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Giocare a Starfield senza alcuna aspettativa, un’esperienza da 10 e lode

Io, su Starfield, non avevo aspettative, nel senso che non lo attendevo proprio. Forse per distrazione sono rimasto fuori da tutto quel susseguirsi di news e rumors che, come succede da anni, ogni titolo Bethesda si porta dietro in attesa del lancio ufficiale, generando quel mix di hype per un nuovo gioco che si sa, avrà tantissimo da offrire, e di critiche preventive da parte di chi si aspetta una marea di bug che probabilmente rimarranno irrisolti nei secoli.

Ecco, io da tutto questo ne sono rimasto fuori, oltretutto involontariamente, finché navigando nel negozio di Steam mi è arrivata la notifica (tardiva): “Ehi, è uscito Starfield, compralo”. Quel poco che avevo sentito a riguardo era estremamente negativo (e per alcune cose, a ragion veduta, ma ne parliamo tra un po’), eppure ho deciso di comprare lo stesso il gioco. Il risultato? L’ho trovato strabiliante.

Ora, di cose che non vanno ce ne stanno parecchie. Dalla grafica distante anni luce dagli standard odierni alla gestione dell’inventario rimasta immutata nel corso dei diversi Elder Scrolls e Fallout, caotica e poco intuitiva, così come accade per il quest tracker che accorpa tutto lasciando giusto la possibilità di raggruppare le missioni per tipologia o fazione (ma con oltre mille pianeti, non era forse il caso di aggiungere un organizer per località?).

Queste, in sintesi, sono le principali cose che non vanno, di cui probabilmente si è discusso ovunque e di cui ha parlato anche qualche Nostradamus prima di poter mettere le mani sul gioco. Eppure, come dicevo, sto trovando Starfield un gioco eccezionale. Mi sono chiesto perché, e questa volta il mio incarnare l’autentico spirito della contraddizione non c’entra nulla: Starfield mi piace come pochi altri giochi perché puoi fare una miriade di cose e io da questo titolo non mi aspettavo proprio nulla.

L’ultimo lancio di Bethesda prosegue a modo suo la piccola rivoluzione avviata da Baldur’s Gate 3: si tratta di un gioco completo, senza microtransazioni o dlc (al netto di future possibili espansioni, ovviamente) e una libertà di movimento infinita. Mi sono ritrovato subito a vivere le stesse vibes che mi hanno regalato i diversi Fallout, di cui ho un bellissimo ricordo e mi sono trovato bene nonostante l’assenza V.A.T.S. (ossia della mira assistita introdotta nel terzo capitolo, poi utilizzata anche in New Vegas, Fallout 4 e Fallout 76), essenziale per chi non è proprio un campione negli sparatutto.

La cosa che più mi piace in questo gioco sono le quest. Sono tantissime, così tante da mettere all’angolo un maniaco del completismo come me. Infatti, se Baldur’s Gate 3 (ormai metro di paragone di ogni titolo videludico) mi ha stordito per la vastità delle mappe, tanto da infastidirmi perché sapevo che mi sarei perso qualcosa, lo stesso non è successo con Starfield: i pianeti, gli avamposti e gli npc sono così tanti che mi sono felicemente arreso all’idea di non poter materialmente esplorare tutto in una sola run (e neanche in due, tre, forse dieci).  

Poi c’è la bella novità della personalizzazione della navicella spaziale: se ne può avere una o un’intera flotta e per ognuna di queste si può modificare ogni singolo pezzo. A questo si aggiunge la possibilità di costruire avamposti negli oltre 1.000 pianeti dislocati nei 100 sistemi solari della mappa. Insomma, una figata pazzesca.

Certo, non è tutto oro quello che luccica: c’è più di qualche elemento che ha fatto storcere la bocca anche ad un outsider come me. La cosa che più mi da fastidio è la gestione dei dialoghi: avviando una conversazione, l’inquadratura passa ad un primo piano dell’npc di riferimento, il quale non si muoverà più di tanto dalla posizione originale. Per farla breve, se avete interagito con un personaggio che era di spalle, è capace che questo vi parlerà senza guardarvi in faccia, che non è il massimo.

Stessa cosa vale per le interazioni dei seguaci, i quali ogni tanto proveranno ad inserirsi nei discorsi avviati dal personaggio con i vari npc, ma il 90% delle volte sono commenti a sé stanti e che non provocano alcuna reazione. Insomma, è come quando l’amico poco simpatico si mette in mezzo e fa una battuta che nessuno capisce e quindi tutti stanno in silenzio facendo finta di nulla. Il gelo.

Male anche la realizzazione degli npc privi di interazioni che popolano il mondo: sembra che sia stato fatto copia e incolla su una decina di modelli e che le varie città siano abitate da un’infinità di fratelli gemelli, oltretutto vestiti uguali. Su questo bisogna chiudere un occhio o si rischia di spegnere il pc o la console.

Pecche inaccettabili da un gioco così tanto atteso, ma se non ci si aspetta nulla non è un problema passarci sopra. Anche la tanto citata “ripetitività” dei pianeti è stata criticata forse ingiustamente: non è vero che gli ambienti sono tutti uguali. Anche le lune, prive di vegetazione e fauna, presentano differenze tra loro (e ho girato già parecchi sistemi). Sulla presenza di insediamenti nemici estranei a quest (ossia i mini dungeons) è vero, vige ancora la ricetta Bethesda che abbiamo tutti quanti sperimentato per anni sia negli Elder Scrolls che nei Fallout: si trova la base nemica dove ci sono pirati spaziali, contrabbandieri o un’invasione di insettoidi alieni, la si ripulisce e si torna a casa con il bottino generato casualmente. E che male c’è, soprattutto vista l’enorme mole di quest che ci si trova a dover affrontare, già alle prime ore di gioco?

In conclusione, Starfield è un titolo da consigliare assolutamente a tutti gli amanti del genere che hanno voglia di esplorare, di immergersi in un viaggio planetario in cui le scelte contano, in cui l’azione frenetica si alterna con meritati momenti di pausa ad esplorare pianeti nascosti o a modificare e migliorare la propria nave, oppure a riposarsi nel proprio rifugio costruito con tanto sudore.

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La storia di Mortal Kombat: ascesa, declino e redenzione

Da pochi giorni è finalmente disponibile Mortal Kombat 1, dodicesimo episodio della celeberrima saga di NetheRealm Studios. Per celebrare l’occasione abbiamo deciso di proporvi un piccolo viaggio nel tempo, alla riscoperta dei primi episodi di questa pluricelebrata serie.

Questi titoli, usciti originariamente in versione arcade e convertiti per praticamente tutti i sistemi dell’epoca, sono stati gli artefici del successo di Mortal Kombat e della nascita della sua leggendaria eredità. Recuperiamo una manciata di gettoni e prepariamoci a riscoprire le origini di uno dei dominatori assoluti del genere dei picchiaduro. Fight!

Mortal Kombat: il primo mitico episodio

Il Mortal Kombat originale vide la luce nel 1992 in versione arcade ad opera di Midway Games. In quel periodo il panorama dei giochi da sala era quasi interamente dominato dal leggendario Street Fighter 2 di Capcom. Anche il solo pensare di competere con quel titolo sembrava pura follia.

Eppure Midway riuscì nell’impresa, dal momento che il suo picchiaduro si rivelò un successo planetario, divenendo uno dei cabinati più giocati in assoluto. Come se non bastasse, nel corso del 1993, arrivò su praticamente ogni sistema di gioco esistente, comprese le console portatili Gameboy e Game Gear.

Gli ingredienti del successo furono molteplici. Anzitutto l’utilizzo della grafica digitalizzata, novità assoluta per quei tempi. Midway infatti assoldò un team di attori le cui movenze vennero trasposte direttamente in forma digitale. I videogiocatori ebbero davvero l’impressione di trovarsi di fronte ad un film di arti marziali interattivo.

La trama del gioco inoltre era davvero avvincente e veniva sviscerata nei dettagli nell’intro di gioco e nei finali dei personaggi. Fulcro della storia era il Mortal Kombat, torneo interdimensionale utilizzato dall’Outworld per impossessarsi degli altri regni. I guerrieri della terra, guidate dal Dio del tuono Raiden, hanno il compito di sconfiggere lo stregone Shang Tsung e i suoi guerrieri per salvare la terra dalla conquista.

I personaggi del gioco erano tutti ben caratterizzati, sia visivamente che per quanto riguarda il loro background. Ad entrare nel cuore dei videogiocatori più di ogni altro furono però i due ninja, Sub-Zero e Scorpion, che divennero ben presto le due figure più iconiche della saga.

Per quanto riguarda il gameplay, Mortal Kombat proponeva un sistema a cinque tasti: due pugni, due calci e una parata. Gli attacchi base dei personaggi tendevano ad essere molto simili ed erano le mosse speciali a differenziare in maniera significativa i vari lottatori. Rispetto a Street Fighrer 2 il gameplay era sicuramente meno profondo, ma dannatamente divertente, intuitivo e dinamico: seppe far breccia nell’animo dei giocatori.

Naturalmente, l’ultimo ingrediente del successo di Mortal Kombat fu la sua incredibile violenza. Durante gli scontri, infatti, ogni colpo andato a segno avrebbe causato copiosi spruzzi di liquido rosso dal corpo del nostro avversario. Come se ciò non bastasse, al termine dello scontro, dopo l’apparizione dell’iconica scritta “Finish Him!”, il giocatore avrebbe avuto la possibilità di eseguire le celeberrime fatality: mosse finali, attivabili tramite combinazione, che causavano l’uccisione dell’avversario, spesso in modi davvero spettacolari e brutali.

Mortal Kombat II: un sequel leggendario

Nonostante l’incredibile successo del primo capitolo, Midway non rimase a dormire sugli allori. Già nel corso dell’anno successivo, il 1993, fece la sua apparizione nelle sale giochi di tutto il mondo Mortal Kombat II.

Ambientato interamente nel regno di Outworld, Mortal Kombat 2 introdusse Shao Kahn, imperatore di Altromondo e nuovo antagonista del gioco. Ancora una volta, i guerrieri della terra erano chiamati a difendere il loro mondo attraverso il Mortal Kombat, con l’ulteriore svantaggio di combattere in territorio nemico.

Mortal Kombat 2 non introdusse nessun elemento particolarmente innovativo a livello di gameplay, ma si limitò a potenziare e migliorare ogni singolo aspetto del gioco originale. La grafica, il sonoro, il numero dei lottatori selezionabili, persino la complessità della trama. Ogni singolo elemento di Mortal Kombat 2 ampliava e perfezionava il suo predecessore.

Unica novità davvero degna di nota era la netta accellerazione del ritmo di gioco, che rendeva MK2 molto più veloce e frenetico del suo predecessore. Il gioco introdusse anche un maggior numero di fatality per personaggio, oltre alle babality (con cui potevamo tramutare l’avversario in un bambino) e le friendship (simpatici scherzi che deridevano l’avversario anzichè ucciderlo).

Tutti questi elementi fecero di Mortal Kombat II un successo planetario, apprezzato dalla quasi totalità dei giocatori e convertito ancora una volta per ogni sistema casalingo esistente. Il gioco è tuttora considerato uno dei picchiaduro più famosi ed influenti di sempre.

Unico neo del gioco era costituito dalla sua terribile difficoltà, dovuta anche ad una CPU programmata in modo davvero perfido. Oltre ad imbrogliare sui frame delle mosse, infatti, il computer era anche in grado di “leggere” in anticipo i comandi inseriti dal giocatore, in modo da anticiparli. L’unica maniera davvero efficace per contrastare la CPU era imparare a sfruttare i suoi pattern preimpostati. Così facendo il giocatore aveva la possibilità di anticipare a sua volta le azioni nemiche. Un esempio pratico era l’utilizzo del salto all’indietro che, da una certa distanza, spingeva sempre il computer a saltare a sua volta, esponendosi agli attacchi.

Mortal Kombat 3: un’eredità pesante

Mortal Kombat 3

Dopo Mortal Kombat 2 passarono due interi anni prima che Midway decidesse di riproporre il suo cavallo di battaglia. Nel frattempo, il mondo dei videogiochi cambiò profondamente. Le console a 16 bit vennero pian piano soppiantate dalle più prestanti 32 bit, come il Sega Saturn e la prima mitica Playstation.

Anche il genere dei picchiaduro, mietitore assoluto dei primi anni 90, stava cambiando rapidamente. Titoli come Virtua Fighter e Tekken avevano letteralmente stregato i videogiocatori, attratti dal fascino dei nuovi giochi in 3D. Nonostante il clima difficile, nell’aprile del 1995 Mortal Kombat 3 invase le sale giochi di tutto il mondo, riuscendo di nuovo ad ottenere un ottimo successo.

Questo terzo episodio presentava toni ed atmosfere ancora più oscure ed opprimenti rispetto ai suoi predecessori. Il malvagio Shao Kahn stavolta decide di aggirare il Mortal Kombat, invadendo direttamente il pianeta terra. Di conseguenza, gli stages di MK3 presentano scenari presi sia da Outworl sia da una terra sull’orlo della catastrofe.

Rispetto ai predecessori, Mortal Kombat 3 pigiava ancora di più sull’accelleratore, con un gameplay ancora più forsennato e veloce. L’aggiunta delle combo e del pulsante della corsa aumentava ulteriormente la frenesia degli scontri e i riflessi dei giocatori dovevano essere più che buoni per ottenere risultati accettabili.

Anche il comparto grafico e il sonoro del gioco migliorarono ulteriormente rispetto al secondo capitolo, sebbene le tecniche di digitalizzazione risultassero ormai superate. Naturalmente fecero il loro ritorno le mitiche fatality, accompagnate dalle babality, dalle friendship e dalle nuovissime animality. Queste ultime vedevano il nostro combattente tramutarsi in una vera e propria belva, che in alcuni casi sbranava interamente l’avversario.

Pur ricevendo una buona accoglienza, Mortal Kombat 3 non riuscì a conquistare interamente il pubblico, soprattutto a causa di un roster piuttosto bislacco che inseriva un enorme numero di new entry, a volte non proprio azzeccate e andava ad escludere lottatori leggendari come Scorpion, Raiden e Kitana.

Per ovviare a questo difetto l’anno successivo Midway pubblicò due nuove versioni del gioco, Ultimate Mortal Kombat 3 e Mortal Kombat Trilogy, che andarono ad espandere in modo molto significativo il roster, lasciando praticamente inalterato il gioco.

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I migliori picchiaduro del 2022

Una transizione difficile

Nel 1997 Midway decise che era giunto il momento anche per Mortal Kombat di passare alla terza dimensione. Ecco dunque arrivare Mortal Kombat 4, primo titolo della saga a proporre una grafica interamente in 3D.

Mortal Kombat 4 introdusse Shinnok, letale divinità anziana nemica di Raiden, evaso dal Netherrealm per invadere la terra. Toccherà di nuovo a Raiden e ai suoi guerrieri sconfiggerlo e porre fine alla sua minaccia. Queste premesse permisero ai programmatori di proporre un cast davvero ben assortito, con quasi tutti i volti storici della saga affiancati da alcune new entry davvero interessanti.

Le novità introdotte da Mortal Kombat 4 erano davvero molte. I personaggi avevano la possibilità di estrarre un’arma tramite particolari sequenze e di sfruttarla temporaneamente. In più, all’interno degli stages erano presenti diversi elementi interattivi, che potevano essere raccolti ed utilizzati come strumenti offensivi. Inoltre, i personaggi avevano la facoltà di muoversi in profondità per effettuare particolari schivate, sebbene gli scontri restassero confinati su un’asse orizzontale.

Nonostante tutte queste innovazioni, Mortal Kombat 4 non riuscì a far breccia nei cuori dei giocatori. Questo insuccesso fu anzitutto dovuto ai controlli, piuttosto legnosi e non sempre rispondenti. Inoltre, pur presentando una grafica interamente poligonale, Mortal Kombat 4 restava saldamente ancorato ai canoni dei giochi di combattimento 2D: questa situazione creò una sorta di ibrido che non seppe accontentare pienamente né i fan dei picchiaduro in 3D né gli amanti dei classici giochi bidimensionali.

Un lungo percorso di redenzione

Dopo Mortal Kombat 4 la saga iniziò un lungo periodo di sperimentazione. I giochi che si susseguirono nel corso degli anni, infatti, pur presentando una qualità più che discreta e diverse interessanti innovazioni, non seppero raggiungere i fasti degli episodi originali.

Questo almeno fino al 2011, data di uscita di Mortal Kombat, nono episodio della saga. Questo titolo, uscito per PS3, Xbox 360 e PC, propose un vero e proprio reboot della saga. Grazie ad una serie di viaggi del tempo, infatti, la timeline di Mortal Kombat venne riscritta, annullando tutti gli eventi successivi a Mortal Kombat 3.

Anche il gameplay venne profondamente rinnovato e migliorato, regalando un picchiaduro divertente, profondo e godibile. Il successo del nuovo Mortal Kombat permise alla saga di vivere una vera e propria seconda giovinezza, grazie ad una nuova serie di giochi dalla qualità davvero eccelsa.

Infine, il punto più alto della saga è stato raggiunto dal meraviglioso Mortal Kombat 11, uno dei migliori picchiaduro di sempre. Vedremo se Mortal Kombat 1 saprà essere all’altezza di questi grandi picchiaduro.

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Sullo stato dell’arte dell’industria videoludica: Limbo e To The Moon

Nel panorama dei videogiochi indie esistono prodotti che hanno la potenzialità di veicolare dei concetti piuttosto importanti ai loro fruitori, soprattutto a quelli più predisposti a coglierne il significato. Tra i tanti, due importanti esempi di questo trend sono  “Limbo”, sviluppato da Playdead (2010), e “To the Moon”, di Freebird Games (2011). Entrambi sono giochi indie in single-player di breve durata, ed entrambi hanno avuto un ruolo importante nel mercato indipendente con attestati di stima e amore da parte di addetti al lavoro ed appassionati di gaming, diventando parte importante del medium videoludico stesso.

Fra tutti ho scelto Limbo e To the Moon perché mi sono sono rimasti nel cuore, giungendo dentro di me in maniera differente e restando memorabili anche dopo tutti questi anni a dimostrazione che con pochi mezzi è possibile brillare di luce propria, rimanendo impressi nella memoria del videogiocatore.

Limbo è un puzzle-platform in 2D privo di dialoghi con altri NPC, senza una narrazione testuale o vocale, né il classico tutorial didascalico, ed è privo di HUD; lo stile di gioco è un “prova e muori”, con il frequente susseguirsi di enigmi e trappole di ogni tipo. Tecnicamente parlando, Limbo, gira su un motore grafico proprietario, leggero e adatto al contesto; un perenne bianco e nero, con giochi di luci e ombre molto suggestivi, in grado di donare all’intera esperienza un’atmosfera surreale.

Il protagonista è un ragazzino finito in un mondo oscuro; all’inizio lo vediamo steso sul terreno e tocca a noi svegliarlo, interagendo con i tasti. Questo gioco non è rivoluzionario, ma elegante e ricercato esteticamente, intelligente ed accattivante nelle sue meccaniche, con una narrazione visiva che ci guida in un quasi totale silenzio. Alcuni nemici si possono eliminare interagendo con l’ambiente circostante, mentre altri andranno schivati per poter andare avanti e scontrarsi con i vari enigmi da risolvere.

Limbo
Limbo

To the Moon, è realizzato con RPG maker, difatti a vederlo ha l’aspetto di un classico gioco di ruolo anni ’90, privo però di alcuni elementi rpg più caratteristici, come il livello di progressione dei personaggi. Qui troviamo una grafica colorata, una narrazione che avviene tramite i tanti testi su schermo, fatti di dialoghi e descrizioni varie, con musiche che sanno toccare il cuore; il gameplay è ridotto all’osso, quasi ai livelli di una visual novel, se non per qualche minigioco e puzzle, che di tanto in tanto veicola la profonda e toccante trama.

Questo titolo vive di una trama toccante e piena di sentimenti. Il gioco ci mette nei panni di 2 dottori, Eva Rosalene e Neil Watts, dipendenti della “Sigmund Agency of Life Generation”. Quest’azienda, tramite l’impianto di ricordi artificiali, aiuta i pazienti in fin di vita ad avere una morte più serena, eliminando i loro rimpianti, ed esaudendo (in un certo senso), i desideri più importanti, quelli magari durati una vita

To The Moon
To The Moon

Less is more

I giochi indie sono sviluppati solitamente da piccoli studi indipendenti, che (spesso) non hanno l’aiuto economico di un editore, ma questo può voler dire anche avere meno vincoli e sentirsi più liberi di esprimere maggiormente la propria autorialità. Ciò che mi viene da pensare è che non è detto ci sia sempre l’intenzione conscia di veicolare un certo tipo di messaggio, ma ciò non vuol dire che esso stesso non si crei ugualmente durante lo sviluppo e che quindi poi giunga comunque al giocatore.

Parlando di cinema, un’opinione che mi è capitato di sentire sui film di Christopher Nolan, è che quando lui ha realizzato film con meno budget a disposizione, senza l’utilizzo di troppi effetti speciali e dovendo quindi mettere mano di più al cuore della pellicola stessa, è riuscito a realizzare opere che, secondo una parte della critica, son state complessivamente migliori di altre sue, magari più titolate e di maggior successo ai botteghini.

Il mio parallelismo richiama, tornando in ambito videoludico, la differenza tra alcune produzioni di grosse software house tripla A e quelle degli sviluppatori di giochi indie (entrambe le categorie hanno sia ottimi prodotti che mediocri, non dimenticandoci che poi esistono anche produzioni che si trovano nel mezzo), che non avendo tutta questa disponibilità di mezzi, sono anche più costretti a lavorare di più all’anima del videogioco stesso.

In queste condizioni possono riuscire a superare questi limiti, per far sì che essi diventino orizzonti da raggiungere e superare. Può capitare così, che possa venir fuori un’esperienza più immersiva, dando più spazio a trama e caratterizzazione, fornendo quel tocco artistico che passa anche da un’estetica più o meno ricercata. A livello di storie, concetti, è sempre più difficile tirar fuori qualcosa di nuovo ed originale, ma la differenza sta nel modo in cui le idee, anche le più usate, vengono rielaborate.

Conclusione

I due giochi protagonisti di questo articolo, insieme ad altri di cui magari vi parlerò in futuro, sono piccoli grandi gioielli, opere d’arte in miniatura, che fanno bene ad un’industria videoludica che ha, in generale, un po’ paura di sperimentare e di proporre qualcosa di diverso e nuovo, che abbia più anima, originalità e meno ripetitività.

Ritengo comunque che l’industria videoludica stia vivendo un periodo storico abbastanza positivo. I ragazzi di oggi sono in grado di apprezzare anche titoli retrò o comunque giochi nuovi realizzati appositamente così (anche remastered e remake possono aiutare, in certi casi), capendo così che non sempre serve la grafica pompata per divertirsi, ma che intrattenimento, sfida ed emozioni, possono essere ovunque.

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Starfield e Mass Effect: confronto tra videogiochi di ruolo spaziali

È arrivato il momento: dal 6 settembre finalmente ci siamo avventurati nel nuovo universo Bethesda, quello di Starfield che tanto aspettavamo. Man mano andando avanti nel gioco, scopriremo se l’hype altissimo che si è creato attorno al gioco avrà avuto senso. In questo articolo, però vogliamo rispondere a un’altra domanda: Starfield è il gioco di ruolo ambientato nello spazio definitivo? Per farlo, abbiamo messo a confronto Starfield con una trilogia epica simile per ambientazione: Mass Effect.

Caratteristiche di Starfield

Dopo le prime ore di gioco su Starfield, le differenze tra l’opera di Bethesda e Mass Effect sono state sin da subito evidenti, sia a livello di gameplay che di narrazione. Starfield, ovviamente, si basa su un motore grafico avanzato ma anche su una fisica accurata che rendono l’ambiente spaziale credibile ma soprattutto dinamico.

Il giocatore può viaggiare ed atterrare su circa un migliaio di pianeti (queste le cifre comunicate più o meno ufficialmente), esplorarli liberamente a piedi o con veicoli ed interagire con la flora e fauna locale, a volte ostile, a volte no, tramite lo scanner oltre che con gli abitanti in loco.

Per poter viaggiare nello spazio è necessario che l’utente modifichi a proprio vantaggio le caratteristiche della nave per dare più energia agli scudi piuttosto che al salto gravitazionale in caso di scontro e viceversa ad esempio. Una volta attraccato poi, in un porto interspaziale, sarà possibile acquistare modifiche per la propria nave potenziandola o comprarne una completamente nuova.

La storia non ha una trama lineare ma lascia al giocatore la possibilità di creare il proprio personaggio e la propria storia secondo le sue inclinazioni morali ed etiche.

Allo stato attuale ad esempio, mi trovo ad essere un pilota dell’Avanguardia della UC, Unione Coloniale, pronto a difendere i perimetri delle città protette dalla UC con la mia nave che purtroppo ancora è una “Suzuka baracca” di Aldo, Giovanni e giacomiana memoria. Non è ancora all’altezza di poter affrontare scontri a fuoco complessi. Ma tranquillamente sarei potuto essere un pirata spaziale che invece la UC la combatte per intenderci. Il tutto fermo restando la trama principale che, al momento, resta difficile seguire viste le numerose missioni secondarie che pullulano l’universo di Starfield.

Caratteristiche di Mass Effect

Le opere di BioWare (Recensione Mass Effect Legendary Edition) compongono una celebre saga spaziale iniziata nel 2007 e conclusasi nel 2017 con Mass Effect Andromeda. La storia ha come protagonista il comandante Shepard, a capo di un cast di personaggi memorabili e con una trama avvincente e ramificata.

La serie di Mass Effect si può collocare tra i “GDR anomali”. Sin partendo dal primo capitolo, Bioware ha si mantenuto le caratteristiche narrative tipiche di un GDR ma nel contempo ha reso gli scontri a fuoco più simili ad un Gear of War per intenderci. Anche la visuale è la stessa, parliamo della terza persona. Inoltre il nostro protagonista potrà, come in ogni classico GDR che si rispetti, scegliere la propria squadra prima di ogni missione.

Con il secondo capitolo, nonostante Bioware avesse da poco rilasciato Dragon Age: Origin, uno tra i GDR più classicamente intesi, continua nell’opera di rinnovamento del genere con un gameplay più orientato al combattimento ed al dialogo.

Nel terzo capitolo, Mass Effect 3, il gioco è ancora più spiccatamente una commistione di generi, dallo sparatutto in terza persona, al gioco di ruolo di tipo occidentale passando per l’avventura grafica con enigmi da risolvere. e questa caratteristica lascia intuire l’enorme lavoro svolto dagli sviluppatori teso a rendere la saga un’epopea, di carattere epico.

Infine: Mass Effect Andromeda, spin off del 2017 della serie, ambientata 600 anni dopo gli eventi narrati nella trilogia, Bioware si lascia scappare di mano durante la ricerca di riconquistare il proprio pubblico che aveva storto il naso per i finali un pò arrangiati del secondo e del terzo capitolo; infatti, gli sviluppatori si lasciano andare ad una massificazione del genere rendendolo più che altro uno sparatutto, oltre al fatto, ben più grave, che in Andromeda non sono presenti la maggior parte delle risposte alle conseguenze delle azioni del comandante Shepard compiute nella trilogia.

Personalmente, dell’intera saga mi è piaciuta particolarmente la forte componente emotiva e relazionale che permette di interagire coi propri compagni di squadra oltre che instaurare rapporti di amicizia ed amore, prendendo, spesso, delle decisioni morali difficili.

Prendiamo ad esempio la Missione suicida del secondo capitolo, dove le scelte del giocatore influenzano addirittura con quali personaggio continuare l’avventura e quali sacrificare; insomma un gioco di ruolo coi fiocchi nella maggior parte dei casi che però rimane troppo legato alla trama principale secondo me, nonostante alcune scelte modifichino pesantemente e permanentemente la narrazione, come già accennato.

Punti di contatto

Le analogie tra i due titoli sono perlopiù legate al genere e al tema. Sia Starfield che Mass Effect sono dei GDR spaziali che offrono al giocatore la possibilità di vivere fantastiche avventure in ricchi e variegati mondi sconosciuti, incontrando personaggi incredibili e tenendo incollati a schermo i videogiocatori per ore.

In comune poi hanno una forte componente sci-fi che si riflette nell’aspetto tecnologico e nelle varie razze aliene incontrate.

Sia il titolo Bethesda che quello Bioware hanno una forte componente artistica che si esprime nella colonna sonora e nel design dei personaggi e delle ambientazioni. Pensate che per l’uscita di Starfield, Bethesda ha addirittura collaborato con la band statunitense Imagine Dragons che ha composto una canzone dedicata al gioco.

Infine, entrambi concentrano le proprie forse sulla sfida, sulla scoperta e sul combattimento.

Conclusioni

Starfield non è Mass Effect e viceversa. I puristi dei GDR probabilmente si troveranno più a proprio agio con Starfield dovendo scegliere una moltitudine di aspetti durante il gioco, persino il tipo di lavoro del personaggio ma soprattutto in che modo vivere la propria vita e in che modo essere percepiti dagli altri. Fondamentalmente quello che mi è piaciuto del gioco, almeno per quanto ho giocato finora, è proprio questa libertà data al giocatore di scegliere chi essere, che comportamenti adottare, creare la propria storia in definitiva.

In Mass Effect, il personaggio è già un eroe, riconosciuto da molti come tale, che per quanto possa effettuare determinate scelte morali o immorali, impopolari o no, la trama segue comunque una direzione lineare modificandosi in base alle scelte del giocatore ma non creandola da zero. Benchè, come accennato nel corso dell’articolo, la storia dell’intera saga, sia una delle più belle del panorama videoludico mai scritte.

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Bethesda: i migliori videogiochi di Todd Howard

Così come i libri, i film, le serie TV e tutte le altre forme d’arte, anche il mondo dei videogiochi è fatto da artisti: professionisti che con il proprio ingegno creano opere che saranno ricordate nella storia. Uno di questi, classe 1970, è Todd Andrew Howard, attualmente executive producer di Bethesda Game Studios.

Howard da quasi trent’anni crea videogiochi che hanno formato generazioni di gamer e cambiato il concetto stesso di videogame. Fino ad oggi, la sua carriera è stata monolotica: ha mosso i primi passi nel 1994 proprio presso Bethesda Softworks scalando tutta la catena di comando fino a diventare, nel 2001, il capo dello studio interno della compagnia.

Ritengo che valga la pena raccontare la sua vita lavorativa e penso che raccontare le sue opere migliori sia il modo migliore per farlo.

The Terminator: Future Shock

Videogiochi di Todd Howard: The Terminatore Future Shock

Howard inizia la sua avventura in Bethesda Softworks come videogame producer – figura che si occupa di visionare il lavoro svolto da tutti gli sviluppatori – con The Terminator: Future Shock, first-person shooter uscito nel 1995 su PC.

Future Shock è ricordato come uno dei primi veri giochi con un mondo realmente a tre dimensioni e nemici poligonali. Nello specifico, la prima opera di Howard accompagnava a un’ottima grafica anche un comparto sonoro incalzante e un mondo di gioco di elevata qualità, ma òa più grande rivoluzione fu nel gameplay: The Terminator Future Shock è uno primissimi FPS in cui ci si spostava con la tastiera e ci si guardava intorno con il mouse.

Le migliori riviste del settore lo hanno recensito con voti decisamente alti (Gamespot: 84; PC Gamer UK: 92%).

The Elder Scrolls II: Daggerfall

Videogiochi di Todd Howard: Daggerfall

Nell’eterna lotta per il titolo di miglior Elder Scroll tra Morrowind e Skyrim, c’è ancora qualche veterano che aggiunge questo outsider, che per Todd Howard sarà l’ultima esperienza come producer.

Daggerfall ebbe un enorme successo sin dal 1996, anno di rilascio, sia in termini di vendite che di critica. Oggi è facile pensare la serie di Elder Scrolls come la massima espressione di libertà in un gioco di ruolo, ma fu proprio il secondo capitolo della serie che permise di ottenere questa etichetta grazie alla possibilità di viaggiare tra due province composte da 15.000 tra città, villagi e dungeon (libertà mai superata).

The Elder Scrolls II: Daggerfall vendette per anni: dalla sua uscita fino al 2000, Bethesda ha dichiarato che Daggerfall abbia venduto oltre 700.000 copie.

The Elder Scrolls IV: Oblivion

Videogiochi di Todd Howard: Oblivion

Tra Morrowind e Skyrim vi è una gemma del 2006 che è stata (parzialmente) dimenticata nonostante abbia una delle caratteristiche più rare in assoluto: un’intelligenza arficiale fantastica.

Oblivion ebbe voti altissimi da parte della critica, ma paga lo scotto di essere stato poco memorabile. La community videoludica ha sempre dato più peso alle troppe similarità con Morrowind e troppa poca importanza a Radiant AI, l’intelligenza artificiale usata successivamente anche su Skyrim e Fallout 3.

Personalmente ritengo Oblivion un’opera fondamentale: avvincente, ricco e pieno di libertà, ma anche punto di partenza per opere ancora più ambiziose come Fallout 3 e Skyrim.

The Elder Scrolls III: Morrowind

Nel 2002, Todd Howard diventa project leader del nuovo capitolo di Elder Scrolls, uno dei più amati di sempre soprattutto se si pensa che per molti aspetti vi fu un passo indietro rispetto al suo predecessore.

Morrowind è sempre stato definito come un gioco imperfetto: Daggerfall ha maggiori aree da visitare; il sistema di combattimento è peggiore di altri videogame dell’epoca (per esempio: Star Wars Jedi Knight II: Jedi Outcast). Nonostante questo però nessun videogioco dell’epoca è stato in grado di fornire un’atmosfera così intensa, unita a una libertà così elevata da rendere quasi superflua la quest principale.

In Morrowind puoi fare qualunque cosa e quindi anche vivere in un mondo fantastico senza fare assolutamente nulla, nemmeno portare avanti la trama principale se lo desideri.

Fallout 3

Nel 2008, dieci anni dopo il secondo capitolo e quattro anni dopo che Bethesda ottenesse i diritti della serie, Fallout 3 vede la luce e Todd Howard diventa per la prima volta game director di un’opera videoludica.

Il terzo capitolo di Fallout è totalmente diverso dai suoi predecessori, ma ha saputo evolvere la saga verso la giusta direzione trasformando un gioco di ruolo isometrico in un open world in cui funziona bene sia la parte FPS che quella da Action RPG.

The Elder Scrolls V: Skyrim

Uno dei motivi per cui Starfield è così atteso prende il nome di Skyrim. Del resto, ci sono videogiochi che definiscono un anno e videogame che definisco decadi. The Elder Scrolls V: Skyrim ha rivoluzionato il concetto di open world e di senso di libertà all’interno di un gioco di ruolo.

Personalmente trovo i bug molto snervanti perché rovinano il senso di immersione, ma ho comunque passato centinaia di ore su quella che ritengo l’opera magna di Todd Howard e Bethesda Game Studios. Ci sarebbe molto altro da dire? Sì, ma stiamo parlando di un’opera così importante che non saprei da dove iniziare.

E Starfield?

Videogiochi di Todd Howard: Starfield

Non ho ricevuto una copia anticipata del gioco per poter collocare Starfield all’interno di questa classifica, ma sono molto fiducioso che questo articolo possa essere presto aggiornato anche con l’open world sci-fi di Bethesda. Fino ad ora, Starfield ha avuto il pregio di far dimenticare quel trailer del 2018 di The Elder Scrolls VI, ma sono certo che le sue ambizioni siano di gran lunga maggiori.

L’ambientazione spaziale è sempre stata ben rappresentata nei videogiochi, soprattutto dal genere horror (Alien Isolation, Dead Space, Soma, Scorn tra i più recenti) ma anche tra i cult (Star Wars ha tantissimi giochi validi). Qualcuno si è spinto anche nel campo dei giochi di ruolo (The Outer World) ma nessuno ha mai avuto l’ambizione di creare qualcosa di veramente enorme come l’universo: Starfield potrebbe essere tutto questo e mi auguro che possa anche essere la consacrazione definitiva di Todd Howard come geniale autore di videogiochi.

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Editoriali

Dieci videogiochi di ruolo da recuperare assolutamente

Baldur’s Gate 3 ha risvegliato in molti, e fatto scoprire a tanti altri, la voglia di giocare ai videogiochi di ruolo. Ormai è stato detto e ridetto: il titolo ha sconvolto tutti, grazie da un gioco completo già al day one, senza dlc (se ce ne saranno, in futuro, sarà per espandere il gioco) e soprattutto dimostrando che un gioco senza microtransazioni funziona bene e invoglia all’acquisto.

Insomma, una vera e propria lezione di stile, impartita con una forza tale che, probabilmente, ora le grandi case saranno costrette a rivedere qualcosa sulle modalità di lancio dei propri titoli. Ma c’è chi questo lo faceva già prima di Baldur’s Gate, senza però aver ottenuto la stessa risonanza che ha avuto l’ultimo titolo di Larian Studios.

L’esplosione di BG3 ha aperto sicuramente una nuova stagione per gli rpg a turni, con movimento tattico, esplorazione, personalizzazione dei personaggi e possibilità di “piegare” la storia a proprio piacimento, grazie alle decisioni del giocatore e alle abilità dei personaggi con cui si decide di comporre il proprio gruppo. Per questo abbiamo deciso di rispolverarne qualcuno, neanche troppo datato, che finora hanno portato alta la bandiera del genere.

10 – Solasta: Crown of the Magister

Videogiochi di ruolo: Solasta

Solasta: Crown of the Magister è stato un buon tentativo di trasposizione delle regole della 5 SRD (System Reference Document), ossia delle linee guida per la pubblicazione di contenuti sotto la OGL. Il videogioco di ruolo, prodotto da Tactical Adventures, si propone come una trasposizione del classico rpg da tavolo di quinta edizione, in un mondo originale.

Tira iniziativa, fai attacchi di opportunità e stabilisci la posizione dei personaggi, ma non solo: devi anche compiere scelte e decidere il tuo destino.

La peculiarità del gioco è la pubblicazione periodica di Dlc che offrono vere e proprie campagne tutte nuove, tra loro indipendenti, offrendo ai giocatori avventure sempre rinnovate.

Resta però il problema di un party pregenerato, con personaggi troppo silenziosi e con zero interazioni.

9 – Enchased: A Sci-Fi Post Apocalyptic RPG

Cambia l’ambientazione e cambiano tutte le regole (rispetto a BG3) ma restano la componente isometrica, il combattimento a turni e le scelte che determinano la storia.

Si tratta di Encased: A Sci-Fi Post-Apocalyptic RPG, gdr tattico e fantascientifico che è ambientato in un mondo distopico, dove si combattono nemici, si esplorano grandi aree “aliene”, si livella il proprio personaggio e si sceglie a quale fazione di sopravvissuti strizzare l’occhio e a quale tagliare le gambe.

Tra pistole laser e le immancabili armi da mischia, anche il carisma fa la sua sporca figura: a volte la lingua ferisce più dell’acciaio.

Fabbricare oggetti, combattere e negoziare sono le parole d’ordine di questo gioco che ha tanto da offrire.

8 – Tyranny

Videogiochi di ruolo: Tyranny

Il titolo di Paradox e Obsidian, pubblicato nel 2016, catapulta il giocatore in un mondo in cui la grande guerra tra il bene e il male è appena finita. E ad aver vinto è stato il male.

Il nostro personaggio si troverà di fronte ad un mondo che reagisce attivamente alle sue decisioni, viaggiando per un regno dove potrà ispirare lealtà o terrore.

Insomma, la piega che la storia può prendere è tutta in mano al giocatore, con un sistema di combattimento tattico, ma in tempo reale con pause.

La vera innovazione è che qui, più che in ogni altro gioco di ruolo, non solo le scelte contano, ma è proprio su questo aspetto che si focalizza il titolo, che grazie a questa meccanica presenta un’alta rigiocabilità.

7 – Disco Elysium

Videogiochi di ruolo: Disco Elysium

Qui parliamo di un piccolo gioiello, tanto caotico quanto affascinante. Figlio d’arte di titoli come Planescape: Torment, a cui è fortemente ispirato, si presenta come un gioco di ruolo non tradizionale: i combattimenti sono praticamente assenti.

Il videogiocatore si troverà a interagire con il mondo moderno e distopico attraverso un detective che ha perso la memoria, in un mondo moderno e distopico, affrontando la maggior parte dei casi tramite i dialoghi e test di abilità, muovendosi in un quartiere di una città che si sta ancora riprendendo dalla guerra.

Non mancano elementi che strizzano l’occhio all’horror e la modalità open world lascia grande spazio di manovra ai giocatori.

6 – Wasteland (2 e 3)

Dura la vita dei Desert Ranger: tra banditi, mostri, macchine impazzite e quant’altro, girare tra l’Arizona e il Colorado è un inferno. Fortunatamente, ormai non ci sono più regole: anzi, le regole le fate voi.

Succede questo in Wasteland 2 e 3, rpg isometrici con combattimenti a turni e dove “choice matters”, in cui coordinerete una squadra di Desert Ranger (tra personaggi da voi generati e png che potrete scegliere di portare con voi) in un mondo post apocalittico, dove potrete essere i buoni, i cattivi, i menefreghisti… quello che volete.

Il gioco permette anche una modalità multiplayer e, come segno distintivo del terzo capitolo, inserisce la possibilità di personalizzare il veicolo utilizzabile per viaggiare, immagazzinare scorte e anche per combattere.

5 – Pillars of Eternity (I e II)

Videogiochi di ruolo: Pillars of Eternity

Pillars of Eternity è stata una sfida: è un gioco tutto nuovo, che a parte i pilastri del gdr isometrico a turni, presenta una serie di novità anche complesse da digerire.

Un esempio è il sistema di regole, non esattamente intuitivo, che potrebbe allontanare più di qualche giocatore non così devoto alla causa dei giochi di ruolo da mettersi a “studiare”.

Eppure, entrambi i titoli portano sullo schermo due storie, tra loro collegate, tra le più avvincenti ed originali di sempre. Tanto basterebbe per divorarli tutti e due, ma bisogna ammettere che, una volta capito, il sistema di regole funziona e permette anche di sbizzarrirsi in build divertenti.

Inizialmente il gioco non era pensato per essere un turn based combat: la modalità è stata inserita in un secondo momento (almeno per il primo capitolo), e ciò permette anche di giocare i combattimenti di entrambi i titoli in real time.

Inoltre, per non farci mancare nulla, se nel primo titolo sarete chiamati a ricostruire una fortezza perduta e piena di mistero, nel secondo potrete solcare i mari a bordo del vostro vascello (personalizzabile e gestibile nei dettagli, anche assumendo i membri dell’equipaggio).

4 – Pathfinder Kingmaker e Wrath of the Righteous

Nato come un’alternativa a Dungeons & Dragons 3.5 (e poi proseguito per conto suo), Pathfinder si è imposto nel mondo del gdr cartaceo come grande competitor del titolo di Wizard of the Coast, puntando molto anche sul comparto videoludico.

I titoli Kingmaker e Wrath of the Righteous, arrivarono in un momento (2018 e 2021) in cui c’era forte carenza della trasposizione dei manuali sullo schermo di pc e console. Anche qui, la ricetta è quella già citata: personalizzazione del proprio personaggio e del party, i combattimenti sono a turni, la visuale è isometrica, le scelte determinano il destino dei personaggi (e del mondo) e così via.

Cos’hanno di diverso dagli altri rpg? Entrambi i giochi presentano delle aggiunte singolari e difficilmente individuabili in altri giochi del genere: mentre esplorate dungeon o città e vi perderete in una chiacchiera con png interessanti, in Kingmaker sarete chiamati a gestire un regno e le città che costruirete entro i suoi confini, mentre in Wotr sarete a capo di una crociata (sì, di un vero e proprio esercito) contro i demoni pronti a devastare il mondo. Anche qui, è possibile scegliere se combattere in real time o a turni.

3 – Baldur’s Gate (1 e 2)

Con questi titoli ci siamo allontanati molto dall’incipit: i primi due capitoli di Baldur’s Gate non hanno nulla a che vedere con l’ultimo capolavoro di Larian Studios, se non l’ambientazione. A separare i titoli di Black Isle dal terzo capitolo della saga ci sono ben 23 anni, tre edizioni di Dungeons & Dragons (in questo caso parliamo della 2°), manca completamente la modalità a turni.

Nonostante ciò, questi sono due gioielli, tra i primi videogiochi ad aver portato su pc la possibilità di plasmare la storia a proprio piacimento, grazie ad una vasta possibilità di scelte a disposizione del giocatore. I personaggi che accompagnano il protagonista sono molti, bisognerà decidere chi portarsi, mentre chi viene lasciato dietro non starà comodamente ad attendere in un accampamento accessibile tramite un pulsante nell’interfaccia.

Inoltre, ognuno dei companions ha propri obiettivi e desideri che, se non assecondati, li porterà addirittura a lasciare il party. La storia è da 10 e lode (BG2 è un proseguo del primo capitolo in questo caso) ed entrambi sono giochi che devono essere recuperati da chi non li ha mai giocati.

E nel caso vi trovaste bene con BG I e II, è il caso di provare anche i “fratellini” Icewind Dale I e II: un gioco pressoché identico, ma questa volta ambientato nelle Terre del Vento Gelido (sempre nel Faerun, enorme continente del mondo di Dungeons & Dragons), a migliaia di chilometri di distanza dall’Amn e la sua capitale, Baldur’s Gate.

2 – Planescape Torment

Videogiochi di ruolo: Planetscape Torment

Questo titolo poteva essere inserito nel paragrafo dedicato a BG I e II (e Icewind Dale I e II), in quanto prodotto negli stessi anni (1999) sempre dalla Black Isle Studios, seguendo le stesse regole della seconda edizione di Dungeons & Dragons e presentandosi graficamente come un’estensione dei giochi sopra citati.

Ma Planescape Torment è un gioco a sé, un piccolo capolavoro che emerge da tutti gli altri titoli. A fare da padrona in questo mondo è la storia, dove i combattimenti ci sono, ma possono essere evitati e soprattutto non sono prominenti.

Il personaggio non viene creato soltanto ad inizio gioco, ma anche durante il gioco stesso: prendendo il controllo di The Nameless One, un essere immortale che dimentica qualsiasi cosa se ucciso (per poi tornare in vita, ovviamente), camminerete tra le strade della città di Sigil e negli altri piani dell’esistenza, cercando di ricostruire la memoria del protagonista.

Il nostro protagonista incontrerà diversi personaggi molto particolari (teschi che volano e parlano, succubi e tante altre stranezze), che potranno accompagnarlo nel suo viaggio. Molti di questi lo hanno già incontrato in passato, alcuni sono stati influenzati dalle sue azioni in qualche modo, ma lui non se lo ricorda.

1 – Divinity Original Sin (1 e 2)

Non potevano che stare sul podio questi due capolavori che probabilmente hanno permesso alla Larian Studios di diventare la “prescelta” per la realizzazione di BG3. I giochi differiscono sicuramente per meccaniche, con il secondo capitolo in cui è stata migliorata e potenziata la già validissima giocabilità del primo, che ancora oggi merita di essere giocato e rigiocato più volte.

I due capitoli non sono uno il continuo dell’altro, ma ci sono temi che ritornano e che fanno capire al giocatore di essere immerso in un mondo complesso, ma affascinante. In entrambi i giochi le proprie scelte fanno la differenza e il mondo circostante cambierà in base ad esse, ma è nel secondo capitolo che si fa più imponente la presenza dei personaggi pregenerati (che, come in BG3, possono anche essere selezionati alla creazione del personaggio come protagonista).

Rispetto al mastodontico Baldur’s Gate 3 manca la meccanica del salto, che ormai ha assuefatto tutti, ma c’è una cosa che i Divinity hanno in più rispetto all’ultimo titolo Larian: non esistono classi (guerriero, stregone, warlock etc.), bensì ogni personaggio può essere modellato a proprio piacimento, andando ad investire punti in diverse scuole di magia o arti da guerra al level up. Volete un paladino che, oltre a spada e scudo, scaglia lance di ghiaccio? Un arciere necromante? Un ladro evocatore? Sì, potete farlo.

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Editoriali

Dubbi e speranze dopo il Summer Game Fest 2023

Si è conclusa da poco la settimana più calda per il gaming internazionale. Dopo la dipartita dell’E3, il Summer Game Fest – coadiuvato dalle kermesse di svariati publisher – è ormai il massimo evento estivo in cui scopriamo i videogiochi che giocheremo nell’immediato futuro, o quasi. In questo articolo ho raccolto le impressioni, certezze, speranze e dubbi sugli eventi di maggior spessore: il Summer Game Fest, l’Xbox Games Showcase, l’Ubisoft Forward e il Capcom Showcase 2023.

Speranze e certezze

Le conferenze di queste ultime settimane non hanno mostrato tantissimi videgiochi superlativi, ma quando lo hanno fatto sono rimasto positivamente colpito.

Il videogioco su cui ho maggior certezze, nonostante siamo appena agli inizi, è Final Fantasy VII Rebirth. Il secondo capitolo della trilogia è ancora lontano – la data d’uscita è un generico 2024 – ma la sua presenza è pesante: Rebirth è l’unico gioco che già vedo con almeno una sfilza di nove nel suo background. Qualsiasi altro risultato sarebbe insoddisfacente. Il trailer del Summer Game Fest con Cloud, Tifa, Aerith ma soprattutto Sephiroth ha mostrato la volontà di Square Enix di continuare quanto ben fatto con il primo capitolo della triologia: Rebirth ha la mia completa fiducia.

Il secondo posto del meglio che ho visto va a Starfield. Ovviamente l’evento dedicato al gioco è di gran lunga migliore dei tre minuti di Final Fantasy, ma qualche dubbio ancora mi attanaglia: l’opera magna di Todd Howard è così bella da non sembrare reale. I diversi video di Starfield mi hanno detto che in questo videogioco si può fare letteralmente tutto: esplorare, combattere in prima e terza persona, costruire basi, avere dialoghi significativi e una personalizzazione unica del proprio personaggio. Sì, sembra il gioco definitivo non solo per gli appassionati di Xbox ma per qualsiasi videogiocatore. L’esperienza mi ha insegnato che fare qualcosa di così enorme, che non si limita a un open world ma bensì a intero universo, è veramente difficile; non sono ancora sicuro che sia veramente possibile. Ho bisogno di toccarlo con mano e per fortuna non mancata tanto: il 6 settembre potrò farlo.

Final Fantasy VII Rebirth alla Summer Game Fest

Tra le solide certezze invece inserisco tre titoli che mi convincono sempre di più, trailer dopo trailer. Oggi voglio avere vita facile: al terzo gradino del podio metto Baldur’s Gate 3. Ormai in accesso anticipato da un bel po’ e in arrivo il 31 agosto, il gioco di ruolo di Larian Studios non è una novità, ma un videogioco che sicuramente giocherò. Scelta banale? Sì, ma sono sicuro che sarà vincente. Discorso simile, ma con meno certezze invece per Marvel’s Spider-Man 2 e Mortal Kombat 1. L’uomo ragno di Insomniac Games arriverà il 20 ottobre 2023 e credo che sarà un bel gioco. Durante il Summer Game Fest 2023 ho visto un gameplay solido e una resa grafica soddisfacente. Purtroppo ho qualche dubbio sull’innovazione che possa portare al genere, ma sarà un’opera da seguire e successivamente giocare. Sono del medesimo avviso per Mortal Kombat 1: la scelta di creare un universo parallelo non mi affascina e non mi aspetto grandi cambiamenti dal reboot: però è sempre MK e il trailer ha mostrato tutto quello che i fan vogliono: violenza, sangue e un macabro humor.

Anche se l’usato sicuro dei titoli appena citati ha avuto la meglio su di me, pongo comunque grandi speranze su Senua’s Saga: Hellblade 2. Sono uno dei pochi che non ha mai veramente amato il primo capitolo. L’ho giocato, l’ho trovato originale ma ho avvertito il senso di confusione della protagonista come un eccessivo ostacolo al gameplay. Discorso diverso per Hellblade 2; guardando il trailer ho provato un profondo senso di angoscia: non so se avrò voglia di provare queste sensazioni, ma ho percepito enormi passi in avanti nel suscitare emozioni, che alla fine è tutto quello che conta in un videogioco.

In fondo alla mia personale lista delle speranze, e in questo caso mi sento di dire “certezze”, posiziono Dragon’s Dogma 2: sono convinto che il nuovo capitolo del gioco di ruolo di Capcom ci sorprenderà. Un mappa più grande e un’intelligenza artificiale definita di “ultima generazione”. I fan avranno delle aspettative altre, ma al di fuori della propria nicchia non c’è tanta pressione: un enorme vantaggio perché questi ragionamenti hanno fatto passare in secondo piano un trailer convincente ma soprattutto ricco di parole importanti. L’intelligenza artificiale è fondamentale per i videogame. Ci potremmo svegliare al day one e scoprire che Dragon’s Dogma 2 ha rivoluzionato un pezzo di storia videoludica: sinceramente lo ritengo possibile.

Dubbi estivi

Può un open world su Guerre Stellari generare dubbi? In teoria no; in pratica voglio veramente andarci con i piedi di piombo con Star Wars Outlaws. Così come Starfield, l’open world di Ubisoft sembra essere il gioco definitivo. Nel video di presentazione all’Ubisoft Forward c’è tutto: esplorazione di pianeti, gunplay ricercato, viaggi nello spazio e combattimenti nello spazio. Se mi dovessi basare solamente sui video gameplay, Star Wars Outlaws finirebbe sul podio. Purtroppo però Ubisoft annacqua ormai da anni i suoi giochi con mondi aperti privi di carisma: temo che anche Outlaws venga sacrificato sull’altare dell’accessibilità a tutti i costi. Spero di sbagliarmi, ma oggi non mi voglio impegnare.

Un discorso simile mi sento di fare per Prince of Persia: The Lost Crown. In questo caso però ho voglia di credere nella rinascita del franchise. I miei dubbi nascono soprattutto dallo stile artistico scelto: a me piace, tanto, ma ricorda clamorosamente il ritorno di Crash Bandicoot con il quarto capitolo. E questo mi preoccupa: Prince of Persia non ha bisogno di prendere spunto da nessuno se non sé stesso. Il trailer non dice ancora molto, quindi per adesso è un interessante ma importante dubbio.

Prima di aprire l’antro delle paure personali, provo a respirare e parlare di un limbo che non mi dice ancora molto e che purtroppo temo non finirà bene. Vado sul sicuro affermando che il trailer di Avatar: Frontiers of Pandora è stato tremendamente scialbo. Mi è sembrato di tornare indietro di 20 anni e rivedere opere anonime come Harry Potter e La Camera dei Segreti. Un ragionamento simile ma più complesso invece va fatto per Lies of P. Il soulslike di Round8 Studio è sulla carta una gemma piena di carisma. In ogni trailer mostra il suo fascino ma puntualmente qualcosa mi dice che non sarà un’opera indimenticabile. Bioshock, Final Fantasy, Elden Ring: Lies of P mi ricorda i più grandi, ma le fasi di combattimento stanno sempre passando in secondo piano. Stiamo già mettendo mani alla demo, ma nonostante la resa stilistica, il carisma dei personaggi e le ambientazioni mozzafiato, preferisco prendere questo titolo con le pinze, ancora per un po’.

Dopo 10 anni di sviluppo, assenze importanti e rinvii lunghissimi, Ubisoft ha annunciato una closed beta di Skull & Bones, che si terrà dal 25 al 28 agosto 2023. Non è quantomeno curioso che un videogioco con queste vicessitudini si presenti in sordina a fine estate? Una decade di lavoro si presenta a Natale, se proprio vogliamo andarci leggeri possiamo pensare di venderlo in primavera. Ma agosto può significare solamente che anche Ubisoft ha forti dubbi. E anche io la penso come loro perché Skull and Bones, durante il Forward, è stato presentato con un trailer alle spalle di una band che cantava canzoni piratesche. Tutto si è visto e sentito fuorché il gioco, in una conferenza sui videogiochi. Strano? Decisamente.

Lies of P alla Summer Game Fest

Ora passiamo ai dolori: quei due videogame che ho visto e che mi fanno temere che l’attesa non sarà ripagata.

Partiamo dal primo: Alan Wake 2 non mi ha convinto. L’opera di Remedy dovrebbe essere un mix bilanciato tra i survival horror di fine anni 90, Stephen King e film e telefilm cult tra horror e investigazione. Il risultato del breve gameplay del Summer Game Fest invece mi ha ricordato una versione annacquata di un qualsiasi remake di Resident Evil. Non è necessariamente un male, ma non è neanche un bene perché ho sentito mancare tante, troppe sfumature angoscianti che il primo Alan Wake mi ha saputo dare. Ripongo in Remedy ancora delle speranze, ma il 17 ottobre 2023 è vicino: spero solo che si tratti di una cattiva scelta di marketing, ma le premesse non mi hanno fatto impazzire.

Dulcis in fundo, o quasi: Avowed è ben lontano dall’essere pronto. Lo sapevo, ma non mi aspettavo nemmeno un trailer così mediocre. Da grande appassionato di Pillars of Eternity, l’idea di vedere una specie di The Elder Scrolls ambientato nel mondo di Eora è un sogno che si avvera, ma da quanto si è visto, Avowed sembra letteralmetne una mod di Skyrim, cioè un videogioco di 12 anni fa. Texture scarne, animazioni povere e ambientazioni disadorne. Sono cosciente che il piatto forte della casa è la trama, ma essa passa anche attraverso un mondo che la sappia valorizzare. In questo momento Eora è anonima, adesso come non mai il 2024 sembra troppo vicino.

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Editoriali

Perché Bioshock ha fatto la storia dei videogiochi

Bioshock”. Avrei potuto anche scrivere questa unica parola, chiudere qui l’articolo e non aggiungere altro. Già, perché per qualunque amante dei videogame di qualità Bioshock è storia, anzi, è leggenda.

Quello che leggerete d’ora in avanti sarà il variopinto elogio di una saga, “Bioshock”, “Bioshock 2” e “Bioshock – Infinite”, che mi ha appassionato come quasi nessun’altra e che mi ha piacevolmente costretto a giocarla e rigiocarla fino a scoprire ogni più piccolo segreto, ogni sfaccettatura, ogni singolo passaggio. Con “Bioshock” e i suoi sequel, infatti, non si vive semplicemente una storia, non si vestono soltanto i panni del protagonista di turno ma si affrontano i propri demoni, ci si interroga, spinti dalla trama, a fare i conti con sé stessi e ad interrogarsi su cosa, fino in fondo, sia la nostra natura umana.

La nascita del mito

Ma andiamo con ordine. Nel 2007, sviluppato da Blind Squirrel Games e pubblicato da 2K Games, arriva “Bioshock”, un FPS destinato a cambiare la storia degli sparatutto in prima persona e non solo. Il titolo ebbe l’effetto deflagrante di una bomba atomica in un mondo video ludico che attendeva con ansia un nuovo capolavoro di cui cibarsi con voracità. Il lavoro dei ragazzi dello “Scoiattolo Cieco” si rivelò subito un gioiello preziosissimo, sia per il comparto tecnico e la programmazione perfetta sia per il design dei livelli e degli straordinari personaggi. Fu così che tutte le riviste di settore non poterono far altro che dare votazioni altissime tanto da raggiungere la media di 97/100. L’acclamazione di “Bioshock” fu unanime, così come la soddisfazione dei videogiocatori di tutto il mondo che si trovarono per le mani uno dei migliori titoli mai realizzati.

Bioshock: quando si dice colpo di fulmine
Quando si dice il colpo di fulmine!

Successore “spirituale” di System Shock 2, Bioshock venne ideato per stupire la platea videoludica e trasportarla in una realtà distopica in cui il giusto e lo sbagliato vanno a fondersi in un’ipocrisia generale e folle.

Il capostipite della serie inizia con il protagonista Jack intento ad affrontare il dramma di un disastro aereo rimanendo miracolosamente illeso. Precipitato al largo nell’Oceano Atlantico, scorge un faro poco distante. Entrato poi in una batisfera, viene trasportato suo malgrado all’ingresso della città di Rapture obbligato così a scoprire i tremendi segreti di un mondo sommerso intriso di pazzia, disumanità e degrado sociale da cui dovrà evitare di essere inghiottito.

La prima avventura si dipana proprio all’interno di questa stupefacente e affascinante città sottomarina in cui, prima del decadimento, si erano riunite menti illuminate e geniali che avevano come discutibile scopo quello di poter sperimentare senza freni, slegati dalla morale e dalle leggi terrestri.

Scopriamo, ben presto, che l’inizio della fine fu la scoperta di una sostanza estratta da alcune lumache di mare, l’Adam. Tale sostanza agisce sull’organismo umano come una sorta di tumore benigno che sostituisce le cellule presenti con cellule staminali potenziate e instabili. Risultato? Tanti poteri ma anche demenza e follia. Questi poteri vengono chiamati “Plasmidi” e donano a chi li possiede (i ricombinanti) le capacità, tra le altre, di congelare, bruciare, fulminare e generare api assassine. Tali poteri vanno costantemente rimpinguati dalla droga Adam che, come ogni sostanza stupefacente, causa dipendenza. Ed ecco che Rapture, nata come città utopica con lo sguardo rivolto al futuro e alla tecnologia, diventa in breve tempo un enorme calderone di morte e pazzia in cui umani dissennati vagano senza meta per procurarsi una dose.

E già così, ammettiamolo, potremmo parlare di un’idea originalissima alla base di Bioshock. Già così potremmo parlare di capolavoro. Per fortuna, però, Bioshock non si limita ad essere uno sparatutto in soggettiva tecnicamente e visivamente splendido ma anche un gioco in cui la trama ci lascia a bocca aperta e che ci regala chicche splendide come i Big Daddy e le Sorelline a cui non possiamo che dedicare una sezione più in basso.

Un Big Daddy ci sta caricando…

Tralasciando i risvolti di trama, per i quali il sottoscritto vi consiglia caldamente di recuperare i titoli e giocarli, i due sequel procedono nel solco tracciato da “Bioshock”, regalandoci in Bioshock 2 la possibilità di vestire i panni di un possente Big Daddy senziente e, nel terzo, di vivere un’avventura splendida tra l’onirico e il magico, il tutto sapientemente curato da una regia politica che ne fa, probabilmente, il titolo più maturo dei tre.

Big Daddy & Sorelline, terrore e genialità

Come abbiamo detto, gli abitanti di Rapture sono ormai perduti, vittime dei loro stessi vizi e perennemente alla ricerca di Adam. E la loro ricerca si estende, in modo macabro e purulento anche nei cadaveri disseminati qui e lì per una città senza freni. Già, perché con uno strumento terrificante simile ad una pistola con un lungo aculeo finale è possibile estrarre i residui di Adam che scorrono nelle vene del defunto. I cadaveri, però, restano incustoditi e a disposizione di tutti solo per pochissimi minuti perché, a pochi minuti dalla morte, ecco arrivare le visioni più agghiaccianti e terribili che Rapture proponga: i Big Daddy e le Sorelline. I primi sono dei robot corazzatissimi e armati di trivella meccanica che hanno un solo scopo: difendere le bimbe che li accompagnano. Queste creaturine a prima vista sembrano delle dolci e innocenti bambine che però si rivelano esseri mutati geneticamente e riprogrammati per “fiutare” l’Adam ed estrarlo dai cadaveri con i loro arnesi.

Bioshock: sorellina
Ecco una sorellina in tutto il suo macabro e tremendo splendore

Non nascondo che quando le incontrai per la prima volta restai pietrificato e provai una sensazione di terrore misto a fascinazione. È indubbio che, pur silenti, i Big Daddy siano personaggi straordinari, non a caso diventati ultra-famose icone pop più volte rappresentate e ben presenti nell’immaginario videoludico attuale.

Quando le parole “bene” e “male” non hanno più senso

Non starò qui a raccontare minuziosamente le trame di questi capolavori senza tempo a distanza di così tanti anni dalla loro uscita ma è necessario trovare all’interno di essi un filo conduttore dell’intera l’epopea di Bioshock: la difficoltà di distinguere il bene dal male. Cosa è giusto e cosa è sbagliato. Durante tutti i tre i giochi, infatti, saremo spesso chiamati a fare delle scelte difficili che potranno o non potranno rendere il nostro personaggio più forte e, di conseguenza, l’incedere tra i livelli più agevole. Saremo chiamati a scegliere se liberare le sorelline del loro mostruoso fardello regalando loro una nuova infanzia umana oppure ucciderle prosciugandole del tutto del prezioso Adam. Detta così, potrebbe essere semplice dire quale sia la scelta giusta ma, in realtà, siamo ben oltre i limiti dell’ovvio.

Le sorelline non sono biologicamente umane, anzi, sono completamente prive di umanità nel loro stato e ciò, convenzionalmente, non le porta allo status di esseri umani. Non sappiamo i risvolti reali della loro “redenzione” che, per mano nostra, potrebbe lasciarle in una sofferenza perenne e con enormi problemi di carattere psicologico e sociologico. Neanche la dottoressa che le ha create, Brigit Tenenbaum non sa realmente cosa le sorelline siano in realtà né tantomeno conosce la loro origine. Vale la pena rischiare la propria vita per salvare questi soggetti che potrebbero essere stati creati artificialmente in laboratorio? Sta a voi deciderlo… dilemmi etici di tale portata saranno ben presenti anche nei sequel in cui potremo o non potremo forzare la legge di Rapture e quella etica per andare avanti, oppure partecipare ad un golpe che possa favorirci. E’ tutto nelle nostre mani e i vari finali disponibili, che cambiano in base alle nostre scelte, rappresentano il giudizio finale sulle nostre azioni. Provare per credere.  

Sono ambidestro e ve lo dimostro!

Spero che a questo punto via sia passato il messaggio che “Bioshock” e fratelli siano dei capolavori visionari e senza tempo ma non potevi esimermi dal parlarvi di una delle meccaniche di gioco più importanti nonché più iconiche e riconoscibili del gioco: il doppio attacco combinato.

Abbiamo detto in incipit che a Rapture abbiamo la possibilità di acquisire poteri straordinari chiamati Plasmidi e che questi siano alla base di tutti e tre i titoli. Ciò non implica, però, che i nostri protagonisti non possano farsi largo tra selve di nemici a colpi di armi da fuoco, anzi. L’innovazione della saga di Bioshock è proprio rappresentata dal doppio attacco Plasmide/Arma da fuoco che possiamo sfruttare anche in base all’ambientazione. Per fare un paio di esempi banali, ma si può eliminare il nemico con enorme eleganza e in tanti modi diversi, se il nostro avversario si trova con i piedi nell’acqua sarà certo una buonissima idea utilizzare la scarica per fulminarlo per bene prima di finirlo con fucile o pistola mentre se si trova a camminare sul cherosene o sulla benzina, la fiamma ci aiuterà ad arrostirlo a puntino.

Boom e poi bang-bang!

Ecco, la possibilità di utilizzare la mano destra per sparare e la sinistra per utilizzare il potere fu un vero colpo di genio dei creatori che regalarono, così, ai posteri una saga da cui, successivamente, hanno attinto un po’ tutti a piene mani.

Una saga oltre il tempo e la tecnica

Degrado sociale, psicologia, cieca follia e lucida crudeltà sono gli ingredienti che, uniti ad un comparto tecnico di altissimo rilievo e da un level design degno di essere studiato nelle università di settore, fanno della saga di Bioshock una delle più importanti e ricordate dell’intera storia videoludica. Tre titoli che non sentono quasi per nulla il peso degli anni e che possono essere tranquillamente giocati anche al giorno d’oggi senza il timore di vivere un’esperienza vintage e poco appagante. Provare per credere.

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The Last Case of Benedict Fox – Recensione

Ogni decade videoludica ha il suo genere e la sua ambientazione di punta. Negli ultimi dieci anni, i videogiochi indie si sono particolarmente concentrati sul genere dei metroidvania e sulle ambientazioni di carattere horror noir rese celebri tra la fine dell’800 e nei primi anni del 900 da Edgar Allan Poe e Howard Phillips Lovecraft. The Last Case of Benedict Fox è potenzialmente la tempesta perfetta: un metroidvania artisticamente ispirato dai racconti di H.P. Lovecraft che vi raccontiamo in questa recensione.

Recensione in BREVE

The Last Case of Benedict Fox è un gran peccato. Il lato artistico, tanto quello grafico con uno stile perfetto per un metroidvania lovecraftiano quanto quello sonoro con deliziose musiche jazz, sono rovinate da un’approssimazione nel cuore dell’opera: il gameplay potenzialmente solido grazie allo stile soulslike mediamente impegnativo soffre di vistosi problemi tecnici al day one; gli enigmi sono ripetitivi e il level design impone un eccessivo backtracking. I competitor sono troppo agguerriti per essere impensieriti questa volta: tanto nel genere dei metrodivania quanto nelle opere lovecraftiane.

6


Orrore a 33 giri

Benedict Fox è un sedicente investigatore dell’incubo che offre i suoi servizi a Boston, Massachusetts. L’anno in corso è il 1925: il mondo ha conosciuto la Grande Guerra, ma è anche venuto a contatto con poteri occulti ed esoterismo. La società segreta nota come First Circle ha sfruttato le dimensioni spazio-temporali più oscure per i propri interessi e adesso ben due organizzazioni – con i loro metodi poco ortodossi – si sono fatti carico di smantellare ogni utilizzo della magia occulta nel mondo conosciuto e non solo.

Così come Dylan Dog ha Groucho, così Benedict Fox ha al suo fianco un’entità altrettanto misteriosa: Companion, un demone dentro il corpo dell’investigatore che lo aiuta a risolvere i crimini più impossibili, che in questa avventura sono strettamente legati alla vita privata di Benedict. In quest’ultimo caso, l’investigatore Fox torna nella casa dei propri genitori per scoprire chi li ha asssinati.

La nostra avventura nei panni di Benedict Fox e Companion inizia nella magione, la lussuosa residenza di famiglia che servirà anche da hub centrale per un’area più grande e profonda; infatti, l’investigatore Fox attinge ai poteri sovrannaturali del suo compagno per vagare all’interno della mente dei defunti, in una dimensione onirica dai tratti (vagamente) lovecraftiani. Il Limbo – questo il nome della principale area di gioco – è un mondo in cui gli incubi diventano realtà sotto forma di inquetanti mostri: la varietà è limitata, ma la qualità artistica – sia grafica che sonora grazie ai coinvolgenti temi jazz – è il maggior pregio di The Last Case of Benedict Fox, anche se l’occhio più attento non potrà non notare delle enormi somiglianze con i demoni di Eternal Darkness: Sanity’s Requiem, il capolavoro di Silicon Knights.

A un passo dall’inferno

Ogni defunto ha il suo Limbo, che coincide con un macabro ricordo del proprio passato e delle zone in cui più si è vissuto. Il risultato è che i genitori di Benedict hanno due Limbo distinti, ma che si concatenano in zone comuni: una trovata affascinante e sufficientemente variegata poiché composta da scenari con temperature, colori e arredi abbastanza diversi tra loro e perfettamente in sintonia con lo stile artistico che tanto ci è piaciuto.

Purtroppo, non possiamo dire lo stesso del design della mappa: i ragazzi e le ragazze di Plot Twist hanno deciso di creare un mappa di gioco veramente grande, ma che presenta due importanti problemi: le aree sono troppo grandi per quello che poi realmente vi è contenuto e troppo spesso ci siamo ritrovati senza aver idea di cosa fare a causa di un backtracking eccessivo, che costringe il videogiocatore a vagare senza meta per delle aree inutilmente grandi. La frustrazione aumenta ulteriormente se pensiamo che la mappa indica i punti ancora da attraversare ma non ci dice qual è l’ostacolo.

Tecnicamente annacquato

The Last Case of Benedict Fox è un metroidvania che potrebbe risultare una sfida per i giocatori meno avvezzi ai videogiochi “tosti”. Plot Twist ha deciso infatti di puntare su nemici in stile soulslike, cioè con mostri con un pattern predeterminato che possono velocemente portare a zero i quattro punti vita iniziali che abbiamo: tutti picchiano quanto serve, dai demoni simili a degli zombie fino ai cecchini dell’Orphan Resocialization Guild.

D’altro canto, Benedict ha un arsenale minimale ma di tutto rispetto: un coltello per gli attacchi in mischia; una pistola “magica”; la possibilità di parare con il dorsale del controller e di schivare con la levetta analogica destra. A questo poi bisogna aggiunge le abilità del nostro fidato demone Compagno, utili tanto in attacco quanto in difesa. Tanto le armi quanto le abilità del Companion sono potenziabili nella magione grazie a due figure che ci verranno in soccorso durante il gioco. Il miglioramento delle armi è stato pensato come opzionale poiché si otterrà grazie ad oggetti trovati in posizioni più o meno difficili da scovare; le nuove abilità invece si ottengono collezionando un inchiostro speciale che l’investigatore Fox userà per farsi tatuare delle migliorie che può scegliere all’interno di un scarno albero formato da soli due rami.

In ogni caso, i problemi principali non sono né i nemici standard né i (pochi) boss che incontreremo durante il tragitto: la vera difficoltà del combattere e dell’affrontare le piattaforme a colpi di salti è la presenza di un sistema di comandi impreciso e con evidenti problemi di risposta negli input. Cadere in una buca non è mai stato così facile e alcuni specifici punti sono realizzati in modo così punitivo – in cui bisognerà usare delle tecniche da veri e propri lamer navigati – che ci fanno credere che il gioco non abbia ricevuto un sufficiente beta testing.

Infine, saremo tenuti ad affrontare diversi enigmi matematici basati su indizi che troveremo durante il tragitto. Abbiamo trovato i rompicapo abbastanza impegnativi in un primo momento, ma una volta capito il meccanismo, la ripetitività diventa padrone del tempo che scorre in attesa del finale.

The Last Case of Benedict Fox al Day One

Inizialmente avevamo pensato di recensire l’opera su Xbox One, ma ci siamo dovuti ricredere. Al day one, il titolo soffriva di due enormi problemi: uno stuttering (cioè un calo di frame rate e fluidità generale) imbarazzante e caricamenti lunghissimi causati da evidenti problemi di ottimizzazione.

Abbiamo quindi deciso di recensire il gioco su Xbox Series X, disponibile tra l’altro su Xbox Game Pass al day one. Su next-gen siamo arrivati fino in fondo con caricamenti minimi – ma comunque superiori a tanti altri titoli simili, uno su tutti Ori and the Blind Forest – ma siamo rimasti perplessi nel vedere un videogioco di questo genere patire comunque di un vistoso stuttering in alcuni punti ben precisi e incredibilmente importanti e centrali per l’opera. Si aggiungono alle problematiche un paio di crash che ci hanno riportato alla schermata iniziale, diventati letali a causa della mancanza di auto-save, scelta anacronistica per una generazione che fa del Quick Resume il suo punto di forza.

È stata rilasciata una patch al day one che ha migliorato la situazione, ma non ha risolto completamente i problemi che ci siamo portati avanti fino alla fine del videogioco.

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Conclusione

The Last Case of Benedict Fox tratta due temi figli dei nostri tempi: il clamore dei metrodivania nel panorama indie e la rivalutazione delle opere di H.P. Lovecraft. Il problema principale – in entrambi i casi – è che generi e temi così mainstream, nel contesto underground, richiedono una cura dei dettagli che è mancata al team di Drift Zone.

Il lato artistico di The Last Case of Benedict Fox è un barlume di speranza per il futuro, ma che necessita di essere supportato in tutti i livelli del gioco: il gameplay presenta vistosi problemi prettamente tecnici; il level design, apparentemente interessante, si rivela invece un vagare alla ricerca di cosa cosa fare per andare avanti. In generale l’opera non è orrifica nè in senso negativo né purtroppo in senso positivo: la disperazione dei Grandi Antichi è solo una lieta lontana speranza.

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: Action-Adventure (metroidvania)
  • Lingua: Italiano
  • Multiplayer: No
  • Prezzo24,99€
  • Piattaforme: PC, Xbox One, Xbox Series S/X
  • Versione provata: Xbox Series S/X

Abbiamo risolto il difficile caso della famiglia Fox dopo circa 15 ore di gioco grazie a un codice fornitore dal publisher

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Recensioni

Star Wars Jedi: Survivor – Recensione

Recensione in BREVE

Star Wars Jedi: Survivor può considerarsi una versione aggiornata e migliorata del suo predecessore. Le meccaniche souls-like non stancano, come non stancano i meravigliosi scorci e ambientazioni creati dagli abili artisti di Respawn Entertainment. Salvo difetti di ottimizzazione, questo titolo risulta godibile e intrattenente. Consigliato a tutti gli appassionati dell’universo di Star Wars, persino a coloro che non hanno giocato il primo capitolo.

8.5


Star Wars Jedi: Survivor si presenta come successore di Star Wars Jedi: Fallen Order, calcando la mano sulle caratteristiche che hanno reso il capitolo precedente un ottimo gioco. Ma si sa, talvolta mettere un “2” alla fine del titolo non basta ad accertarne la qualità. Essendo quindi in una posizione così rischiosa, Star Wars Jedi: Survivor sarà riuscito ad alzare l’asticella della qualità? Andiamo a scoprirlo.

La forza non è nella trama

In questo secondo capitolo vestiamo nuovamente i panni di Cal Kestis – uno dei pochi jedi a essere sopravvissuto all’Epurazione – il quale continua strenuamente la sua lotta contro l’Impero, con la speranza di rifondare il perduto Ordine Jedi.

Sono passati 5 anni dagli eventi di Star Wars Jedi: Fallen Order e le strade dei nostri protagonisti si sono divise. Cal Kestis, durante tutto questo tempo, è diventato un vero e proprio Cavaliere Jedi. Di lavoro in lavoro, aiutato dal suo fido droide BD-1, Cal cerca nuovi modi per sfidare e abbattere il famigerato Impero Galattico; nel fare ciò, Cal risveglia un antico jedi del tempo delle guerre dei cloni, il quale potrebbe non essere troppo grato della nostra gentilezza.

Nuove esperienze e nuovo look! Questo nuovo Cal ci piace davvero molto, un vero e proprio miglioramento estetico rispetto al passato.

Nel corso della nostra avventura, oltre a incontrare personaggi creati appositamente per il gioco – come per esempio Bode Akuna, mercenario che formerà un legame speciale con il nostro protagonista – ritroviamo anche volti noti della serie. Scopriremo cosa è successo a Greeze Dritus, ex-pilota della Mantis, vedremo come si evolverà il rapporto tra Cal e Merrin, la quale potrà essere utilizzata come compagna in combattimento, e incontreremo Cere Junda, nostra mentore durante il primo gioco.

In generale la trama è solida, ma alquanto lineare e tremendamente simile a quella del primo capitolo. Probabilmente gli appassionati ameranno perdersi nella galassia, incontrando facce nuove e vecchie, unendo i puntini temporali delle vicende dell’universo di Star Wars. Ma per chi è estraneo a tutto ciò, potrebbe risultare faticoso legarsi a una narrazione così poco avvincente, preferendo concentrarsi unicamente sul gameplay.

More of the same

Chi ha giocato il primo capitolo si troverà subito a casa. La maggior parte delle abilità acquisite in precedenza sono infatti disponibili sin da subito e il combattimento non sarà affatto dissimile dal precedente titolo. Sono ancora presenti gli elementi Souls-like e Metroidvania che hanno caratterizzato la saga (anche se forse sarebbe meglio dire Sekiro-like, visto che condivide molte più similarità con quest’ultimo che con un Souls).

Persino le interfacce sono state migliorate, rese più accessibili e intuitive.

Ma allora cosa cambia? Questa domanda potrebbero farla in molti, stizziti del fatto che non sia cambiato nulla a livello di gameplay. Ed effettivamente la formula principale rimane la stessa: esplorazione, combattimento e caccia ai collezionabili; tutto sembra prendere a piene mani da un modus operandi già visto e rivisto. Star Wars Jedi: Survivor è quindi un more of the same?

Pur non cambiando il nucleo principale della serie, Star Wars Jedi: Survivor implementa moltissimi cambiamenti e miglioramenti all’intera struttura di gioco. Molte meccaniche fastidiose sono state velocizzate o reinventate. Sono state aggiunte diverse nuove modalità di movimento, come per esempio il rampino o lo scatto aereo. Per non parlare delle miriadi di nuove personalizzazioni disponibili. Un’evoluzione insomma, di ciò che già funzionava. In definitiva, sì, Star Wars Jedi: Survivor è un more of the same.

Esplorazione: meravigliosa e faticosa

Le mappe di Star Wars Jedi: Survivor sono davvero gigantesche e talvolta questo non è un bene. In questo caso invece, la grandezza delle mappe non sarà affatto un problema. Ogni luogo pullula di flora e fauna, insenature nascoste, luoghi inaccessibili e collezionabili segreti. Per non parlare dei meravigliosi paesaggi che non ci stancheremo mai di guardare a bocca aperta.

I mondi esplorabili sono cinque e ognuno di loro ha un suo differente ecosistema: un mondo desertico; una stazione spaziale segreta; una luna infranta. Questi sono solo alcune delle meravigliose ambientazioni che potremmo esplorare. Tutto ciò anche grazie all’implementazione di un richiestissimo viaggio rapido, che renderà il viaggio decisamente più piacevole.

Non si può non lodare il lavoro di tutti gli artisti che hanno lavorato a questo titolo.

Purtroppo, anche se ogni location ha caratteristiche diverse, la sensazione è che in fondo sono estremamente simili tra loro. Sia chiaro: le ambientazioni sono molte, basti solo pensare alla palude di Koboh, al deserto rosso di Jedha o alle luci al neon di Coruscant, ma sembrano tutte mischiarsi in una grigia macchia di colore desaturato. Probabilmente questa scelta è stata fatta per incentivare il realismo, ma tale decisione rende sicuramente più difficile far imprimere questi stupendi scenari nella memoria a lungo termine dei videogiocatori.

Come se non bastasse, la nostra voglia di esplorare sarà presto recisa dalla componente Metroidvania, la quale limiterà molto i luoghi esplorabili, almeno a inizio gioco. E anche quando otterremo le abilità richieste, sarà comunque difficile ricordarsi i luoghi lasciati indietro, perché le mappe sono talmente intricate da risultare quasi dispersive. La mini-mappa 3D proverà a venirci incontro, ma non sempre è facile orientarsi.

L’affascinante Lato Oscuro

I nemici sono il cuore pulsante di Star Wars Jedi: Survivor e fortunatamente il loro numero è aumentato rispetto a Fallen Order: sono infatti tre le fazioni principali con cui andiamo a scontrarci. Partiamo con delle facce già viste: l’Impero. I nemici con la testa a secchio sono leggermente aumentati in numero: tra le loro fila troviamo i classici Storm Trooper, ma anche i temibili Purge Trooper e i micidiali droidi da combattimento. Il loro pattern di combattimento è molto semplice e sono tra gli avversari più prevedibili per chi ha già giocato il primo capitolo.

La novità risiede nei Predoni del Caos. La loro peculiarità è l’utilizzo di droidi della vecchia repubblica per combattere; di conseguenza, fanno la loro comparsa Droideka, Droidi da Battaglia B-1 e B-2, Droni Sentinella, e persino Droidi Separatisti da Battaglia. Un piacevole tuffo nel passato per tutti gli appassionati, anche se il loro sistema di combattimento non è troppo dissimile da quello imperiale, rendendoli quasi mere skin alternative.

Far dialogare i nemici tra di loro è una scelta molto apprezzata: rendono il mondo più vivo e regalano quel tocco di umanità in più.

Ovviamente, abbiamo anche la fauna galattica. Creature da ogni pianeta che non esiteranno ad attaccarci a prima vista. Ognuna di loro ci obbliga a differenziare il nostro approccio rispetto ai nemici umanoidi. Anche qui però non troveremo troppa varietà nel gameplay, potendo riassumere il tutto in un para e attacca. Fortunatamente non tutti gli animali ci vorranno fare la pelle, anzi alcuni potremo anche cavalcarli grazie al nuovo sistema di cavalcatura, che ci permette di viaggiare in groppa ad alcune creature così da muoverci più velocemente negli estesi spazi aperti.

Infine, fanno il loro ritorno i mercenari. Nemici speciali che potremo rintracciare nei vari mondi di gioco e sconfiggere per intascare la loro taglia. Completare una taglia ci ricompensa con crediti speciali che possiamo scambiare per nuovi pezzi di arma e abilità uniche per il blaster. Il combat system dei mercenari è sicuramente il più caratteristico della norma: mercenari focalizzati sull’uso dei blaster o magari rintanati dietro a un fastidiosissimo scudo ci hanno messo alla prova.

Souls-like o quasi

Parlando del combattimento non si può fare a meno di trovare somiglianze con i titoli From Software: sono infatti molte le meccaniche prese in prestito da quest’ultimi. Star Wars Jedi: Survivor riesce però ad essere unico nel suo stile e non può essere accusato di plagio o pigrizia, poiché ci regala un sistema di combattimento semplice e soddisfacente, anche se non privo di difetti. Purtroppo, bisogna far notare che gli input non risultano molto reattivi. Non è raro venir colpiti in combattimento per colpa di un tasto premuto, ma non registrato.

In questo secondo capitolo il sistema di combattimento è stato aggiornato con nuove abilità e stili disponibili; nello specifico sono tre i nuovi stili di combattimento implementati: doppia spada, blaster, e guardia incrociata. Gli stili non sono altro che le modalità d’uso della nostra spada laser: cambiarli nel bel mezzo del combattimento sarà fondamentale per adattarsi a ogni tipo di situazione.

Lo stile doppia spada non è in realtà così nuovo: era già presente nel capitolo precedente, ma ora gode di uno stile e di un albero delle abilità tutto suo. Stile poco difensivo, incentrato sull’aggressività, utile per i duelli in solitaria, dotato persino di un sistema di parry. Lo stile blaster, invece, è uno dei migliori, poiché ci permette di utilizzare in coppia sia la spada laser che appunto un blaster che si ricaricherà a ogni fendente della nostra lama. Stile elegante ed equilibrato, incentrato sul combattimento a distanza. Infine, lo stile guardia incrociata, il quale avvera il sogno di molti fan della saga. Permette infatti di aggiungere una guardia laser all’impugnatura, proprio come quella di Kylo Ren nella nuova trilogia. Tale modifica aumenta il danno dei colpi, a discapito della loro velocità. Adatta ai duelli, ma difficile da maneggiare. Praticamente la modalità berserk di Cal.

Saper scegliere lo stile giusto al momento giusto è la chiave per vincere ogni scontro. Per esempio, potremmo decidere di equipaggiare uno stile aggressivo, avendo la meglio su bersagli singoli, ma potremmo trovare difficoltà con gruppi di nemici o avversari volanti. Il tutto si riassume in un sistema equilibrato, che si adatta allo stile favorito dal giocatore. Peccato non si possano equipaggiare più di due stili di combattimento alla volta, tale decisione avrebbe giovato la libertà di gameplay e sarebbe stato più divertente sperimentare.

Gameplay a parte, i combattimenti sono un vero piacere per gli occhi.

Alti Livelli di Personalizzazione

Se non saremo impegnati ad eliminare nemici, staremo probabilmente andando a caccia di collezionabili. È inutile farlo? No, infatti racimolare oggetti opzionali ci ricompensa con maggiori informazioni sulle creature e sul luogo intorno a noi, ma non solo. Il comparto di personalizzazione si è veramente allargato, dando massiccia libertà di azione a tutti gli appassionati.

Se nel precedente titolo potevamo solo cambiare i colori del poncho, in Star Wars Jedi: Survivor avremo la possibilità di modificare completamente il look del nostro Cal.

Menzione d’onore va anche alla personalizzazione delle armi in nostro possesso, avanti anni luce rispetto al suo predecessore. In questo modo l’esplorazione è incentivata, poiché le modifiche alla spada laser (e non solo) sono sparse dappertutto. È però un gran peccato che nessuna di queste modifiche influenzi il combattimento, rimanendo stanziata al mero lato estetico.

Tecnicamente accettabile

Sono tristemente note le gravi problematiche di ottimizzazione per PC e Xbox, problematiche che potrebbero impattare negativamente molti giocatori. Star Wars Jedi: Survivor permette a inizio gioco di scegliere tra due modalità: “prestazioni” e “qualità“. Quindi, in un certo senso, avevano già previsto che il titolo non sarebbe stato alla portata di tutti. Ma un lancio del genere è a dir poco imbarazzante.

Su Playstation 5 – la versione da noi provata – invece la situazione cambia: il numero di cali di frame è di gran lunga minore. Sono presenti dei momenti di indecisione ma nulla che rovini l’esperienza di gioco in modo significativo. Al momento della recensione sono già state messe in atto patch risolutive che ammorbidiscono il problema, speriamo in una totale equità delle console in un futuro prossimo.

Modelli, texture, illuminazione… non c’è da stupirsi che l’esperienza di gioco venga intaccata.

Conclusione

Star Wars Jedi: Survivor prende tutto quello che era presente nel capitolo precedente e lo migliora nettamente, talvolta a discapito della fluidità e dell’ottimizzazione. Il titolo non presenta ammirabili innovazioni, ma potrebbe comunque essere una buonissima esperienza per qualsiasi appassionato del genere.

Gli sforzi degli artisti si sentono parecchio: soltanto il loro lavoro vale il costo del biglietto. Se si fossero concentrati anche sul lato tecnico e di game design probabilmente il titolo avrebbe raggiunto vette altissime. Riponiamo grande speranza nel prossimo capitolo (perché ci sarà un terzo capitolo… vero?).

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: Action, Adventure
  • Lingua: Italiano
  • Multiplayer: No
  • Prezzo79,99€
  • Piattaforme: Playstation 5, Xbox X/S, PC
  • Versione provata: Playstation 5

Abbiamo viaggiato la galassia sconfiggendo feccia imperiale per circa 16 ore grazie a un codice fornito dal publisher