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Editoriali

Cosa sono i JRPG e cosa li contraddistingue dagli RPG occidentali

Quando il Giappone decide di creare qualcosa, non c’è dubbio che lo fa con un unico obiettivo in mente: realizzare qualcosa di innovativo, diverso ed inimitabile. È successo con i manga, che non sono proprio fumetti, e lo stesso con gli anima, che chiamarli cartoni animati è riduttivo.

Succede anche con il cinema, o con la musica: nel Paese del Sol Levante ogni prodotto dell’industria culturale deve essere qualcosa di unico, che anche se riconducibile ad una categoria più ampia, deve essere facilmente riconoscibile come proprio della cultura giapponese. E lo stesso avviene tra i singoli prodotti, che da loro devono essere distinguibili.

Ovviamente, per i videogiocatori si tratta di un concetto immediatamente applicabile ad un genere in particolare, quello dei JRPG, ossia dei giochi di ruolo per l’appunto giapponesi. Ma cosa sono i JRPG? Quella “J”, che sta proprio per Japanese, non indica soltanto la provenienza geografica del prodotto, ma nasce come un vero e proprio certificato di autenticità, un marchio con cui il giocatore può essere certo che si troverà di fronte a qualcosa di nuovo.

Nascita

Raccontare della storia dei JRPG è più un esercizio di stile, che di sostanza. Si parla di un genere che, di fatto, quasi coincide con la nascita dei videogiochi. I primissimi titoli sono comparsi nei primi anni 80, ma sarà il primo Dragon Quest, uscito per Enix nel 1986 in oriente e nel 1989 in occidente sulla piattaforma NES, a far emergere il genere. Un momento storico che ha dato vita ad un vero e proprio tsunami di titoli, tra cui il primo Final Fantasy.

Fare la lista dei titoli che poi negli anni si sono susseguiti richiederebbe un tempo infinito: da Suikoden a Shin Megami Tensei, passando per gli Xenosaga e gli Xenoblade, i Persona e così via. La lista è veramente enorme e nella maggior parte dei casi si parla quasi sempre di saghe, i cui capitoli a volte sono uno il proseguo dell’altro, altre invece sono indipendenti e condividono soltanto il nome. Perché, come si è già detto, secondo la filosofia del Jrpg, ogni titolo deve essere unico ed inimitabile, anche se condivide il nome con altri prodotti.

JRPG vs WRPG: cosa cambia rispetto ai GDR occidentali?

Quella tra JRPG e Western Role Playing Game non è soltanto una differenza dovuta allo stile, ma per anni è stata una vera e propria battaglia culturale e, ovviamente, di mercato.

Basti tornare indietro di qualche anno (ahimè, non pochi), e rievocare la storica contrapposizione tra Nintendo e Sega, dove la prima deteneva l’egemonia dei JRPG, mentre la seconda dei WRPG. Acquistare una console anziché l’altra (per i giocatori di giochi di ruolo, s’intende) significava prendere una posizione.

Le differenze tra i due generi non si sono affievolite neanche con l’arrivo della Sony, che con la prima Playstation e la conseguente egemonia del mercato tra il 1994 e il primi 2000 ha eliminato le barriere di genere, proponendo tanto i GDR occidentali quanto i JRPG. La contrapposizione tra i due generi però è rimasta e rimane tutt’ora. Il resto è storia, già trattata in infinite sedi.

Ma al netto dello storico campanilismo, cosa c’è di così diverso tra un JRPG e un WRPG? La prima differenza è sicuramente nella struttura dei generi. I JRPG nascono principalmente come titoli basati su un party di più personaggi e con combattimenti a turni, dove la cooperazione tra protagonista (o protagonisti) e altri astanti, a cui si cerca di dare sempre uno spessore, fa da padrona.

Ciò non significa che i giochi di ruolo occidentali non abbiano mai abbracciato questo stile: basti guardare gli storici Baldur’s Gate o Planescape Torment che, con tutte le differenze del caso, permettevano di scegliere i componenti del proprio party come lo si poteva fare a Final Fantasy, più o meno.

Eppure, già prendendo questi due titoli come esempio, è possibile tracciare una prima netta linea di demarcazione: nei diversi Baldur’s Gate (ma anche negli Elder Scroll o nei più recenti Divinity Original Sin) il giocatore ha la possibilità di creare il proprio personaggio, si immerge in una narrazione in cui le sue decisioni cambiano il mondo, viene catapultato all’interno di una storia che vive quasi in prima persona. Perché uno dei punti cardine di un buon gdr occidentale è proprio il choice matter: dove ciò non avviene, manca sempre qualcosa.

Con i JRPG, la distanza tra il giocatore e i personaggi è invece molto più netta. Non siamo noi a creare Cloud, Squall o Tidus (sempre facendo riferimento ai Final Fantasy): è vero, avremo il controllo dei loro movimenti nel mondo e nei combattimenti, ma non avremo diritto di interferire con le loro scelte o con il loro essere: saremo relegati ad un ruolo di spettatori di una storia che non è la nostra, ma a cui assisteremo arrivando a volte anche ad affezionarci ai personaggi che ne sono parte, cosa che accade molto più difficilmente nei titoli dei giochi di ruolo occidentali.

Ed è forse questa la più grande differenza tra i due generi: da una parte siamo attori, dall’altra spettatori. Da una parte interagiamo con il mondo al punto di sentirci parte integrante di esso, dall’altro ci godiamo una narrazione in cui non siamo inclusi, ma va bene così, è la loro storia.

Unicità

Che ogni buon titolo GDR debba raccontare una buona storia, a prescindere da dove sia stato realizzato, se in Europa, in America o Giappone, è una delle basi del genere. Ma ciò non basta: una buona storia senza un sistema di combattimento innovativo difficilmente è in grado di interessare il grande pubblico.

Quando si parla di JRPG, tutto ciò viene però portato all’estremo, dove a fianco dell’attenzione maniacale alle storie, forti anche delle influenze di manga e anime che ben si sposano con il genere videoludico, si passa alla nota ricerca della complessità dei combattimenti, che molte volte chiedono un minimo di studio affinché si possano affrontare le sfide più complesse offerte dal gioco (che spesso sono opzionali).

Partiamo dalle basi: a parte qualche “romantico” che ancora resiste, il genere JRPG negli anni è passato da uno stile di combattimenti a turni all’action.

L’esempio più lampante è la contrapposizione tra Final Fantasy VII e il suo Remake: oltre ai cambiamenti nella storia, è stato impensabile per Square-Enix proporre una sola rivisitazione grafica del gioco: c’era bisogno di renderlo attuale e, senza entrare sulla diatriba relativa anche alle differenze sulla storia, la scelta più azzeccata è stata puntare sulla dinamicità dei combattimenti, mantenendo però elementi imprescindibili del JRPG, quali mosse finali, magie e altro ancora.

Col passare del tempo, i JRPG sono diventati molto più complessi di quanto non lo fossero già e anche questo cambiamento rientra nel concetto di voler produrre titoli sempre più innovativi e differenti l’uno dall’altro.

Dalle famose Junction di Final Fantasy VIII (che oggi capirle è semplicissimo, ma ricordo quando ci giocavo ai tempi delle medie, per poi scoprire come funzionavano solo al CD 3) agli ultimi titoli come Xenoblade Chronicles 3 o Tales of Arise (di quest’ultimo, ancora oggi non ho capito bene come funzionano le combo), ogni titolo ha sempre voluto proporre uno stile unico che, come si è detto, a volte convince e altre no, ma chi produce sembra non contemplare l’opzione di pubblicare qualcosa di già visto, anche se in passato ha catturato l’attenzione di molti.

“È così che funziona il mercato”, verrebbe da dire, ma non è proprio così: si guardi per esempio a Divinity Original Sin 1 e 2, dove ovviamente il secondo capitolo propone una nuova grafica, nuove abilità e un nuovo sistema di progressione, mantenendo però alcune meccaniche del primo senza cambiarle di una virgola, come la possibilità di interagire con l’ambiente circostante durante il combattimento. Il ragionamento è semplice: ha funzionato nel primo capitolo, perciò lo si ripropone allo stesso identico modo anche nel secondo (e perché no, anche in Baldur’s Gate 3).

Oppure si guardi ai giochi Bethesda, dove Skyrim e Fallout, giochi completamente diversi per ambientazione, che però, fatte le dovute eccezioni, condividevano lo stesso menu e lo stesso stile di combattimento (e alcune analogie sono rintracciabili persino nel recente Starfield).

Ecco, tutto ciò è vietato nei JRPG. Non può esistere un Final Fantasy che sia anche lontanamente simile al precedente, per storia o meccaniche di combattimento, e lo stesso accade per gli Xenoblade Chronicles o i Dragon Quest, quest’ultimo tra gli unici titoli che ancora resistono al romanticismo del combattimento a turni ma che nonostante ciò riesce ancora a rinnovarsi.

Alla fine: che cos’è un JRPG?

Per definire cosa sia un JRPG, bisogna dunque tenere conto di due fattori: una narrazione che deve tenere incollati allo schermo e uno stile di gioco unico, che permetta a chi non vuole applicarsi di concludere la storia, ma che proponga anche una serie di sfide opzionali estremamente complesse che solo chi ha voglia di studiarsi build e combo può riuscire a concludere con successo (in perfetto stile di gioco nipponico).

I JRPG sono storie, personaggi di spessore, colpi di scena e a volte anche lacrime, ma sono anche combattimenti mozzafiato, magie, luci, laser, mostri giganti, evocazioni e a volte anche enormi robot. Possono essere semplicità e complessità allo stesso tempo, ma soprattutto devono essere unici, sia rispetto ai loro cugini occidentali, sia rispetto ai titoli della stessa categoria.