che si va ad affrontare nel corso dell’avventura risultano spesso poco originali e ricalcano fin troppo da vicino il primo episodio.

Inoltre la trama di gioco, pur molto articolata ed originale, risulta pesante e fin troppo sopra le righe, anche a causa di una quantità di dialoghi codec davvero mastodontica. Kojima voleva probabilmente creare proprio questo effetto di pesantezza, dal momento che il gioco rompe più volte la quarta parete e “gioca” con le percezioni del videogiocatore. Tuttavia queste finezze non furono colte dal grande pubblico.

E veniamo all’elefante nella staza, quello che per molti è stata la causa principale del parziale fallimento del gioco. Nononstante Konami avesse tenuto la cosa totalmente nascosta, in MGS 2 NON si utilizza Solid Snake, tranne che nella primissima sequenza di gioco. Kojima introdusse a sorpresa il personaggio di Raiden, una nuova recluta di Foxhound che doveva fungere da avatar del giocatore. Questa scelta coraggiosa fu totalmente rigettata dai fan, che non accettarono il nuovo personaggio.

Nonostante queste problematiche, il gioco ricevette comunque una buona accoglienza. Tuttavia, MGS2 iniziò a dare ai fan un assaggio di dove potessero spingersi le stranezze di Kojima.

Il Metal Gear Solid perfetto

Nel corso del 2004 uscirono ben tre giochi della saga Metal Gear. Metal gear Ac!d era un episodio non canonico pensato per la PSP. Metal Gear Solid: The Twin Snakes era invece una sorta di Remake del primo capitolo realizzato per Game Cube.

Ma il vero piatto forte fu indubbiamente Metal Gear Solid 3: Snake Eater. Questa volta ci fu ben poco da polemizzare. Snake Eater fu subito riconosciuto come una gemma assoluta ed è tutt’oggi considerato da molti il miglior episodio dell’intera saga.

MGS 3 è ambientato nel 1964 e racconta la storia di Naked Snake, che si rivelerà presto essere il giovane Big Boss (non è spoiler, basta usare la logica). A differenza dei capitoli precedenti, Snake Eater è prevalentemente ambientato all’interno di giungle, foreste e paludi. Questo setting aumenta di molto le possibilità del gameplay, fornendo al nostro Snake una miriade opzioni per sfruttare l’ambiente a suo vantaggio.

Inoltre viene introdotto il CQC, una tecnica di lotta corpo a corpo che amplia a dismisura le azioni di Snake quando entra a contatto coi nemici. Viene anche introdotta la barra della resistenza, che snake dovrà continuamente alimentare nutrendosi. Oltre alle razioni, Snake può ricorrere alla caccia, facendo attenzione a non ingerire animali pericolosi.

La trama di Snake Eater è semlicemente perfetta. Una storia avventurosa e drammatica, che cita apertamente tutto il cinema spy (in particolare le storie di James Bond) e riesce a non essere mai banale né scontata, fino all’incredibile finale, ricchissimo di colpi di scena. Anche il comparto tecnico del gioco è assolutamente superbo, con una grafica ulteriormente potenziata e musiche davvero emozionanti e divenute iconiche, su tutte il celebre brano Snake Eater, che accompagna l’intro del gioco.

La conclusione della saga: Metal Gear Solid 4

Dopo Metal Gear Solid 3, la saga di MGS si prese altri quattro anni di pausa. Durante questo periodo uscirono alcuni titoli secondari, come Metal Gear Solid: Portable Ops, spin of non canonico uscito per PSP, ed anche le prime collection, contenenti tutti gli episodi principali della saga. Nel giugno 2008, sulla nuova Playstation 3, arrivò finalmente Metal Gear Solid 4: Guns of The Patriot.

Questo quarto episodio è certamente il più malinconico dell’intera saga. A causa dei suoi particolari geni, il nostro Snake subisce un invecchiamento precoce ed è ormai stanco e affaticato dalle 1000 battaglie affrontate. Tuttavia, in questi episodio dovrà affrontare la più dura delle sfide, ovvero smantellare l’intero sistema dei Patriots, una serie di intelligenze artificiali che controllano quasi ogni aspetto della società umana. Inoltre, Snake deve vivere il confronto finale con l’eterno rivale, Liquid.

La trama di Guns of The Patriots è forse la più articolata di tutta la serie. Il gioco riesce a seguire in modo soddisfacente tutti i personaggi della saga, dando ad ognuno di loro la giusta conclusione. La regia di Kojima svolge un lavoro davvero superbo, alternando fasi di azione adrenalitica a scena dalla forte intensità emotiva.

Anche il gameplay non deluse le aspettative, riproponendo tutte le meccaniche viste nei giochi precedenti, integrandole in un ambientazione enormemente più vasta e con moltissime possibilità di interazione. Il gioco proponeva inoltre un numero esorbitante di armi e nuovi equipaggiamenti, tra cui spicca l’MK II, un Metal Gear tascabile che Snake può comandare a distanza per azioni di ricognizioni e numerose altre interazioni.

Anche il comparto tecnico è assolutamente all’altezza delle aspettative, con una grafica ed un sonoro semplicemente mozzafiato che rendono MGS4 davvero simile ad un film interattivo. Unica nota stonata, ancora una volta, furono le sequenze di intermezzo, a volte davvero interminabili.

Un Metal Gear portatile

Con MGS4, la saga di Metal Gear aver raggiunto la sua naturale conclusione. Eppure, i videogiocatori erano ancora affamati delle avventure di Snake. Ecco dunque arrivare Metal Gear Online, spin of mutigiocatore e Metal Gear Solid Touch, per i dispositivi IOS e Android.

In entrambi i casi, si trattava di episodi non canonici, quindi slegati dalla trama principale. Nel 2010 uscì anche Metal Gear Solid: Peacewalker, un nuovo episodio portatile per la PSP di Sony. A differenze di MGS Portable Ops, però, Peacewalker è un episodio assolutamente collegato alla trama principale.

In questo gioco torniamo a vestire i panni del mitico Big Boss, a circa dieci anni di distanza dagli avvenimenti di Snake Eater. Il gioco introduce una serie di personaggi che si riveleranno fondamentali per il proseguo della saga, come Kazuhira Miller, Huey Emmerich e la misteriosa Paz. A causa dei limiti di PSP, Konami compì la scelta di rappresentare le scene di intermezzo in forma di fumetto. Una scelta azzeccata che rende la narrazione visivamente piacevole e scorrevole.

Il gameplay si rifaceva a Snake Eater, introducendo però tutta una serie di elementi gestionali legati al reclutamento dei soldati nemici e alla gestione della Mother Base, centrale operativa del Boss e delle sue truppe. La base avrebbe poi fornito supporto a Snake durante le missione, tramite l’invio di armi e razioni. Questi meccanismi offrirono una ventata di aria fresca e resero lo svolgimento del gioco più vario e metodico, sebbene fosse chiaro che la scelta della struttura a missioni e della gestione della base fu motivata soprattutto dal desiderio di sfruttare al meglio la portatilità della PSP.

Peacewalker ottenne, nel complesso, un ottimo successo. Il pubblico apprezzò molto la trama del gioco e reagì bene alle nuove meccaniche. Non si trattava, però, di un gioco perfetto. Potenziare al massimo la base richiedeva di rigiocare molte volte le stesse missioni. Le missioni stesse, alla lunga, risultavano un po’ ripetitive.

La nota più dolente riguardò il finale del gioco. Per sbloccare il vero finale, infatti, era necessario completare il Peacewalker. Questo però poteva essere fatto solo raccogliendo specifici oggetti. Il giocatore poteva ottenerli in modo randomico sconfiggendo i boss del gioco. Questo obbligava naturalmente a ripetere gli scontri coi Boss un numero imprecisato di volte, cosa che risultava noiosa e non necessaria.

A parte queste sbavature, Peace Walker ricevette, come detto, un’ottima accoglienza. Ora però i giocatori erano ancora più desiderosi di un nuovo episodio della saga che chiudesse il cerchio narrando gli ultimi eventi oscuri della vita di Bigg Boss.

Un episodio tormentato

Dopo l’uscita di Peacewalker, nel 2010, la saga di Metal Gear ritornò nell’ombra per diversi anni. Nel periodo seguente uscirono numerose collection e versioni remake dei principali episodi della saga. Nel 2012 apparve su PS3, X Box 360 e PC Metal Gear Rising: Revengeance, episodio action, sviluppato da Platinum Games, dedicato a Raiden.

Nell’agosto 2012, in occasione del venticinquesimo anniversario della saga, fu presentato per la prima volta il trailer di un videogioco chiamato Ground Zeroes, che avrebbe utilizzato per la prima volta l’avveniristico motore Fox Engine. Non ci volle molto perché i giocatori intuissero che si trattava di un nuovo episodio della saga principale di Metal Gear. Ma le cose divennero molto più complesse.

Nel dicembre dello stesso anno, agli Spike Video Games Awards, venne mostrato il trailer di un altro gioco, chiamato The Phantom Pain. Nonostante i depistaggi tentati da Kokima, divenne chiaro che The Phantom Pain e Ground Zeroes erano entrambi parte di un nuovo Metal Gear. Ground Zeroes sarebbe stato il prologo, The Phantom Pain il gioco principale.

Nei priani di Kojima, i due giochi avrebbero dovuto essere pubblicati insieme. A causa delle forti pressioni esercitate da Konami, si decise invece di pubblicare prima Ground Zeroes e solo in seguito The Phantom Pain.

Un’operazione discutibile

Quando Ground Zeroes uscì, nel 2014, suscitò numerose polemiche. Il gioco infatti proponeva una singola missione, completabile tra l’altro in poco più di venti minuti. Nonostante questo, GZ fu venduto ad una cifra di poco inferiore a quella di un gioco tripla A.

Il gameplay di Ground Zeroes era semplicemente superbo. Il nuovo motore di gioco garantiva una vera esperienza open world. Sebbene il gioco fosse interamente ambientato in una singola base militare, le possibilità offerte dal nuovo sistema erano praticamente illimitate e donavano una libertà di azione e pianificazione sconfinate. La possibilità di segnare i nemici tramite binocolo era la naturale evoluzione dei radar visti nei primi episodi e le numerose mosse ed armi a disposizione del nostro Snake donavano una profondità enorme alla giocabilità.

La trama era collocata a pochi mesi di distanza da Peacewalker e metteva nuovamente il giocatore nei panni di Big Boss, impegnato in una missione per salvare Chico e Paz, due vecchie conoscenze del gioco precedente. Il gioco presentava inoltre Skullface, il nuovo antagonista e la temibile unità XOF.

Nonostante l’ottimo gameplay e la presenza di una serie di missioni Extra sbloccabili al completamento della missione principale, i fan non mandarono proprio giù il fatto di aver dovuto acquistare quella che di fatto era solo la prima parte di un gioco enormemente più grande.

Il dolore fantasma…dei giocatori.

Nel 2015 arrivò nei negozi anche The Phantom Pain. Questo gioco sancì il definitivo divorzio tra Kojima e Konami. Il geniale (e capriccioso) creator decise infatti di rompere definitivamente con la casa produttrice. A suo dire, Konami avrebbe pregiudicato la buona riuscita del gioco continuando a mettere fretta al lavoro di Kojima e ponendogli una serie di paletti che gli impedirono di realizzare l’opera che aveva in mente. Purtroppo, questa situazione ebbe effetti pesanti anche sul gioco.

Dal punto di vista del gameplay, TPP è un capolavoro assoluto. Il gioco riprende tutti i punti di forza di GZ, potenziandoli all’inverosimile. Ora Snake, o meglio, Venom Snake, agisce su due enormi macro aree, ovvero l’Africa e L’Afghanistan, tutte liberamente esplorabili. Una volta entrato nell’area di una missione, però, Snake dovrà rimanervi fino a missione completata, pena il fallimento della stessa.

TPP riprende infatti la struttura a missioni vista in Peacewalker, differenziando in modo chiaro le missioni principali dalle secondarie. Proseguendo nel gioco, si vanno via via a sbloccare nuove missioni e allo stesso tempo la storia avanza. Torna anche la Mother Base, la cui gestione viene enormemente ampliata e perfezionata. Ad accompagnare Venom Snake nelle sue missioni vengono introdotti il cavallo D Horse e il cane DD, a cui andrà presto ad affiancarsi (se il giocatore avrà compiuto le giuste scelte) anche la cecchina Quiet.

Sebbene il gioco possa risultare un po’ ripetitivo, dal momento che le missioni tendono ad avere obiettivi simili, la libertà di movimento, la quantità di azioni e possibilità fornite a Snake e l’incredibile divertimento del gameplay rendono ogni partita a TPP una vera festa.

Il comparto tecnico è semplicemente meraviglioso. La grafica presenta ambientazioni vastissime, realistiche e piene de dettagli. I modelli dei personaggi sono semplicemente perfetti, così come le animazioni. Anche la colonna sonora è un’autentica gemma, con numerosi brani, anche cantati, entrati nella leggenda della saga.

Un gioco incompleto

Purtroppo, però, dal punto di vista della trama o anche solo dei contenuti a disposizione, The Phantom Pain si rivela un progetto incompleto. Mancano infatti molte ambientazioni e anche alcuni personaggi che erano stati anticipati nei trailer. Come se non bastasse, alcuni archi narrativi del gioco non vengono completati.

Il gioco è composto da un prologo e da due atti (si vocifera che nella testa di Kojima avrebbero dovuto essere 5). Se il primo atto risulta ben scritto e con uno sviluppo coerente e completo, lo stesso non si può dire del secondo. Uno dei filoni principali della trama, quello legato ad Eli e al Shaelanthropus, viene troncato e mai completato. Anche la missione finale non è altro che una fotocopia del prologo, con solo alcune piccole varianti negli eventi ed un colpo di scena finale che ribalta totalmente la situazione e funge da finale (parziale) del gioco.

Un peccato davvero. TPP, anche per come è oggi, è certamente uno dei migliori metal gear della saga e ha quasi indubbiamente il miglior gameplay della serie. Ma se Kojima avesse potuto lavorare come aveva in mente, probabilmente ci troveremmo di fronte al miglior Metal Gear di sempre e probabilmente (non pensiamo di esagerare) uno dei più grandi giochi della storia.

Conclusioni

Ed eccosi arrivati alla fine del nostro viaggio. Dopo The Phantom Pain, infatti, non è più uscito alcun episodio canonico della saga. Gli unici prodotti targati Metal Gear ad essere stati pubblicati sono stati il discutibile Metal Gear Survive ed il primo volume della Master Collection.

Come detto, però, le cose stanno per cambiare. Riuscirà Snake Eater Delta a riaccendere le braci della leggenda? Non resta che scoprirlo! Voi come avete vissuto la saga di Metal Gear? avevate giocato a tutti gli episodi principali? O la state riscoprendo solo ora? Fateci sapere!

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