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Dragon Quest: un classico che non smette mai di reinventarsi

Con l’annuncio di Dragon Quest VII Reimagined, previsto per il 5 febbraio 2026, la saga simbolo del JRPG si prepara a riaffermare la sua importanza. Dall’origine di un genere fino alla sua evoluzione su più piattaforme, Dragon Quest ha saputo rinnovarsi senza tradire le proprie radici, conquistando mercati diversi con strategie sempre più mirate.

Dragon Quest VII Reimagined: una nuova vita per un classico

Quando Square Enix ha confermato l’uscita di Dragon Quest VII Reimagined per il 5 febbraio 2026, la reazione è stata immediata. C’è stato grande entusiasmo da parte dei fan storici, ma anche interesse da chi ha scoperto il franchise solo di recente. Non è la prima volta che il settimo capitolo della saga torna a farsi vedere. Nel 2013 era approdato su Nintendo 3DS in Giappone (e nel 2016 in Occidente) con una versione già aggiornata rispetto all’originale per PlayStation del 2000.

La nuova edizione promette di fare un ulteriore salto generazionale: grafica rimodernata, interfaccia più intuitiva, localizzazione più curata e – secondo indiscrezioni – contenuti narrativi ampliati. L’operazione non punta solo sulla nostalgia, ma anche su una più chiara accessibilità per le nuove generazioni di giocatori. Nintendo e Square Enix stanno perseguendo da tempo questo obiettivo con le loro riedizioni.

Un brand dal cuore orientale e dall’anima globale

Guardando al mercato, Dragon Quest ha sempre vissuto un dualismo particolare: fenomeno di massa in Giappone, gioco di nicchia in Occidente. Nel Paese del Sol Levante, ogni lancio di un nuovo capitolo si trasforma in un evento sociale, con file interminabili davanti ai negozi e vendite da record già al day one. Non a caso, la saga ha superato i 85 milioni di copie vendute in tutto il mondo, con gran parte concentrate in Asia.

In Europa e negli Stati Uniti, invece, l’impatto è stato più contenuto, soprattutto se paragonato all’altro grande brand Square Enix: Final Fantasy. Le motivazioni sono molteplici: estetica più tradizionale, con il character design di Akira Toriyama che richiama immediatamente lo stile anime; gameplay a turni meno spettacolare agli occhi del pubblico occidentale; e una comunicazione spesso meno aggressiva rispetto alla sorella più “glamour”.

Come spiegato dagli stessi produttori in diverse interviste, tra cui una a Nintendo Everything, Dragon Quest ha puntato storicamente sulla continuità e sulla riconoscibilità, mentre Final Fantasy ha scelto l’innovazione radicale a ogni capitolo. Questo ha reso più difficile il radicamento di Dragon Quest in mercati dove il pubblico tende a cercare novità visive e narrative. Tuttavia, proprio questa coerenza è diventata nel tempo un valore unico. Questa scelta è stata premiata, soprattutto con l’uscita di Dragon Quest XI, che ha riscosso un successo globale e ha fatto da ponte tra vecchi e nuovi fan.

La storia di Dragon Quest: tra fedeltà e innovazione

Per capire perché Dragon Quest sia così centrale nella storia dei videogiochi, basta guardare alle sue tappe fondamentali. Nato nel 1986 su Famicom, è stato il primo titolo a consolidare le meccaniche del JRPG. Combattimenti a turni, party di eroi da costruire, narrativa epica che si sviluppava lungo un mondo esplorabile. Quello che oggi consideriamo uno standard era, all’epoca, una rivoluzione.

Ogni capitolo della saga ha portato qualcosa di diverso, senza mai spezzare la riconoscibilità del brand. Il terzo capitolo ad esempio, con il suo sistema di classi, ha permesso di creare combinazioni di personaggi uniche, aprendo la strada a più possibilità strategiche per vincere anche gli scontri più ardui. Dragon Quest VIII, invece, ha segnato il passaggio definitivo al 3D, ma senza abbandonare i turni classici. il risultato è stato un titolo che portò il design di Toriyama e le musiche di Koichi Sugiyama a un livello di spettacolarità senza precedenti, aprendo la saga anche a un pubblico occidentale più ampio.

Ancora, Dragon Quest XI ha dimostrato come il brand potesse essere competitivo anche in un mercato dominato da action RPG e produzioni open world. Pur restando fedele ai turni e all’estetica di Toriyama, il gioco ha introdotto un mondo aperto più ampio e narrativamente profondo, guadagnandosi la fama di miglior capitolo moderno della serie. Sono proprio queste differenze calibrate, mai radicali ma sempre sostanziali, a rendere Dragon Quest un brand vincente (ancora) oggi.

La timeline di Dragon Quest e parallelismo con Dragon Ball. Fonte: Steemit.

Un ruolo fondamentale in questa continuità è stato proprio quello di Akira Toriyama, scomparso nel 2024. Il suo stile artistico ha plasmato l’identità visiva di Dragon Quest, rendendolo immediatamente riconoscibile e profondamente legato alla cultura pop giapponese. Allo stesso modo, le colonne sonore di Koichi Sugiyama hanno accompagnato intere generazioni di giocatori, trasformando semplici melodie in inni culturali.

Un universo che si espande

Oltre ai capitoli principali, Dragon Quest si è distinto anche per la capacità di differenziare la propria offerta. Questo grazie ad una serie di spin-off che hanno ampliato l’universo narrativo. Dragon Quest Monsters, ad esempio, ha anticipato la formula che avrebbe reso celebre Pokémon, permettendo ai giocatori di catturare e allenare creature in un contesto JRPG. Dragon Quest Heroes, invece, ha sperimentato con l’action in stile musou, avvicinando al brand chi prediligeva dinamiche più frenetiche.

Il caso più emblematico resta però Dragon Quest Builders, un ibrido tra JRPG e sandbox costruttivo – alla Minecraft. Con il suo mix di avventura, crafting e narrazione, Builders ha dimostrato come il brand fosse in grado di innovare senza perdere la sua identità. Il successo di questi spin-off non è stato marginale: hanno permesso al marchio di restare rilevante anche al di fuori della serie numerata, rafforzandone la popolarità e introducendo nuove generazioni di giocatori.

Il risultato è un catalogo vastissimo, che supera le quaranta uscite tra capitoli principali, remake, remaster e spin-off. Un numero che testimonia non solo la longevità del brand, ma anche la sua capacità di adattarsi ai cambiamenti del mercato, mantenendo sempre intatta la propria anima.

Nostalgia, innovazione e… la strategia di Nintendo

Il caso di Dragon Quest VII Reimagined non è isolato. Nintendo, che negli anni ha fatto della strategia “innovare senza tradire” un mantra, ha spesso investito nella riproposizione di titoli storici sotto nuove vesti. Lo scopo è duplice. Da un lato, si cerca di intercettare la nostalgia dei fan storici; dall’altro, offrire alle nuove generazioni un modo più accessibile per scoprire classici intramontabili.

Questa logica si inserisce in una tendenza di mercato sempre più chiara: i remake e i remaster non sono semplici operazioni commerciali, ma strumenti per rafforzare il brand, consolidare la fanbase e ampliare la platea. Nel caso di Dragon Quest, la scelta di riportare in auge il settimo capitolo risponde perfettamente a questa strategia. Si tratta di un gioco amatissimo in patria, che ora ha l’occasione di conquistare finalmente anche l’Occidente grazie a una veste più moderna e a un marketing più mirato.

In fondo, la forza di Dragon Quest è sempre stata quella di guardare avanti senza dimenticare da dove è partito. E con il ritorno di un capitolo storico, aggiornato e potenziato, la saga non solo celebra le sue radici, ma riafferma la sua capacità di parlare a pubblici diversi in un mercato che cambia.

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Dragon Quest VII Reimagined: il remake arriva a febbraio 2026

Durante il Nintendo Direct del 12 settembre 2025, Square Enix ha annunciato Dragon Quest VII Reimagined, un remake moderno di Dragon Quest VII: Fragments of the Forgotten Past, uscito originariamente nel 2000. L’appuntamento con il lancio è fissato per il 5 febbraio 2026, quando il titolo sarà disponibile su Nintendo Switch 2, Nintendo Switch, PlayStation 5, Xbox Series X|S e PC tramite Steam e Microsoft Store.

La nuova versione di Dragon Quest VII propone una reinterpretazione completa, con un’estetica realizzata a mano che trasforma il mondo del gioco in un libro animato. Lo stile grafico, curato con dettagli artigianali, conferisce a personaggi e ambienti un look che richiama i diorami, rendendo l’esperienza visiva unica nel panorama dei GDR.

Accanto al rinnovamento estetico, Dragon Quest VII Reimagined introduce una serie di miglioramenti pensati per rendere il gameplay più snello e coinvolgente. La storia rimane fedele all’originale, ma con un ritmo narrativo più equilibrato e contenuti aggiuntivi come missioni secondarie e minigiochi opzionali.

Dragon Quest VII Reimagined: novità tra gameplay e edizioni speciali

Il sistema di combattimento è stato ridisegnato per offrire scontri più dinamici e strategici. Spiccano la possibilità di assegnare un doppio mestiere ai personaggi, l’abilità “Libero sfogo” e la nuova vocazione Domamostri, che consente di richiamare potenti creature a supporto.

I protagonisti principali, tra cui Kiefer e Maribel, accompagneranno il giocatore in un viaggio tra isole e mondi da ricostruire attraverso i frammenti delle tavolette. Ogni area presenta città da esplorare, dungeon da affrontare e missioni da completare, offrendo una struttura di gioco ricca e variegata.

Per i collezionisti sarà disponibile una Collector’s Edition fisica, esclusiva dell’e-STORE di Square Enix, che include una SteelBook, un peluche Smile Slime, una statuetta Nave in bottiglia e diversi pacchetti DLC. In alternativa, i giocatori potranno scegliere la Digital Deluxe Edition, che garantisce 48 ore di accesso anticipato, un costume esclusivo per l’eroe Rolf e tre contenuti aggiuntivi.

Chi effettuerà il preordine riceverà inoltre bonus speciali, tra cui un costume ispirato a Dragon Quest VIII, semi della competenza per potenziare le statistiche e lo Scudo Slurp digitale disponibile per ogni piattaforma.

Con Dragon Quest VII Reimagined, Square Enix non solo celebra un classico, ma punta a offrirgli nuova vita attraverso grafica rinnovata, gameplay arricchito e contenuti pensati per fan di vecchia e nuova generazione.

E tu, cosa ne pensi di questo ritorno? Giocherai Dragon Quest VII Reimagined al lancio o aspetterai di scoprire le prime recensioni?

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Cosa sono i JRPG e cosa li contraddistingue dagli RPG occidentali

Quando il Giappone decide di creare qualcosa, non c’è dubbio che lo fa con un unico obiettivo in mente: realizzare qualcosa di innovativo, diverso ed inimitabile. È successo con i manga, che non sono proprio fumetti, e lo stesso con gli anima, che chiamarli cartoni animati è riduttivo.

Succede anche con il cinema, o con la musica: nel Paese del Sol Levante ogni prodotto dell’industria culturale deve essere qualcosa di unico, che anche se riconducibile ad una categoria più ampia, deve essere facilmente riconoscibile come proprio della cultura giapponese. E lo stesso avviene tra i singoli prodotti, che da loro devono essere distinguibili.

Ovviamente, per i videogiocatori si tratta di un concetto immediatamente applicabile ad un genere in particolare, quello dei JRPG, ossia dei giochi di ruolo per l’appunto giapponesi. Ma cosa sono i JRPG? Quella “J”, che sta proprio per Japanese, non indica soltanto la provenienza geografica del prodotto, ma nasce come un vero e proprio certificato di autenticità, un marchio con cui il giocatore può essere certo che si troverà di fronte a qualcosa di nuovo.

Nascita

Raccontare della storia dei JRPG è più un esercizio di stile, che di sostanza. Si parla di un genere che, di fatto, quasi coincide con la nascita dei videogiochi. I primissimi titoli sono comparsi nei primi anni 80, ma sarà il primo Dragon Quest, uscito per Enix nel 1986 in oriente e nel 1989 in occidente sulla piattaforma NES, a far emergere il genere. Un momento storico che ha dato vita ad un vero e proprio tsunami di titoli, tra cui il primo Final Fantasy.

Fare la lista dei titoli che poi negli anni si sono susseguiti richiederebbe un tempo infinito: da Suikoden a Shin Megami Tensei, passando per gli Xenosaga e gli Xenoblade, i Persona e così via. La lista è veramente enorme e nella maggior parte dei casi si parla quasi sempre di saghe, i cui capitoli a volte sono uno il proseguo dell’altro, altre invece sono indipendenti e condividono soltanto il nome. Perché, come si è già detto, secondo la filosofia del Jrpg, ogni titolo deve essere unico ed inimitabile, anche se condivide il nome con altri prodotti.

JRPG vs WRPG: cosa cambia rispetto ai GDR occidentali?

Quella tra JRPG e Western Role Playing Game non è soltanto una differenza dovuta allo stile, ma per anni è stata una vera e propria battaglia culturale e, ovviamente, di mercato.

Basti tornare indietro di qualche anno (ahimè, non pochi), e rievocare la storica contrapposizione tra Nintendo e Sega, dove la prima deteneva l’egemonia dei JRPG, mentre la seconda dei WRPG. Acquistare una console anziché l’altra (per i giocatori di giochi di ruolo, s’intende) significava prendere una posizione.

Le differenze tra i due generi non si sono affievolite neanche con l’arrivo della Sony, che con la prima Playstation e la conseguente egemonia del mercato tra il 1994 e il primi 2000 ha eliminato le barriere di genere, proponendo tanto i GDR occidentali quanto i JRPG. La contrapposizione tra i due generi però è rimasta e rimane tutt’ora. Il resto è storia, già trattata in infinite sedi.

Ma al netto dello storico campanilismo, cosa c’è di così diverso tra un JRPG e un WRPG? La prima differenza è sicuramente nella struttura dei generi. I JRPG nascono principalmente come titoli basati su un party di più personaggi e con combattimenti a turni, dove la cooperazione tra protagonista (o protagonisti) e altri astanti, a cui si cerca di dare sempre uno spessore, fa da padrona.

Ciò non significa che i giochi di ruolo occidentali non abbiano mai abbracciato questo stile: basti guardare gli storici Baldur’s Gate o Planescape Torment che, con tutte le differenze del caso, permettevano di scegliere i componenti del proprio party come lo si poteva fare a Final Fantasy, più o meno.

Eppure, già prendendo questi due titoli come esempio, è possibile tracciare una prima netta linea di demarcazione: nei diversi Baldur’s Gate (ma anche negli Elder Scroll o nei più recenti Divinity Original Sin) il giocatore ha la possibilità di creare il proprio personaggio, si immerge in una narrazione in cui le sue decisioni cambiano il mondo, viene catapultato all’interno di una storia che vive quasi in prima persona. Perché uno dei punti cardine di un buon gdr occidentale è proprio il choice matter: dove ciò non avviene, manca sempre qualcosa.

Con i JRPG, la distanza tra il giocatore e i personaggi è invece molto più netta. Non siamo noi a creare Cloud, Squall o Tidus (sempre facendo riferimento ai Final Fantasy): è vero, avremo il controllo dei loro movimenti nel mondo e nei combattimenti, ma non avremo diritto di interferire con le loro scelte o con il loro essere: saremo relegati ad un ruolo di spettatori di una storia che non è la nostra, ma a cui assisteremo arrivando a volte anche ad affezionarci ai personaggi che ne sono parte, cosa che accade molto più difficilmente nei titoli dei giochi di ruolo occidentali.

Ed è forse questa la più grande differenza tra i due generi: da una parte siamo attori, dall’altra spettatori. Da una parte interagiamo con il mondo al punto di sentirci parte integrante di esso, dall’altro ci godiamo una narrazione in cui non siamo inclusi, ma va bene così, è la loro storia.

Unicità

Che ogni buon titolo GDR debba raccontare una buona storia, a prescindere da dove sia stato realizzato, se in Europa, in America o Giappone, è una delle basi del genere. Ma ciò non basta: una buona storia senza un sistema di combattimento innovativo difficilmente è in grado di interessare il grande pubblico.

Quando si parla di JRPG, tutto ciò viene però portato all’estremo, dove a fianco dell’attenzione maniacale alle storie, forti anche delle influenze di manga e anime che ben si sposano con il genere videoludico, si passa alla nota ricerca della complessità dei combattimenti, che molte volte chiedono un minimo di studio affinché si possano affrontare le sfide più complesse offerte dal gioco (che spesso sono opzionali).

Partiamo dalle basi: a parte qualche “romantico” che ancora resiste, il genere JRPG negli anni è passato da uno stile di combattimenti a turni all’action.

L’esempio più lampante è la contrapposizione tra Final Fantasy VII e il suo Remake: oltre ai cambiamenti nella storia, è stato impensabile per Square-Enix proporre una sola rivisitazione grafica del gioco: c’era bisogno di renderlo attuale e, senza entrare sulla diatriba relativa anche alle differenze sulla storia, la scelta più azzeccata è stata puntare sulla dinamicità dei combattimenti, mantenendo però elementi imprescindibili del JRPG, quali mosse finali, magie e altro ancora.

Col passare del tempo, i JRPG sono diventati molto più complessi di quanto non lo fossero già e anche questo cambiamento rientra nel concetto di voler produrre titoli sempre più innovativi e differenti l’uno dall’altro.

Dalle famose Junction di Final Fantasy VIII (che oggi capirle è semplicissimo, ma ricordo quando ci giocavo ai tempi delle medie, per poi scoprire come funzionavano solo al CD 3) agli ultimi titoli come Xenoblade Chronicles 3 o Tales of Arise (di quest’ultimo, ancora oggi non ho capito bene come funzionano le combo), ogni titolo ha sempre voluto proporre uno stile unico che, come si è detto, a volte convince e altre no, ma chi produce sembra non contemplare l’opzione di pubblicare qualcosa di già visto, anche se in passato ha catturato l’attenzione di molti.

“È così che funziona il mercato”, verrebbe da dire, ma non è proprio così: si guardi per esempio a Divinity Original Sin 1 e 2, dove ovviamente il secondo capitolo propone una nuova grafica, nuove abilità e un nuovo sistema di progressione, mantenendo però alcune meccaniche del primo senza cambiarle di una virgola, come la possibilità di interagire con l’ambiente circostante durante il combattimento. Il ragionamento è semplice: ha funzionato nel primo capitolo, perciò lo si ripropone allo stesso identico modo anche nel secondo (e perché no, anche in Baldur’s Gate 3).

Oppure si guardi ai giochi Bethesda, dove Skyrim e Fallout, giochi completamente diversi per ambientazione, che però, fatte le dovute eccezioni, condividevano lo stesso menu e lo stesso stile di combattimento (e alcune analogie sono rintracciabili persino nel recente Starfield).

Ecco, tutto ciò è vietato nei JRPG. Non può esistere un Final Fantasy che sia anche lontanamente simile al precedente, per storia o meccaniche di combattimento, e lo stesso accade per gli Xenoblade Chronicles o i Dragon Quest, quest’ultimo tra gli unici titoli che ancora resistono al romanticismo del combattimento a turni ma che nonostante ciò riesce ancora a rinnovarsi.

Alla fine: che cos’è un JRPG?

Per definire cosa sia un JRPG, bisogna dunque tenere conto di due fattori: una narrazione che deve tenere incollati allo schermo e uno stile di gioco unico, che permetta a chi non vuole applicarsi di concludere la storia, ma che proponga anche una serie di sfide opzionali estremamente complesse che solo chi ha voglia di studiarsi build e combo può riuscire a concludere con successo (in perfetto stile di gioco nipponico).

I JRPG sono storie, personaggi di spessore, colpi di scena e a volte anche lacrime, ma sono anche combattimenti mozzafiato, magie, luci, laser, mostri giganti, evocazioni e a volte anche enormi robot. Possono essere semplicità e complessità allo stesso tempo, ma soprattutto devono essere unici, sia rispetto ai loro cugini occidentali, sia rispetto ai titoli della stessa categoria.

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