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7 giochi post-apocalittici da provare se ami Fallout

La serie di Fallout? Strepitosa, punto. Il prodotto ideato da Geneva Robertson-Dworet e Graham Wagner, in onda su Prime Video ha conquistato tutti, sia i fan di sempre, sia chi, del famoso titolo Bethesda, non aveva mai sentito parlare. Un lavoro ben fatto, con una storia solida, un budget importante, fotografia e regia impeccabili. Insomma, una serie che, sulla falsa riga di The Last of Us, ha ribaltato il paradigma secondo cui le trasposizioni dei videogame su piccolo e grande schermo siano solo trovate commerciali di facciata, senza contenuti.

Ovviamente, con il grande successo riscosso dalla serie, i titoli di Fallout stanno vivendo una seconda giovinezza: tutti i capitoli, in particolare Fallout 4, Fallout New Vegas e Fallout 3, hanno registrato un massiccio ritorno di vecchi giocatori, oltre che l’arrivo di nuovi. Inoltre, Bethesda ha promesso a tutti i fan un upgrade next-gen dell’ultimo capitolo, Fallout 4, in uscita il 25 aprile. Mancano ancora pochi giorni, dunque, ma a cosa si potrebbe giocare intanto, sempre rispettando il flavour di Fallout? Ecco quindi i sette migliori giochi post-apocalittici da provare se ami le atmosfere di Fallout.

7. Mad Max

Mad Max - giochi post-apocalittici

Azione, combattimento tra veicoli e lande desolate in cui la legge, ormai, non esiste più. Per quei pochi amanti del genere che non l’avessero provato, Mad Max è un titolo che deve essere recuperato. Vestiremo i pani di Mad Max, un sopravvissuto e a suo malgrado eroe, alla ricerca di un po’ di pace in un mondo fatto di follia e violenze. In questo open world del 2015 disponibile per PlayStation 4, Xbox One e PC, le auto sono la chiave della sopravvivenza, per inseguire o fuggire da bande di sciacalli che vogliono dettare le regole nelle terre deolate.

6. Atom RPG

Atom RPG, titolo indie della Atom Team, è un gioco capace di regalare molto, soprattutto per la sua grande capacità di far immergere il giocatore nel proprio avatar, che una volta creato (sia nel background che nelle statistiche e nelle abilità) dovrà esplorare un vasto mondo ispirato ai classici giochi di ruolo post-apocalittici, quali Fallout, Wasteland, Deus Ex. Un videogioco del 2018, disponibile per tutte le console e PC, con visuale isometrica e in cui le nostre scelte hanno sempre un peso specifico. Il turn combat system si alterna a momenti di esplorazione e dialoghi con più opzioni di risposta: insomma, per molti ilsuccessore spirituale dei primi Fallout. Il tutto ambientato non in America, bensì in un’Unione Sovietica post-atomica.

5. Frostpunk

Frostpunk - giochi post-apocalittici

Frostpunk, uno dei titoli più acclamati sia dai cultori dei giochi post-apocalittici che dai fan di strategia e city builder, è attualmente tornato alla ribalta anche per un altro motivo, ossia l’imminente uscita del secondo capitolo. Intanto, il consiglio spassionato è quello di recuperare questo gioiello, dove vestiremo i panni del leader dell’ultima città al mondo e in cui ci troveremo a dover fare scelte importanti per garantire la sopravvivenza della nostra gente alle invivibili temperature causate da una nuova era glaciale.

Frostpunk è disponibile per PC e per console su PlayStation e Xbox con una versione giocabilissima anche con un joypad.

4. Mutant Year Zero: Road to Eden

Cos’hanno in comune un facocero e un’anatra antropomorfi e un’umana mutante? Sono i protagonisti di Mutant Year Zero: Road to Eden, titolo uscito su tutte le console e PC, e sfornato dagli ex progettiti di Hitman e dal co-creatore di PayDay. Un gioco di avventura strategico, con sistema di combattimento a turni di X-COM, una modalità stealth in tempo reale e l’esplorazione di un mondo post-umano e rivendicato dai mutanti. Tra cambiamenti climatici estremi, crisi economiche e pandemie letali, il mondo ha incontrato la sua fine. La natura si riapproria delle città in rovina, gli umai sono spariti e arovistare tra i resti della civiltà restano i mutanti.

3. Encased

Encased - giochi post-apocalittici

Ecnased non rientra solamente tra i giochi post-apocalittici, bensì in un mix tra quest’ultimo e lo sci-fi: si tratta di un videogioco di ruolo tattico e fantascientifico, ambientato in uno scenario distopico in cui il nostro personaggio e potenziali alleati, dovranno scoprire i misteri che si celano dietro la “Cupola”. Dai combattimenti (a turni) all’esplorazione, passando per un sistema di cinque fazioni, ognuna con le proprie caratteristiche, meccaniche e opzioni di gioco, a cui potremo unirci o dichiarare guerra. Oppure, più semplicemente, potremmo scegliere di avventurarci in questo difficile (e grandissimo) mondo in autonomia, senza affiliarci. Ah, ovviamente: le scelte contano.

Encased è disponibile su PC, Xbox One, PS4 e Nintendo Switch.

2. Metro Exodus

Con Metro Exodus si torna in Russia, questa volta a Mosca per la precisione, in cui il nostro personaggio sarà impegnato in una rocambolesca fuga dalle rovine della metropolitana per intraprendere un viaggio lungo l’intero continente. Inutile dirlo: la civilità è stata spazzata via e tutto ciò che ci circonda sono macerie, abitate da pochi sopravvissuti (come noi) con cui potremmo interagire, nel bene o nel male. Si tratta di uno sparatutto in prima persona che si mescola con il sandbox, dove potremmo viaggiare tra enormi mappe costruite su livelli non lineari.

1. Wasteland 3

Terzo capitolo della saga, Wasteland 3 vi catapulterà al comando di un team di Desert Ranger, in un mondo post-apocalittico, in pieno stile Fallout, dove bande di predoni si contendono ciò che resta di quello che una volta fu il Colorado, mentre i fedeli alla bandiera tentano (con modi discutibili) di ricostruire la civiltà andata perduta. Il flavour è pressoché quello vissuto nei titoli di Bethesda, con ampi spazi desolati, bestie mutate e pochi e spesso pericolosi insediamenti, officine fuori uso, laboratori scientifici abbandonati. Quello che cambia è il gameplay: Si tratta di un GDR con composizione di una squadra e combattimenti a turni in stile Baldur’s Gate 3, ma in cui la componente sociale è impattante: infatti, come ogni buon Western RPG che si rispetti, ogni scelta conta ai fini di plasmare il mondo che ci circonda.

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Dragon’s Dogma II non convince: che cosa non ha funzionato

Dragon’s Dogma II: amore o odio? Era da un po’ che non si vedeva un titolo capace di dividere così nettamente i videogiocatori, che negli ultimi anni (nella maggior parte dei casi e in merito ai titoli più attesi) hanno sempre fatto fronte comune. Starfield? Bocciato. Baldur’s Gate III? Un successo. Palword? Un lancio che fa “giurisprudenza”. Giudizi quasi sempre unanimi, che hanno tracciato una linea netta e che rappresentano il termometro di ciò che l’utente si aspetta da un videogioco: titoli pagati il giusto e che una volta acquistati siano in grado di offrire il 100% delle loro potenzialità, senza dover contare su DLC o ricorrere a microtransazioni. Poi arriva Dragon’s Dogma II e qualcosa si rompe. Il gioco d’azione uscito lo scorso 22 marzo per Playstation 5, Xbox sere X/S e PC ha indubbiamente portato qualcosa di bello (dire “nuovo” sarebbe troppo), ma incorniciato in una serie di errori, sia tecnici che strategici, che fanno storcere la bocca. Scopriamo quali.

Partiamo dal fatto che Dragon’s Dogma II funziona per molte cose: i combat sono divertenti, il mondo è vasto e le aree da scoprire senza che nessuno ci indichi la via sono interessanti. Per questo, in tanti difendono il titolo da chi lo accusa di essere il solito lancio sbagliato e soprattutto irrispettoso nei confronti degli utenti, per qualità grafiche e per l’ormai noto caso relativo alle microtransazioni comparse a due giorni dal lancio. Così, la pioggia di recensioni negative arrivate in massa ancora prima che si potesse premere play, sono state compensate da altrettante recensioni positive e successive, tanto che il titolo è passato da essere valutato su Steam da “Perlopiù negativo” a “Nella media” nel giro di una notte. Un chiaro segnale che il pubblico si è diviso tra chi lo ha apprezzato e chi, forse anche per pregiudizio, lo ha bocciato. Ma cosa c’è che non va in Dragon’s Dogma II?

Il mostro delle microtransazioni

Togliamoci subito il dente: veder comparire alla vigilia del lancio una nutrita serie di DLC da 0,99 centesimi fino ad un massimo 5 euro è stato un colpo basso. Niente di così inaspettato, verrebbe da dire, visto che Capcom non è affatto nuova ai contenuti aggiuntivi a pagamento: lo ha fatto con i vari Monster Hunter, dove offriva una lunghissima serie di cosmetic a pochi centesimi l’uno, per esempio. Il problema, però, è che in questo caso non stiamo parlando di skin per armature o armi: i DLC offrono features che i giocatori si aspetterebbero di trovare solo e soltanto in game.

Invece, oggetti come i set da campeggio per riposare all’aperto, o i Cuori di Drago per riportare in vita i caduti, così come i Cristalli della Faglia utili per ingaggiare npc che ci accompagneranno nella nostra avventura, possono essere acquisiti in due modi: aprendo il portafogli in real life oppure investendo diverso tempo nel farming, visto che la loro rarità o il loro costo in monete d’oro è veramente, ma veramente alto. Mettere a pagamento con soldi reali una serie di oggetti che con fatica possono essere ottenuti o acquistati in game, non fa molto bene all’immagine del titolo, soprattutto se si tratta di uno degli rpg più attesi dell’anno. Ma bisogna essere onesti: questo non è il più grande problema di Dragon’s Dogma II, anche perché il titolo è ovviamente giocabile anche senza spendere nulla in Dlc. Ci vorrà più tempo per farmare, ma alla fine stiamo parlando di un single player: con chi dovremmo competere se non con la nostra voglia di divertirci?

E ora che faccio?

From Software e Larian insegnano: una delle cose più belle degli RPG è lasciare al giocatore la possibilità di scoprire non solo luoghi incantati o terribili dungeon, ma anche come gestire il proprio personaggio e la propria squadra. Tutto vero, ma quando si inseriscono meccaniche complesse e innovative, come quella delle Pedine offerta da Dragon’s Dogma II, forse avere un tutorial più dettagliato sarebbe stato più funzionale.

Nonostante le diverse ore di gioco alle spalle, in molti ancora si chiedono se, congedando una pedina ingaggiata (e pagata fior di Cristalli della Faglia), questa porterà con sé l’equipaggiamento che gli è stato dato mentre era in nostra compagnia. Domanda sicuramente da poco, visto che basta svestire i vari npc degli oggetti di valore prima di congedarli, ma diciamo che una guida più approfondita sulle funzionalità del gioco sarebbe stata cosa gradita. Lo stesso vale per i punti di interesse sulla minimappa, che spesso si sovrastano e le cui icone non vengono ben spiegate. Un po’ caotico, cara Capcom…

Cambiare classe, così svanisce la magia

Premessa: questa critica è puramente personale, ma pensare che il personaggio si dimentichi di come si usa un arco per imparare a brandire uno spadone, soltanto dopo aver parlato con un tizio a cui ho chiesto di cambiare classe, uccide l’immersività. Siamo più specifici. Entrare e viaggiare nel mondo di Dragon’s Dogma II sembra catapultare il giocatore in un nuovo Skyrim, con una pressoché infinita possibilità di esplorazione e una, seppur più limitata, possibilità di interazione con npc e oggetti. Ma è solo apparenza.

Purtroppo, non facciamo in tempo ad immergerci in questo fantastico mondo che Capcom irrompe con forza per ricordarci che il gioco è suo. Il nostro personaggio non può (almeno inizialmente) apprendere qualcosa da ogni classe per poi miscelare quanto imparato in un ibrido; bensì, in base a come vorremo affrontare una determinata parte dell’avventura, dovremmo rivolgerci ad uno specifico npc che ci permetterà di cambiare classe tra quelle conosciute. Facendolo, cambieranno i parametri del personaggio: se per esempio un guerriero decide di cambiare in arciere, di conseguenza diminuisce il peso massimo trasportabile, così come non potrà più indossare le armature e non sarà più in grado di utilizzare altre armi se non l’arco. Insomma, le classi “lockate”, in pieno stile Jrpg (ne avevamo già parlato qui: Cosa sono i JRPG e cosa li contraddistingue dagli RPG occidentali). Certo, chi già ha giocato il primo capitolo sa già cosa aspettarsi, ma per i neofiti la cosa potrebbe disorientare. Per fortuna che a bilanciare il tutto c’è un combat system appagante, che finora sembra essere l’unico aspetto degno di nota.

Quality of life: non pervenuta

Si può pagare 2.000 monete d’oro per una singola notte in locanda, contando che di media ogni goblin “droppa” 200 monete? Una domanda che si lega al tema trattato in precedenza, ossia della mancata immersività nel gioco. Un veterano dei Western RPG si attenderebbe che il locandiere ci chieda pochi spicci per una notte e che fare soldi sia un processo complesso almeno nelle prime fasi di gioco. In Dragon’s Dogma II, invece, tutto sembra estremamente sbilanciato. Il sistema economico del gioco (quello della locanda era un esempio) è tarato sullo stile del farming intensivo, in pieno stile Japan rpg, anziché sull’immersività e del choice matters dei western rpg.

Il risultato è che il giocatore non si sente coinvolto nella storia in prima persona, bensì abbia i controlli dei movimenti di un personaggio, restando però spettatore e non protagonista della storia. Lo stesso accade quando apriamo i vari forzieri in gioco: è mai possibile che un mercante non urli “al ladro”, dopo che abbiamo aperto lo scrigno che custodiva nel retrobottega, proprio sotto ai suoi occhi? E perché non possiamo altresì sgraffignare quelle belle armi che sono esposte? Domande che lasciano il tempo che trovano, che però sono alla base della grande distanza che esiste tra il mondo di gioco e il giocatore.

E la grafica…

Questa è la parte meno divertente da scrivere, per uno che ha sempre messo la storia e la giocabilità al di sopra della grafica. Ma anche l’occhio vuole la sua parte e persino chi è meno pretenzioso (come me), soffre nel vedere il calo di frame all’ingresso di grandi città, per dirne una. Il comparto grafico di Dragon’s Dogma II, tutt’altro che ottimizzato, è un altro neo che ha lasciato l’amaro in bocca a tantissimi giocatori. Nulla a che vedere con i problemi avuti da Cyberpunk 2077 al day one, ma sembra che errori di quel tipo non abbiano insegnato nulla. Anzi, si continua a far uscire titoli zoppicanti, incuranti del fatto che, ormai è chiaro, i videogiocatori hanno delle aspettative e delle pretese molto alte e che, al giusto prezzo, devono essere soddisfatte, soprattutto se si creano delle aspettative intorno al titolo in uscita.

Conclusione

Quindi, cosa dire di Dragon’s Dogma II? In fin dei conti è un titolo godibile che, al netto del calo di prestazioni in game, regala anche un’esperienza videoludica appagante, ma che non è né un GDR, né un JRPG. Insomma, nulla che ci porteremo nel cuore negli anni a venire. A questo bisogna aggiungere anche le discutibili strategie di Capcom, che con la mossa delle microtransazioni a sorpresa ha veramente acceso gli animi degli utenti: il risultato è stata la valanga di commenti negativi che hanno fatto cattiva pubblicità al prodotto finale.

Giudizio finale: poteva essere una piccola rivoluzione capace di unire il western e il japan rpg, ma alla fine è un “fritto misto”, buono per chi ha poche pretese, da bocciare per chi si aspetta giochi capaci di regalare sfide ed emozioni indimenticabili.

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Lorcana, il Trading Card Game firmato Disney ora in italiano

E’ finalmente arrivata la localizzazione in lingua italiana di Disney Lorcana, il gioco di carte collezionabili (Tcg) che catapulta i giocatori nello straordinario mondo di Lorcana, dove gli sfidanti vestiranno i panni degli “Illuminatori” pronti ad evocare la propria squadra di personaggi Disney (i cosiddetti Glimmers).

Il lancio della versione in lingua italiana del gioco si è tenuto lo scorso 8 marzo, presso il Fao Schwarz di Milano e per l’occasione sono state illustrate le oltre 200 carte realizzate, contenute in booster, gift set e starter deck.

Un’offerta ampia quella proposta dalla Disney e operata da Ravensburger, che si propone come un gioco “progettato per essere facile da imparare per i neofiti del Tcg, pur offrendo una profondità strategica per i giocatori più esperti”. Il tutto corredato da centinaia di illustrazioni, categoricamente originali Disney, che strizzano l’occhio non soltanto agli amanti del Trading Card Game, ma anche ai collezionisti.

Attualmente, Disney Lorcana Tcg ha già lanciato ben due set, ossia The First Chapter e Rise of the Floodborn e ora, con il set numero tre, Nelle Terre d’Inchiostro, segna il lancio ufficiale della localizzazione in lingua italiana.

La storia

Il primo capitolo di Lorcana porta giocatori e collezionisti nel Grande Illuminarum, un set che propone personaggi iconici Disney, alcuni familiari e altri “fantasticamente reinventati”, con cui si potranno scoprire i segreti nascosti del magico mondo creato ad hoc per questo Tcg.

“Gli Illuminatori usano sei inchiostri magici per evocare i glimmers dei personaggi Disney – si legge nel sito ufficiale di Disney Lorcana – Impara cosa differenzia i vari inchiostri tra loro e come questi influiscono sui glimmers di Lorcana. Nessun inchiostro è naturalmente buono o cattivo, e sia gli eroi che i cattivi possono essere rappresentati in tutti e sei gli inchiostri. Seleziona gli inchiostri per scoprire di più sulle loro caratteristiche”.

Il secondo capitolo, invece, racconta la storia de “Il Ruggito del Fiume d’Inchiostro”, che aggiunge già una novità al gioco, ossia i “Glimmers Imbevuti”, versioni alternative degli eroi potenziati dagli inchiostri: “Quando una violenta esplosione squassò il Grande Illuminarium, fece tremare le vicine piattaforme d’inchiostratura e inondò i corridoi con una marea di inchiostro magico, mescolato e instabile – prosegue la nota ufficiale – Questo caotico inchiostro travolse i glimmers che si stavano facendo i fatti propri, mutando senza distinzioni glimmers classici e immaginati”.

Infine, il terzo capitolo, “Nelle Terre d’Inchiostro”, racconta della marea che ha sparpagliato la leggenda in tutte le Terre d’Inchiostro e che deve essere assolutamente riportata nella Sala di Lorcana. Ovviamente, l’arduo compito spetta ai giocatori!

Come si gioca

Le regole del gioco sono veramente semplici (per la guida introduttiva gratuita, questo è il link CLICCA QUI): durante una partita, il giocatore deve riuscire ad individuare parti di leggenda sparse lungo Lorcana, raccoglierle e custodirle.

Per farlo, si potranno evocare i Glimmers di personaggi e oggetti Disney, che saranno tanto validi aiutanti del giocatore quanto ostacoli da superare per gli avversari. L’obiettivo è raggiungere per primi 20 o più punti leggenda, mandando i propri Glimmers all’avventura o giocando carte ad hoc per aumentare la propria riserva.

Oltre ai Personaggi, i mazzi saranno composti anche da carte Oggetto e Azioni: le prime conferiscono abilità speciali durante la partita; le seconde forniscono vantaggi immediati per poi essere scartate.

Ogni carta possiede un costo (ossia quanto “inchiostro” bisogna prelevare dalla propria riserva per giocarla), statistiche, effetti e può appartenere ad uno dei sei “colori” (ambra, smeraldo, zaffiro, ametista, rubino ed acciaio). I Glimmers personaggi, inoltre, dispongono anche di statistiche quali Forza (quanti danni infligge in una sfida), Volontà (quanti danni può sopportare prima di essere esiliato) e Valore di Leggenda (quanti punti leggenda si ottengono quando il personaggio va all’avventura).

Dove trovare le carte

I prodotti di Disney Lorcana, ossia starter decks, bustine, set regalo, boosters e accessori utili al gioco, possono essere trovati sul sito shopDisney oltre che presso i rivenditori di massa.

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Giochi Survival: il meglio e più attesi del 2024

Il 2024 è l’anno dei giochi Survival. Tra titoli già pubblicati e altri pronti per essere lanciati, i fan del genere già pregustano una stagione ricca di scelta, anche se resta sempre qualche dubbio: cosa ci attende veramente? E varrà la pena giocarci?

Una domanda tutt’altro che scontata, per un genere i cui titoli sono spesso figli di piccole case, a volte indipendenti, pronte a regalare elementi di novità molto interessanti, ma che spesso non riescono a proporre altro che un singolo aspetto innovativo, a discapito di contenuti strutturati, longevità e il continuo sviluppo del titolo.

D’altronde, quando si parla di Survival Game si parte sempre un po’ prevenuti, non tanto per pregiudizi, quanto per esperienza: in quanti, negli ultimi anni, hanno atteso con ansia titoli che alla fine si sono rivelati veri e propri flop?

Quest’anno le cose potrebbero cambiare, almeno per un motivo: il grande numero di videogiochi Survival in pubblicazione (o già pubblicati), che sono il termometro di una maggiore attenzione del comparto videoludico nei confronti del genere e degli utenti. La speranza, ora, è che alla quantità si affianchi anche la qualità.

Il meglio del 2024

Guardando ai titoli usciti soltanto nei primi due mesi di quest’anno, bisogna ammettere che i sentimenti sono alquanto contrastanti. Iniziamo da Palworld, che più che un gioco ha rappresentato un vero e proprio fenomeno, capace di vendere 15 milioni di copie in pochissimi giorni, circa un milione ogni 24 ore. Ecco, in questo caso, però, il numero di copie vendute non è strettamente legato al numero di giocatori attivi: a metà febbraio il titolo ha perso circa il 66% dei giocatori attivi.

Questo trend può essere letto in diversi modi, ma ce n’è uno che sicuramente è più accreditato di tutti: Palworld, al netto di tutte le polemiche relative ai presunti “plagi”, è riuscito a dare a tutti quei giocatori, soprattutto ai più affezionati dei titoli Pokémon, quello che da troppo tempo gli stessi richiedevano alla Game Freak! senza però essere ascoltati.

Eppure, una volta sperimentato l’open world, la cattura dei Pal in tempo reale, la libertà di movimento in grandi aree e il base building, il gioco non sembra avere più molto da offrire. Ricordiamo però che il titolo è ancora in early access. Vedremo come andrà in futuro.

Giochi Survival 2024: Enshrouded

Un altro titolo che è riuscito a fare breccia nel cuore degli amanti del Survival, seppur con numeri inferiori rispetto a Palworld, è Enshrouded.

Due milioni di copie vendute per l’RPG Fantasy, che oltre al crafting e al base building tipico del genere ci permette di sviluppare il nostro personaggio con uno skill tree interessante, così da poterlo sviluppare come guerriero, barbaro, mago, guaritore, arciere, assassino e altro ancora (o volendo un po’ di tutto).

È questo il vero cuore del titolo di Keen Games che, ammettiamolo, ha fatto davvero un bel lavoro anche nel realizzare biomi tra loro molto diversi, sfide interessanti a livello di combat (che ricordano lontanamente un soulslike) e la possibilità di sviluppare le abilità del nostro personaggio. Un gioco estremamente soddisfacente per essere un early access, ma che necessita di essere arricchito (e molto) se l’obiettivo è quello di durare nel tempo.

Uno degli ultimi titoli già pubblicati in questo 2024 ricco di giochi Survival è Nightingale, un titolo di sopravvivenza in stile vittoriano che strizza l’occhio alle ambientazioni steampunk.

Il gioco si distingue in quanto ci fornisce la possibilità di viaggiare tra diversi reami tramite dei portali, che ci catapulteranno in terre diverse tra loro, per biomi, creature ed Npc. Anche questo è un gioco in early access, disponibile dallo scorso 20 febbraio: è troppo presto per dare un giudizio, ma ci torneremo.

Lo stesso discorso vale per Pacific Drive, uscito lo scorso 22 febbraio (ma non in early access).

Il titolo già gode di recensioni molto positive su Steam, soprattutto per aver rivisitato il classico paradigma del survival: in questo caso non dovremmo costruire una base, bensì avremo bisogno di procacciare risorse da caricare sulla nostra station wagon (modificabile), utili per sopravvivere nel nostro viaggio verso la salvezza.

L’auto sarà l’unico mezzo che avremo per fuggire alle avversità di un mondo ormai al collasso.

Cosa ci attende?

Insomma, dopo un 2023 deludente, in cui il genere Survival è stato caratterizzato da pochi titoli, alcuni dei quali si sono rivelati clamorosi flop (The Day Before sicuramente vi ricorderà qualcosa), questo 2024 ci dà una certezza: ci saranno molti titoli da provare. Ma cosa ci attende?

The Alters

Partiamo da The Alters, gioco che ci promette di farci immergere in un mondo sci-fi, che mette insieme avventura, sopravvivenza e base-building.

Vestiremo i panni di Jan Dolski, un lavoratore capace di creare versioni alternative di se stesso, con cui collaborerà nel disperato tentativo di fuggire da un pianeta dove persino i raggi del sole sono mortali. Ovviamente, i suoi alter ego non saranno meri cloni: ognuno di loro possiederà differenti tratti e background.

Tutti questi Jan Dolski convivranno nella stessa base, una ruota gigante in continuo viaggio lungo il pianeta per evitare i raggi del sole. Data di pubblicazione: TBA, 2024.

Once Human

Giochi Survival 2024: Once Human

Passiamo poi ad un multiplayer, open-world survival: si tratta di Once Human, atteso per il Q3 del 2024. Il gioco vuole catapultarci in uno strano futuro post apocalittico, dove potremmo unirci ai nostri amici per combattere nemici mostruosi, scoprire complotti segreti, competere per ottenere risorse vitali e soprattutto costruire la nostra base. Siete pronti a ricostruire il mondo?

Light No Fire

Si arriva poi a Light No Fire, gioco di avventura, costruzione, sopravvivenza, costruzione e multiplayer… insomma, una ricetta classica che indossa vesti fantasy, ma che ci fa una promessa: il pianeta in cui i personaggi metteranno piede sarà grande quanto la Terra, quella vera.

Un gioco ambizioso, che già ci fa presagire un’incredibile vastità di ambienti, biomi, creature e segreti, ma che al contempo ci lascia con una domanda: la Hello Games sarà in grado di rendere questo spazio immenso ricco di contenuti? Lo scopriremo al lancio del gioco, la cui data è ancora da annunciare.

ARK 2

Giochi Survival 2024: ARK 2

C’è ancora un titolo di cui è obbligatorio parlare, prima di chiudere questa lista dei giochi che, secondo noi, rappresentano al momento i titoli più rappresentativi del genere attesi per il 2024. Si tratta di ARK 2, il sequel del survival game per eccellenza.

Il primo capitolo, che piaccia o meno, ancora oggi tiene incollati allo schermo migliaia di amanti del genere, in controtendenza con il trend tipico dei survival, che solitamente si spengono velocemente.

Atteso per la fine del 2024 (e se la storia insegna, questo significa che probabilmente bisognerà attendere il 2025), Ark 2 si configura come una versione migliore del suo predecessore, sia per contenuti che per grafica, ma come si dice: provare per credere, quindi ci toccherà aspettare. Ah, c’è anche Vin Diesel.

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Che cos’è Palworld e perché ha scosso il mercato videoludico

Giaceva nella mia wishlist di Steam da almeno un paio d’anni, sicuro che una volta uscito lo avremmo giocato in pochissimi. “Alla fine sono Pokémon con i mitra nel mondo di Ark, sarà divertente ma non prenderà mai piede”, dicevo. Meno male che l’ho tenuto per me, perché le cose non sono andate esattamente in questo modo.

Stiamo parlando di Palworld, il titolo che, in quasi totale assenza di hype pre lancio, è diventato il fenomeno del momento. Uscito il 19 gennaio per Pc e Xbox, il gioco ha già venduto sette milioni di copie, raggiungendo un picco di quasi 1,6 milioni di giocatori attivi contemporaneamente.

Numeri da capogiro per un titolo su cui non c’è stata quella grande attesa tipica di altri grandi giochi che poi, a volte, non riescono neanche a soddisfare le aspettative.

Invece Palworld ha colto nel segno: milioni di videogiocatori sono impazziti, ne parlano ovunque, riempono i social di clip esilaranti, passano ore e ore ad esplorare, catturare mostriciattoli e a costruire basi.

Allo stesso tempo Palworld è visto da altri come scomodo, soprattutto da gran parte della community di Pokémon, per l’eccessiva somiglianza tra i “Pocket Monsters” e i cosiddetti Pal, ossia le creature che vedremo gironzolare per la mappa del titolo di Pocket Pair e che potremmo catturare, sfruttare in combattimento, utilizzare nella nostra base per contribuire al suo sviluppo, o anche solo coccolare (o usare come munizioni per un lanciamissili, fate voi…). Ma affrontiamo una cosa per volta.

Che cos’è Palworld

Palworld è un open world, che permette di vivere un’esperienza sia single player che multiplayer, insieme a pochi amici scelti oppure in server che possono ospitare fino a 32 giocatori attivi contemporaneamente. Le formule che il titolo propone sono principalmente due, entrambe tutt’altro che nuove, ma il cui connubio dà vita ad un gioco che riesce a tenere incollati allo schermo per ore.

La prima componente è quella survival, il cui emblema è sicuramente Ark, ma la cui ricetta è stata riproposta da svariati giochi, più o meno riusciti.

Il nostro personaggio, anche in questo caso si sveglierà su un’isola di cui sappiamo poco e nulla. Senza soldi né equipaggiamento, la nostra avventura inizierà raccogliendo legno e pietra sparsi per terra, utili per costruire il nostro primo banco da lavoro, che ci permetterà di realizzare un’ascia per tagliare la legna e un piccone per estrarre pietra e altri minerali.

Con questi otterremo materiali per la nostra prima casa, oltre che punti esperienza per salire di livello e sviluppare nuove tecnologie, con cui potremo imparare nuove ricette e costruzioni. Così, dall’età della pietra, riusciremo ad arrivare a costruire vere e proprie basi e industrie, il cui ultimo step sarà forgiare armature resistenti, armi da fuoco, proiettili ma anche medicine, strutture per cucinare cibo che coltiveremo in prima persona e così via.

E poi arrivano i Pal

Gestire una base in solitaria è difficile, se non impossibile, ma come già detto non siamo soli, neanche se decidiamo di giocare in single player.

Ad aiutarci ci sono i Pal, creature uniche che possiamo catturare utilizzando la nostra Sfera Pal (chissà perché ricorda la sfera Poké…). Ogni specie di Pal è diversa per elemento, capacità speciali e tipologia di attacchi e difese. Ma i Pal non differiscono tra loro solo per la loro utilità in combattimento: alcuni potrebbero risultare inutili sul campo di battaglia, ma delle vere e proprie star nel contribuire allo sviluppo della nostra base.

Ci sono Pal che possono eseguire lavori manuali e quindi costruire strutture, altri capaci di irrigare i campi, i quali verranno seminati da altri Pal dotati dell’apposità abilità, così come ci sono specie che potranno utilizzare l’elemento fuoco per mantenere in funzione fornaci, mentre alcuni non faranno altro che produrre lana, uova, miele ed altro.

E non finisce qui: oltre al combattimento e alla gestione della base, alcuni Pal possono essere più utili di altri per l’esplorazione. Ci sono Pal che possono essere cavalcati per volare, altri che ci permetteranno di fare luce nelle grotte più buie, altri capaci di nuotare e di trainarci nelle isole più lontane, altrimenti inaccessibili.

La componente survival

Come ogni survival che si rispetti, durante la nostra avventura bisognerà tenere conto di molti aspetti, primi tra tutti la fame e le temperature. Per farlo, bisognerà riuscire a produrre abbastanza cibo da sostentare tanto il personaggio quanto i singoli Pal, trovare risorse utili per progredire e soprattutto resistere agli assedi che, periodicamente, minacceranno la nostra base, tra mostriciattoli arrabbiati, contrabbandieri o addirittura membri dell’ente per la protezione dei Pal.

Capire dove costruire la propria base e avviare una catena di montaggio efficiente sarà perciò più che necessario.

Questo processo sarà accompagnato dalla crescita del nostro personaggio: infatti, salendo di livello, oltre ad aumentare statistiche quali attacco, resistenza, velocità di costruzione e peso trasportato, possiamo investire punti tecnologia per sbloccare ricette di nuove strutture, armi, utensili e così via. Alcuni di questi blueprint saranno visibili sin da subito. Altri, invece, potranno essere sbloccati soltanto a seguito della cattura di un determinato Pal.

Quest’ultimo caso riguarda soprattutto le selle per cavalcare il rispettivo Pal, o altri oggetti che ci permetteranno di utilizzare le abilità nascoste dei nostri mostriciattoli: simpatiche volpine di fuoco possono diventare dei lanciafiamme controllati dal personaggio, teneri pinguini si trasformano in missili da utilizzare con il nostro Rpg e chi più ne ha, più ne metta.

Un gioco controverso

È inutile girarci intorno: dietro la realizzazione di ogni singolo Pal c’è stata sicuramente la volontà, da parte degli sviluppatori, di ironizzare sul mondo dei Pokémon. Dei 110 Pal, almeno la metà è la copia spudorata di qualche Pokémon e gli altri, sebbene qualche piccola differenza, ne ricordano altri. Questo riferimento ironico ai Pocket monsters più famosi del mondo si fa più forte guardando ai nomi che sono stati dati ad alcune specie.

Ci sono il papero “Fuack”, il piccolo “Depresso”, la sempre arrabbiata “Cattiva”, la mucca “Mozzarina”, l’ape regina “Elizabee” o il dinosauro dormiglione “Relaxaurus”. Questi sono soltanto alcuni esempi che portano a chiedersi quanto gli sviluppatori di Pocket Pair abbiano preso sul serio la realizzazione di questo titolo e se si aspettassero un successo di questo calibro.

Come già accennato, oltre alle gioie ci sono anche i dolori: al netto delle ormai note accuse di plagio, in tanti hanno ipotizzato che i vari Pal siano stati realizzati grazie alle IA, soprattutto per l’impossibilità di ottenere in maniera casuale e su più modelli le stesse proporzioni di personaggi e creature di un altro gioco (Pokémon, ovviamente), cosa che avviene in Palworld.

Per ora le accuse restano aleatorie e l’unica azione reale intrapresa da Nintendo riguarda una mod sviluppata da un creator, che permette di trasformare i Pal nei Pokémon a cui sono ispirati e il nostro personaggio in Ash Ketchum, storico protagonista della serie. La mod, ovviamente, ha avuto vita molto breve.

Un Mossanda Lux è stato catturato dai bracconieri. Dobbiamo liberarlo

L’early access è un punto di rottura

A questo punto è il caso di fare una riflessione. Palworld è un titolo uscito da pochissimi giorni, ancora in early access e quindi pronto a ricevere una serie di upgrade che, si spera, potranno solo che migliorare il gioco.

Palworld nasce da un team di sviluppatori piccoli, i “Davide” che sfidano i tanti Golia che per anni hanno rappresentato l’oligopolio del mercato videludico, che da qualche tempo inizia a scricchiolare. E quello che sta accadendo questi giorni è sicuramente un segnale: i videogiocatori vogliono prodotti nuovi e freschi, a volte anche a costo di rinunciare ad una grafica performante.

Al netto della componente della violenza e del base building, che non mi sarei mai aspettato di trovare in un Pokémon, giocando a Palworld mi sono chiesto, come mai, dopo l’esperimento uscito di Arceus, la Game Freak e Nintendo non abbiano proseguito per quella strada, realizzando il titolo che tutti aspettavano, un open world innovativo e dinamico, invece di realizzare quel downgrade che sono stati Pokémon Scarlatto e Violetto, che ci ha riportato addirittura ai combattimenti statici e senza animazioni tipiche dei capitoli che hanno preceduto Spada e Scudo.

È arrivato il momento di metterselo in testa: il brand, da solo, non è più abbastanza. Servono idee, serve la novità. Solo il tempo ci dirà quale sarà il futuro di Palworld, ma già adesso possiamo dire con certezza cosa è stato: un punto di rottura, un segnale forte ai big del comparto videoludico, che devono uscire dal letargo e ritirare fuori la creatività e la voglia di realizzare un gioco nuovo e non la solita minestra riscaldata con qualche decorazione.

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Società

I videogiochi fanno male? Intervista allo psicologo Omar Bellanova

Passano gli anni, ma l’equazione non cambia: i videogiochi continuano ad essere considerati come la causa per cui i giovani sviluppano atteggiamenti violenti, mentre altre volte diventano il capro espiatorio per giustificare un basso livello di istruzione e di socialità diffuso, in quanto motivo di distrazione per ragazzi e ragazze dai libri e dalle attività all’aria aperta.

Una serie di luoghi comuni che nel tempo sono stati affermati più e più volte, non dal vicino di casa o dal conoscente al bar: lo hanno detto esponenti della politica, delle istituzioni, della Chiesa e delle associazioni nazionali e internazionali. Chissà se abbiano mai esplorato l’universo videoludico, viene da chiedersi. Anche perché stiamo parlando di un settore che non si riduce alla sola componente dettata dal rapporto diretto tra prodotto e utente, ma di un mondo che numerosi studi hanno confermato essere addirittura positivo per la crescita e lo sviluppo della persona (ovviamente, sempre se l’approccio avviene con criterio).

Poi c’è un’altra questione: ci sono una vagonata di studi scientifici che non solo hanno dimostrato che non è vero che i videogiochi fanno male, ma che addirittura hanno spiegato che l’attività videoludica aumenta le capacità cognitive dell’utente (sempre secondo il già citato utilizzo con criterio). Tutto questo non è bastato, perché i negazionisti esistono anche in un settore che dovrebbe essere divertimento, come per l’appunto quello videoludico.

Per questi motivi, abbiamo bussato alla porta dello studio del dottor Omar Bellanova – psicologo, psicoterapeuta, sessuologo, supervisore e docente, socio della Società Italiana di Terapia Cognitivo Comportamentale e Fondatore del Centro Romano di Psicoterapie Integrate, solo per citare qualche titolo conseguito – per chiedergli se i videogiochi fanno male e sfatare tanti altri luoghi comuni.

Un dibattito senza fine

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Si tratta di una diatriba ormai obsoleta, talmente rarefatta che forse in pochi oggi fanno ancora caso alle accuse lanciate dall’alto spesso senza fondamento. Lo faccio anche io, che mi reputo una persona mentalmente stabile, che condanna ogni forma di violenza e razzismo, ma che accetta il fatto che, quando approcciandosi ad un videogioco, lo sta facendo per la sola voglia di affrontare una sfida, essere spettatore di una storia, alimentare la propria voglia di attività ludica.

Poi è successo che, nei giorni scorsi, scrollando Tik Tok, mi sono imbattuto nel canale di Save a Gamer, il quale ha catturato la mia attenzione con la rubrica “Quelle volte che hanno pensato che i gamer fossero degli idioti”. Una serie di contenuti dove il creator ha voluto sintetizzare, ironicamente, una carrellata di accuse paradossali lanciate negli anni nei confronti dei videogiochi e dei videogiocatori.

C’è per esempio la lettera di una mamma al Corriere della Sera che, nel 2014, parlava di prodotti che “allenano alla violenza e che stavo per regalare a mio figlio” (parlando di GTA V), dove “i ragazzini godevano e ridevano e si compiacevano di aver ucciso una prostituta e di averle anche rubato i soldi, che aveva appena guadagnato con una prestazione sessuale”. Senza contare la storia, raccontata dal Tg4, relativa all’operaio arrestato con l’accusa di terrorismo che si “stava allenando ad attaccare il Louvre con Assassin Creed Unity, solo per citarne due.

E’ nato prima il gamer o il pregiudizio?

Una serie di accuse che, personalmente (e penso di non essere il solo) non posso che considerare infondate, in primo luogo perché sono certo che a lanciarle siano personaggi che di videogiochi non sanno nulla. Allo stesso tempo non riesco a fare a meno di pormi almeno un paio di domande: e se questo mio atteggiarmi a “superiore” nei confronti di tali affermazioni mi stesse allontanando da un problema reale? E se così fosse, i videogiochi hanno almeno qualcosa di buono da regalare agli utenti o sono soltanto un “male”?

La risposta a queste domande non me la darà né chi demonizza i gamer, tantomeno i gamer stessi. La devo cercare nel mezzo, magari da uno che sa cosa sia un videogioco e soprattutto cosa passa nella testa delle persone.

A tu per tu con il dottor Omar Bellanova

Conosco il dottor Bellanova da un po’ di anni e ricordo quella volta che entrai nel suo studio e lo trovai, tra una seduta e l’altra, con lo smartphone in mano mentre giocava a Diablo Immortal.  Volevo dirgli che. quel titolo a cui stava giocando, a mio avviso non è un gran gioco, ma d’altronde quello passava in convento e soprattutto chi sono io per criticare i gusti degli altri?

Riparto quindi da questa immagine, quando decido di irrompere da lui (previo appuntamento, ci mancherebbe) per avere finalmente un punto di vista il più neutrale possibile, ma soprattutto diretto ed umano sulla questione.

Il dottor Omar Bellanova

IlVideogiocatore.it: Dottor Bellanova, ricordo quando l’ho incontrata smartphone in mano giocando a Diablo. Visto che parleremo di videogiochi, ho una curiosità: quanto gioca o ha giocato nella sua vita?

Dott. Bellanova: Non abbastanza. Avrei voluto e vorrei più temo per farlo. Mi piacerebbe farlo di più soprattutto oggi, che sento di possedere la capacità di comprendere l’utilizzo del gioco, che può servire per rilassarmi e per concedermi un momento di evasione consapevole.

IlVideogiocatore.it: Ha già risposto in parte alla domanda che volevo porle: ma i videogiochi, alla fine, fanno male?

Dott. Bellanova: Ovviamente non è il mezzo ad essere positivo o negativo. Come ogni cosa, l’approccio può essere sano o patologico e non mancano occasioni in cui il videogame viene utilizzato quale scappatoia per il ritiro sociale o per sfogare potenziali frustrazioni, ma è chiaro che le cause di tali atteggiamenti non sono da cercare nel prodotto videoludico.

IlVideogiocatore.it: C’è un’intera bibliografia di studi e di ricerche scientifiche che conferma come i videogiochi non siano causa di aggressività e, anzi, aumentino le capacità cognitive. Eppure, ciò non basta: vengono ancora demonizzati quali causa dello sviluppo di atteggiamenti aggressivi e violenti nei giovani. Cosa ne pensa?

Dott. Bellanova: Partirei dalla base: che cos’è la violenza? Parlare di violenza, in psicoterapia, equivale a parlare di copying disfunzionale, ossia di una strategia non molto sana e proficua che viene messa in atto per raggiungere un determinato obiettivo quando mancano basi più sane nella struttura di una personalità. Noi adottiamo costantemente strategie per segnare dei traguardi ed impariamo, nella nostra esistenza, che dobbiamo realizzarci proprio attraverso l’utilizzo di determinate strategie, si spera, sviluppandone di più sane ed adattive possibili. In questo scenario, però il copying è disfunzionale perché può derivare da una personalità non ben strutturata che non ha avuto esperienze sufficientemente buone e positive per evolversi. Quindi quello che avviene è che il copying della violenza è maladattivo, una forma di strategia più bassa, che viene utilizzata in situazioni di difficoltà, quando si è o ci si sente disarmati e non si possiedono strategie più sofisticate ed efficaci per affrontare una situazione. Fatta questa premessa, è ovvio che se si utilizza la violenza come strategia per raggiungere i propri obiettivi, significa che ci sono lacune importanti nel percorso di sviluppo dell’individuo come essere umano. Chi usa la violenza non possiede un’agentività sana e non è sicuramente colpa dei videogiochi. Le cause sono da cercare più in profondità.

IlVideogiocatore.it: Allora mi viene da chiederle: “Cos’è l’attività ludica?

Dott. Bellanova: Quando parliamo di attività ludica facciamo riferimento ad un sistema interpersonale, grazie al quale possiamo sperimentare una vasta serie di esperienze in un contesto sociale e relazionale che ci permettono di sviluppare e raffinare la nostra agency, ossia il nostro potere di intervenire sulla realtà. Giocando posso imparare a sviluppare strategie, compreso il sistema competitivo nelle sessioni multiplayer, così come gli sportivi promuovono quello agonistico. Ma se ci si approccia al contesto del gioco senza una direttiva, senza un “tutorial” da parte di qualcuno che ha a cuore il nostro sviluppo intellettuale ed emotivo, si può arrivare a sperimentare realtà anche negative, tra cui il sadismo.

IlVideogiocatore.it: Quali sono invece gli aspetti positivi del videogioco per l’utente?

Dott. Bellanova: Come ho già accennato prima, con la presenza di una sana educazione, la persona sarà in grado di sperimentare attraverso il videogioco. Viviamo in un’epoca in cui l’utilizzo della realtà virtuale ha un larghissimo campo di intervento: oggi viene utilizzata anche in psicoterapia per affiancare i modelli terapeutici per fobie, ansia e il sostegno alle funzioni cognitive. Insomma, la realtà virtuale ha un’infinità di applicazioni, perché i videogiochi dovrebbero rappresentare un’eccezione? Personalmente ricordo bene quando da giovane giocavo a titoli come Monkey Island e affini: penso mi abbiano aiutato a sviluppare una capacità di problem solving che poi sono riuscito a sfruttare nel corso degli studi, per fare un esempio pratico.

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Editoriali

Cosa sono i JRPG e cosa li contraddistingue dagli RPG occidentali

Quando il Giappone decide di creare qualcosa, non c’è dubbio che lo fa con un unico obiettivo in mente: realizzare qualcosa di innovativo, diverso ed inimitabile. È successo con i manga, che non sono proprio fumetti, e lo stesso con gli anima, che chiamarli cartoni animati è riduttivo.

Succede anche con il cinema, o con la musica: nel Paese del Sol Levante ogni prodotto dell’industria culturale deve essere qualcosa di unico, che anche se riconducibile ad una categoria più ampia, deve essere facilmente riconoscibile come proprio della cultura giapponese. E lo stesso avviene tra i singoli prodotti, che da loro devono essere distinguibili.

Ovviamente, per i videogiocatori si tratta di un concetto immediatamente applicabile ad un genere in particolare, quello dei JRPG, ossia dei giochi di ruolo per l’appunto giapponesi. Ma cosa sono i JRPG? Quella “J”, che sta proprio per Japanese, non indica soltanto la provenienza geografica del prodotto, ma nasce come un vero e proprio certificato di autenticità, un marchio con cui il giocatore può essere certo che si troverà di fronte a qualcosa di nuovo.

Nascita

Raccontare della storia dei JRPG è più un esercizio di stile, che di sostanza. Si parla di un genere che, di fatto, quasi coincide con la nascita dei videogiochi. I primissimi titoli sono comparsi nei primi anni 80, ma sarà il primo Dragon Quest, uscito per Enix nel 1986 in oriente e nel 1989 in occidente sulla piattaforma NES, a far emergere il genere. Un momento storico che ha dato vita ad un vero e proprio tsunami di titoli, tra cui il primo Final Fantasy.

Fare la lista dei titoli che poi negli anni si sono susseguiti richiederebbe un tempo infinito: da Suikoden a Shin Megami Tensei, passando per gli Xenosaga e gli Xenoblade, i Persona e così via. La lista è veramente enorme e nella maggior parte dei casi si parla quasi sempre di saghe, i cui capitoli a volte sono uno il proseguo dell’altro, altre invece sono indipendenti e condividono soltanto il nome. Perché, come si è già detto, secondo la filosofia del Jrpg, ogni titolo deve essere unico ed inimitabile, anche se condivide il nome con altri prodotti.

JRPG vs WRPG: cosa cambia rispetto ai GDR occidentali?

Quella tra JRPG e Western Role Playing Game non è soltanto una differenza dovuta allo stile, ma per anni è stata una vera e propria battaglia culturale e, ovviamente, di mercato.

Basti tornare indietro di qualche anno (ahimè, non pochi), e rievocare la storica contrapposizione tra Nintendo e Sega, dove la prima deteneva l’egemonia dei JRPG, mentre la seconda dei WRPG. Acquistare una console anziché l’altra (per i giocatori di giochi di ruolo, s’intende) significava prendere una posizione.

Le differenze tra i due generi non si sono affievolite neanche con l’arrivo della Sony, che con la prima Playstation e la conseguente egemonia del mercato tra il 1994 e il primi 2000 ha eliminato le barriere di genere, proponendo tanto i GDR occidentali quanto i JRPG. La contrapposizione tra i due generi però è rimasta e rimane tutt’ora. Il resto è storia, già trattata in infinite sedi.

Ma al netto dello storico campanilismo, cosa c’è di così diverso tra un JRPG e un WRPG? La prima differenza è sicuramente nella struttura dei generi. I JRPG nascono principalmente come titoli basati su un party di più personaggi e con combattimenti a turni, dove la cooperazione tra protagonista (o protagonisti) e altri astanti, a cui si cerca di dare sempre uno spessore, fa da padrona.

Ciò non significa che i giochi di ruolo occidentali non abbiano mai abbracciato questo stile: basti guardare gli storici Baldur’s Gate o Planescape Torment che, con tutte le differenze del caso, permettevano di scegliere i componenti del proprio party come lo si poteva fare a Final Fantasy, più o meno.

Eppure, già prendendo questi due titoli come esempio, è possibile tracciare una prima netta linea di demarcazione: nei diversi Baldur’s Gate (ma anche negli Elder Scroll o nei più recenti Divinity Original Sin) il giocatore ha la possibilità di creare il proprio personaggio, si immerge in una narrazione in cui le sue decisioni cambiano il mondo, viene catapultato all’interno di una storia che vive quasi in prima persona. Perché uno dei punti cardine di un buon gdr occidentale è proprio il choice matter: dove ciò non avviene, manca sempre qualcosa.

Con i JRPG, la distanza tra il giocatore e i personaggi è invece molto più netta. Non siamo noi a creare Cloud, Squall o Tidus (sempre facendo riferimento ai Final Fantasy): è vero, avremo il controllo dei loro movimenti nel mondo e nei combattimenti, ma non avremo diritto di interferire con le loro scelte o con il loro essere: saremo relegati ad un ruolo di spettatori di una storia che non è la nostra, ma a cui assisteremo arrivando a volte anche ad affezionarci ai personaggi che ne sono parte, cosa che accade molto più difficilmente nei titoli dei giochi di ruolo occidentali.

Ed è forse questa la più grande differenza tra i due generi: da una parte siamo attori, dall’altra spettatori. Da una parte interagiamo con il mondo al punto di sentirci parte integrante di esso, dall’altro ci godiamo una narrazione in cui non siamo inclusi, ma va bene così, è la loro storia.

Unicità

Che ogni buon titolo GDR debba raccontare una buona storia, a prescindere da dove sia stato realizzato, se in Europa, in America o Giappone, è una delle basi del genere. Ma ciò non basta: una buona storia senza un sistema di combattimento innovativo difficilmente è in grado di interessare il grande pubblico.

Quando si parla di JRPG, tutto ciò viene però portato all’estremo, dove a fianco dell’attenzione maniacale alle storie, forti anche delle influenze di manga e anime che ben si sposano con il genere videoludico, si passa alla nota ricerca della complessità dei combattimenti, che molte volte chiedono un minimo di studio affinché si possano affrontare le sfide più complesse offerte dal gioco (che spesso sono opzionali).

Partiamo dalle basi: a parte qualche “romantico” che ancora resiste, il genere JRPG negli anni è passato da uno stile di combattimenti a turni all’action.

L’esempio più lampante è la contrapposizione tra Final Fantasy VII e il suo Remake: oltre ai cambiamenti nella storia, è stato impensabile per Square-Enix proporre una sola rivisitazione grafica del gioco: c’era bisogno di renderlo attuale e, senza entrare sulla diatriba relativa anche alle differenze sulla storia, la scelta più azzeccata è stata puntare sulla dinamicità dei combattimenti, mantenendo però elementi imprescindibili del JRPG, quali mosse finali, magie e altro ancora.

Col passare del tempo, i JRPG sono diventati molto più complessi di quanto non lo fossero già e anche questo cambiamento rientra nel concetto di voler produrre titoli sempre più innovativi e differenti l’uno dall’altro.

Dalle famose Junction di Final Fantasy VIII (che oggi capirle è semplicissimo, ma ricordo quando ci giocavo ai tempi delle medie, per poi scoprire come funzionavano solo al CD 3) agli ultimi titoli come Xenoblade Chronicles 3 o Tales of Arise (di quest’ultimo, ancora oggi non ho capito bene come funzionano le combo), ogni titolo ha sempre voluto proporre uno stile unico che, come si è detto, a volte convince e altre no, ma chi produce sembra non contemplare l’opzione di pubblicare qualcosa di già visto, anche se in passato ha catturato l’attenzione di molti.

“È così che funziona il mercato”, verrebbe da dire, ma non è proprio così: si guardi per esempio a Divinity Original Sin 1 e 2, dove ovviamente il secondo capitolo propone una nuova grafica, nuove abilità e un nuovo sistema di progressione, mantenendo però alcune meccaniche del primo senza cambiarle di una virgola, come la possibilità di interagire con l’ambiente circostante durante il combattimento. Il ragionamento è semplice: ha funzionato nel primo capitolo, perciò lo si ripropone allo stesso identico modo anche nel secondo (e perché no, anche in Baldur’s Gate 3).

Oppure si guardi ai giochi Bethesda, dove Skyrim e Fallout, giochi completamente diversi per ambientazione, che però, fatte le dovute eccezioni, condividevano lo stesso menu e lo stesso stile di combattimento (e alcune analogie sono rintracciabili persino nel recente Starfield).

Ecco, tutto ciò è vietato nei JRPG. Non può esistere un Final Fantasy che sia anche lontanamente simile al precedente, per storia o meccaniche di combattimento, e lo stesso accade per gli Xenoblade Chronicles o i Dragon Quest, quest’ultimo tra gli unici titoli che ancora resistono al romanticismo del combattimento a turni ma che nonostante ciò riesce ancora a rinnovarsi.

Alla fine: che cos’è un JRPG?

Per definire cosa sia un JRPG, bisogna dunque tenere conto di due fattori: una narrazione che deve tenere incollati allo schermo e uno stile di gioco unico, che permetta a chi non vuole applicarsi di concludere la storia, ma che proponga anche una serie di sfide opzionali estremamente complesse che solo chi ha voglia di studiarsi build e combo può riuscire a concludere con successo (in perfetto stile di gioco nipponico).

I JRPG sono storie, personaggi di spessore, colpi di scena e a volte anche lacrime, ma sono anche combattimenti mozzafiato, magie, luci, laser, mostri giganti, evocazioni e a volte anche enormi robot. Possono essere semplicità e complessità allo stesso tempo, ma soprattutto devono essere unici, sia rispetto ai loro cugini occidentali, sia rispetto ai titoli della stessa categoria.

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Le due vite di Cyberpunk 2077: la rinascita 2.0

Da lancio più criticato degli ultimi anni ad uno dei migliori titoli che si possano trovare attualmente sulle piattaforme videoludiche. Dopo la crisi, la redenzione di Cyberpunk 2077, grazie alla patch 2.0 e all’espansione Phantom Liberty, è ormai storia. Essa è la testimonianza di come gli errori possano essere non solo recuperati, ma anche diventare una prova di forza e coerenza. Soprattutto, è dimostrazione di attenzione nei confronti dell’utente finale, che troppo spesso resta inascoltato.

Una patch davvero valida

La Patch 2.0 e il nuovo Phantom Liberty hanno cambiato completamente Cyberpunk 2077. Allo stesso tempo il gioco resta fedele all’idea originale: le due novità ci tengono con i piedi ben piantati a terra nella distopica Night City. Il nuovo sistema di progressione del personaggio, con talenti e skill tree completamente rinnovati, rende i combattimenti estremamente più divertenti. Per esempio: andare in giro con una katana adesso impone di dover parare e schivare colpi, almeno nelle prime fasi del gioco. Infatti è stato rimosso il sistema di sanguinamento che aveva reso gli street samurai immortali. Poi vabbè, rimane il Sandevistan che cambia le regole, ma è giusto che sia così, siamo a Night City, choom!

Cyberpunk 2077

E che dire delle nuove limitazioni all’installazione dei Cyberware, correlate alla prestanza fisica (e altri talenti annessi) di V., il/la nostro/a protagonista? Anche quella è immersione pura. Il fatto che il giocatore non possa aggiungere cromo qualora non soddisfi determinati prerequisiti, fa toccare con mano l’idea che la cyberpsicosi sia reale e non qualcosa relegata ai soli cyberpsicopatici che siamo chiamati a mettere fuori gioco dalla nostra media preferita (almeno la mia), Regina Jones.

Insomma, la Patch 2.0 ci porta sullo schermo un Cyberpunk 2077 decisamente migliore. Questo risultato è figlio della tenacia di una produzione che ormai si è fatta un nome importante grazie alla saga di The Witcher. La CD Projekt, nonostante la valanga di critiche per questioni ormai note a tutti, in questi anni si è data da fare. Ha ascoltato i giocatori e le loro lamentele, e ha sfornato un gioco completamente nuovo. Esso però, come già accennato, ci fa ancora vivere la cupa atmosfera di Night City.

Libertà fantasma

Poi è arrivato il dlc Phantom Liberty, che ha apportato una valanga di nuovi contenuti. Abbiamo ad esempio i combattimenti in auto e in moto e un nuovo quartiere, Dogtown, che finalmente fa emergere i veri bassifondi di quella che fu la Città del Rosso. Il tutto senza dimenticare la più grande novità: una nuova ed enorme chain quest in stile spy thriller, a cui forse non ero pronto.

Cyberpunk 2077

Rinnovando il sacro voto del “no spoiler”, devo ammettere che è stato a tratti difficile digerire la complessità della storia portata dal nuovo dlc. Soprattutto a causa del peso specifico di certi personaggi coinvolti. I nuovi protagonisti animano una narrazione a dir poco stupenda, ma talmente grande da far sembrare quasi insignificanti le vicende che toccano personalmente il nostro (o la nostra) V.

Ora, bisogna fare una premessa: ogni esperienza di gioco è estremamente personale. La mia l’ho vissuta così: ho premuto “Nuova Partita” per la terza volta e mi sono preparato a completare nuovamente il gioco. Ero consapevole che in questa occasione avrei trovato nuovi contenuti, che però ho sbloccato soltanto dopo un sacco di tempo.

Maniaco del perfezionismo quale sono, mi sono ritrovato prima a concludere tutte le quest del primo quartiere, poi del secondo e così via, senza saltare né un Ncpd Scanner, né un “Chissà cosa troverai qui?”. E devo dire che, già da allora, grazie alle novità di Cyberpunk 2077 2.0, ho percepito un gioco completamente nuovo.

Poi ho deciso di accelerare: dovevo scrivere qualcosa per IlVideogiocatore prima che il gioco diventasse “vecchio”. Presa la moto del nostro indimenticabile Jackie, arrivo a Dog Town. Parte la quest e subito ho il cuore a mille e gli occhi sgranati: “Ma che cos’è questa figata assurda?”, mi sono chiesto, forte anche di una pregressa conoscenza di alcuni dei personaggi presentati. Essi infatti appaiono nei manuali del gioco di ruolo cartaceo, Cyberpunk Red e ancora prima in Cyberpunk 2020, della R. Talsorian Games.

Cyberpunk 2077

Ed è qui, forse, che mi sono dovuto confrontare con un “piccolo” cortocircuito. Ho deciso di affrontare la storia proposta da Phantom Liberty proprio nel mezzo della main quest e la valanga di nuove informazioni e avventure mi ha disorientato. Il fatto che conoscessi già la main story di Cyberpunk ha sicuramente contributo a farmi percepire le vicende di Phantom Liberty estremamente più grandi di quelle relative alla main quest. Tuttavia, anche in questo caso, la CD Projekt ha pensato a tutto e mi ha fatto ricredere: l’arco narrativo di Phantom Liberty non è a sé stante, incide sulla storia principale ed è in grado di influenzare anche l’endgame.

Cyberpunk 2077

Quindi, se mi chiedessero quale voto darei a Cyberpunk 2077, chiederei un 10 e lode con tanto di standing ovation. Io però non faccio testo: sono un fan accanito di tutto ciò che ruota intorno a Night City già dalle prime opere cartacee, tanto che osannavo questo gioco anche quando la stragrande maggioranza dei player lo criticava (con cognizione di causa).

Adesso tocca stare con i radar accessi, visti i nuovi rumors di casa CD Projekt, al lavoro sui nuovi titoli di Cyberpunk e The Witcher, rispettivamente Orion e Polaris

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Editoriali

Giocare a Starfield senza alcuna aspettativa, un’esperienza da 10 e lode

Io, su Starfield, non avevo aspettative, nel senso che non lo attendevo proprio. Forse per distrazione sono rimasto fuori da tutto quel susseguirsi di news e rumors che, come succede da anni, ogni titolo Bethesda si porta dietro in attesa del lancio ufficiale, generando quel mix di hype per un nuovo gioco che si sa, avrà tantissimo da offrire, e di critiche preventive da parte di chi si aspetta una marea di bug che probabilmente rimarranno irrisolti nei secoli.

Ecco, io da tutto questo ne sono rimasto fuori, oltretutto involontariamente, finché navigando nel negozio di Steam mi è arrivata la notifica (tardiva): “Ehi, è uscito Starfield, compralo”. Quel poco che avevo sentito a riguardo era estremamente negativo (e per alcune cose, a ragion veduta, ma ne parliamo tra un po’), eppure ho deciso di comprare lo stesso il gioco. Il risultato? L’ho trovato strabiliante.

Ora, di cose che non vanno ce ne stanno parecchie. Dalla grafica distante anni luce dagli standard odierni alla gestione dell’inventario rimasta immutata nel corso dei diversi Elder Scrolls e Fallout, caotica e poco intuitiva, così come accade per il quest tracker che accorpa tutto lasciando giusto la possibilità di raggruppare le missioni per tipologia o fazione (ma con oltre mille pianeti, non era forse il caso di aggiungere un organizer per località?).

Queste, in sintesi, sono le principali cose che non vanno, di cui probabilmente si è discusso ovunque e di cui ha parlato anche qualche Nostradamus prima di poter mettere le mani sul gioco. Eppure, come dicevo, sto trovando Starfield un gioco eccezionale. Mi sono chiesto perché, e questa volta il mio incarnare l’autentico spirito della contraddizione non c’entra nulla: Starfield mi piace come pochi altri giochi perché puoi fare una miriade di cose e io da questo titolo non mi aspettavo proprio nulla.

L’ultimo lancio di Bethesda prosegue a modo suo la piccola rivoluzione avviata da Baldur’s Gate 3: si tratta di un gioco completo, senza microtransazioni o dlc (al netto di future possibili espansioni, ovviamente) e una libertà di movimento infinita. Mi sono ritrovato subito a vivere le stesse vibes che mi hanno regalato i diversi Fallout, di cui ho un bellissimo ricordo e mi sono trovato bene nonostante l’assenza V.A.T.S. (ossia della mira assistita introdotta nel terzo capitolo, poi utilizzata anche in New Vegas, Fallout 4 e Fallout 76), essenziale per chi non è proprio un campione negli sparatutto.

La cosa che più mi piace in questo gioco sono le quest. Sono tantissime, così tante da mettere all’angolo un maniaco del completismo come me. Infatti, se Baldur’s Gate 3 (ormai metro di paragone di ogni titolo videludico) mi ha stordito per la vastità delle mappe, tanto da infastidirmi perché sapevo che mi sarei perso qualcosa, lo stesso non è successo con Starfield: i pianeti, gli avamposti e gli npc sono così tanti che mi sono felicemente arreso all’idea di non poter materialmente esplorare tutto in una sola run (e neanche in due, tre, forse dieci).  

Poi c’è la bella novità della personalizzazione della navicella spaziale: se ne può avere una o un’intera flotta e per ognuna di queste si può modificare ogni singolo pezzo. A questo si aggiunge la possibilità di costruire avamposti negli oltre 1.000 pianeti dislocati nei 100 sistemi solari della mappa. Insomma, una figata pazzesca.

Certo, non è tutto oro quello che luccica: c’è più di qualche elemento che ha fatto storcere la bocca anche ad un outsider come me. La cosa che più mi da fastidio è la gestione dei dialoghi: avviando una conversazione, l’inquadratura passa ad un primo piano dell’npc di riferimento, il quale non si muoverà più di tanto dalla posizione originale. Per farla breve, se avete interagito con un personaggio che era di spalle, è capace che questo vi parlerà senza guardarvi in faccia, che non è il massimo.

Stessa cosa vale per le interazioni dei seguaci, i quali ogni tanto proveranno ad inserirsi nei discorsi avviati dal personaggio con i vari npc, ma il 90% delle volte sono commenti a sé stanti e che non provocano alcuna reazione. Insomma, è come quando l’amico poco simpatico si mette in mezzo e fa una battuta che nessuno capisce e quindi tutti stanno in silenzio facendo finta di nulla. Il gelo.

Male anche la realizzazione degli npc privi di interazioni che popolano il mondo: sembra che sia stato fatto copia e incolla su una decina di modelli e che le varie città siano abitate da un’infinità di fratelli gemelli, oltretutto vestiti uguali. Su questo bisogna chiudere un occhio o si rischia di spegnere il pc o la console.

Pecche inaccettabili da un gioco così tanto atteso, ma se non ci si aspetta nulla non è un problema passarci sopra. Anche la tanto citata “ripetitività” dei pianeti è stata criticata forse ingiustamente: non è vero che gli ambienti sono tutti uguali. Anche le lune, prive di vegetazione e fauna, presentano differenze tra loro (e ho girato già parecchi sistemi). Sulla presenza di insediamenti nemici estranei a quest (ossia i mini dungeons) è vero, vige ancora la ricetta Bethesda che abbiamo tutti quanti sperimentato per anni sia negli Elder Scrolls che nei Fallout: si trova la base nemica dove ci sono pirati spaziali, contrabbandieri o un’invasione di insettoidi alieni, la si ripulisce e si torna a casa con il bottino generato casualmente. E che male c’è, soprattutto vista l’enorme mole di quest che ci si trova a dover affrontare, già alle prime ore di gioco?

In conclusione, Starfield è un titolo da consigliare assolutamente a tutti gli amanti del genere che hanno voglia di esplorare, di immergersi in un viaggio planetario in cui le scelte contano, in cui l’azione frenetica si alterna con meritati momenti di pausa ad esplorare pianeti nascosti o a modificare e migliorare la propria nave, oppure a riposarsi nel proprio rifugio costruito con tanto sudore.

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Baldur’s Gate: vale la pena giocare i primi due capitoli?

Che Baldur’s Gate 3 sarebbe stato un successo fuori scala si sapeva già da tempo, da almeno tre anni, quando Larian Studios annunciò di aver preso la pesante eredità dello storico titolo.

I numeri successivi al lancio hanno persino superato le già alte aspettative, ciò significa che il gioco non ha catturato solo i nostalgici o i fan dei giochi di ruolo cartacei, ma anche un’importante platea di nuovi giocatori, che magari di riflesso ora saranno interessati anche a testare per la prima volta Dungeons & Dragons e simili.

Insomma, stiamo parlando di un evento che ha sconvolto non solo il mercato dei videogiochi, ma un intero settore ludico che spazia da pc e console ai giochi pen & paper, ma anche serie televisive, libri e chi più ne ha più ne metta.

Di questo ne abbiamo già parlato in precedenza, ma c’è un elemento fondamentale che ha permesso a BG3 di essere quello che è oggi: il peso del nome che il titolo porta con sé.

Già prima del terzo capitolo, i due predecessori avevano letteralmente sconvolto il mondo dei videogiochi, diventando una tra le prime trasposizioni videoludiche di un gioco di ruolo cartaceo. Partiamo da un presupposto: Baldur’s Gate 1 e 2, entrambi capitoli di una saga prodotta da Bioware, non hanno nulla a che vedere con Baldur’s Gate 3 (o quasi nulla, ma non vogliamo fare spoiler su certi personaggi, come per esempio un certo criceto spaziale…). Non si tratta solo di ovvie questione di differenze grafiche e giocabilità (per i primi due capitoli parliamo di titoli rispettivamente del 1998 e del 2000), ma anche la storia è completamente slegata.

Vale dunque la pena giocare oggi, per chi non l’ha mai fatto, Baldur’s Gate 1 e 2? Sì, ma solo se vengono soddisfatte determinate condizioni. Per cimentarsi in una simile avventura serve una buona dose di determinazione e curiosità, perché il comparto grafico è talmente datato da fare male agli occhi, la visuale isometrica con combattimenti in tempo reale è piuttosto caotica per chi ormai è abituato a giocare con il sistema a turni e soprattutto non ci sono tutorial. Infatti, Baldur’s Gate 1 e 2 danno per scontato che i giocatori conoscano la seconda edizione di D&D (Advanced Dungeons & Dragons, anno di pubblicazione 1989, mentre Baldur’s Gate 3 è basato sulla quinta edizione).

Detto ciò, se si soddisfano questi requisiti, chi non ha mai giocato ai primi due capitoli dovrebbe farlo, subito. Una storia coinvolgente e indimenticabile trasporta il giocatore nell’Amn, tra la città di Baldur’s Gate e i suoi confini, permettendo al videogiocatore di esplorare piccoli e grandi insediamenti, terre selvagge, incontrare un grande numero di potenziali alleati, ognuno con il suo allineamento e i suoi obiettivi.

La generazione del personaggio è completamente libera: non ci sono pregen tra cui scegliere e bisogna dare vita alla propria fantasia, selezionando la razza (tra i classici umani, elfi, mezzelfi, nani, gnomi e così via), la classe, l’allineamento (se buono o malvagio, caotico o legale) e quel minimo di estetica che il gioco permette.

Anche in Baldur’s Gate 1 e 2 le scelte fanno la differenza. Manca tutta la componente dei tiri abilità, ma le finestre di dialogo permettono al giocatore di scegliere le proprie risposte, a volte con stringhe aggiuntive dettate dalla classe scelta (il Paladino, per esempio, ha spesso maggiori opzioni). Una novità per il periodo in cui vennero pubblicati i due titoli; infatti, BG fu tra i primi a dare l’impressione che il personaggio fosse l’estensione del videogiocatore.

Una menzione speciale per la composizione del party: in entrambi i capitoli possiamo portare con noi cinque companion, per un totale di sei personaggi. Le possibilità di scelta, però, sono molto vaste: nel primo capitolo possiamo scegliere tra un totale di 25 npc (29 nell’Enhanced Edition), mentre nel secondo ce ne sono 17 (20 nell’Enhanced Edition). Trovarli non è automatico. A volte potrebbe essere necessario completare delle quest o semplicemente essere abbastanza curiosi da parlare con tutti i personaggi che incontriamo sulla mappa per scoprire che tra loro si cela un potenziale alleato. Mantenerli è ancora più complesso: ognuno di loro ha una propria personalità e se il gruppo agisce in contrasto con i loro ideali potrebbe portarli a lasciarvi a piedi, anche nel bel mezzo di un dungeon (a volte potrebbero addirittura rivoltarsi contro l’eroe e gli altri suoi compagni). Altri, invece, hanno esigenze, come per esempio una quest personale, che se non viene completata entro una determinata scadenza li porta a spazientirsi e, ancora una volta, a lasciarci.

In tutto questo, non ci sarà nessun accampamento raggiungibile facilmente con un clic sull’interfaccia: nel migliore dei casi, se lasciamo un companion, ci dirà dove possiamo incontrarlo se abbiamo ancora bisogno di lui, in altre occasioni, i più orgogliosi, ci saluteranno per sempre.

Entrambe le avventure si concentrano nella Costa della Spada. Nel primo capitolo si parte dal livello 1 nella cittadella fortezza di Candlekeep, per poi giungere a Baldur’s Gate nel late game, con un epico combattimento finale e annesso colpo di scena a cui si dovrebbe assistere una volta raggiunto il livello 10. Il secondo capitolo, invece, è il naturale prosieguo del primo: si riparte dal livello 10 proprio dove avevamo lasciato il nostro eroe e parte dei compagni più iconici. Altri volti noti potranno essere incontrati per strada, così come altre facce nuove potranno entrare a far parte del gruppo.

Rigiocare i titoli, per chi non l’ha mai fatto, oggi potrebbe essere un po’ più semplice. Infatti, rispettivamente nel 2012 e nel 2013, sono uscite le versioni Enhanced Edition, con grafica e sonoro aggiornato, formato widescreen e HD; tra l’altro, entrambi i giochi sono stati prodotti anche in versione iOS.

La storia di Baldur’s Gate non finisce qui: entrambi i capitoli hanno delle loro espansioni, rispettivamente Tales of the Sword Coast e Siege of Dragonspear per il primo e Throne of Bhaal per il secondo, ma ci sono anche gli standalone della serie Dark Alliance (Recension del primo capitolo), usciti per console come dei platform d’azione in cui la storia lascia il passo alle sane botte.

Un successo stratosferico, dunque, quello dei primi Baldur’s Gate, che hanno dato vita anche ad altri gioielli di questo genere, come Icewind Dale 1 e 2, Neverwinter Nights 1 e 2 e Planescape: Torment. Giochi che, però, meritano più di qualche riga in coda a questo articolo.