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Planet of Lana – Recensione

Planet of Lana, la prima produzione dello studio Wishfully, aveva già attratto a sé molti occhi all’Xbox ShowCase del 2021. Si parla di una produzione dalle dimensioni visibilmente più contenute e che pone grande enfasi su un comparto artistico di richiamo pittorico particolarmente brillante e su una narrazione silenziosa di pregio.

Il titolo arriva sui nostri schermi nelle vesti di un puzzle-adventure di chiara ispirazione “Uediana”, ma che impara con intelligenza le lezioni impartite dai più recenti titoli Playdead come Limbo, pescando a piene mani anche dalle suggestioni di Journey.

Il timore di un’opera eccessivamente derivativa va però dissipato rapidamente: Planet of Lana è un gioco con una personalità propria capace sì di imparare dai migliori, ma comunque in grado di mantenere una propria distinta personalità.

La narrazione

La prima opera firmata Wishfully esplora diverse suggestioni narrative: l’abbandono e la perdita, il genuino affetto tra due ragazzini, l’amore spontaneo che può scaturire tra uomo e bestia.

Già dal trailer infatti, abbiamo fatto conoscenza di Mui, adorabile bestiolina che ci terrà compagnia per quasi tutta la durata dell’avventura, capace di arrampicarsi laddove a noi l’accesso sarà precluso, e soluzione essenziale a molti enigmi disseminati per il percorso di gioco.

Se è vero però che il rapporto fra i due coprotagonisti appare tenero e sincero, l’amicizia scaturita dalla necessità dei due sembra cementarsi un pizzico troppo rapidamente. Manca (forse più per ragioni tecniche e di budget che per scelte di design) quella lenta ma percepibile sedimentazione del rapporto fra Trico ed “il ragazzo” in The Last Guardian, evidente fonte d’ispirazione per Planet of Lana.

Nelle prime battute il gioco ci proietta in un piccolo villaggio di pescatori, un pianeta riconducibile al nostro come ambienti, ma con fauna e panorami “stellari” ampiamente alterati, memori più della fantasia di Cameron espressa in Avatar, che dalla realtà osservabile sul nostro pianeta.

La quiete del villaggio di Lana, coprotagonista del gioco e alter-ego del videogiocatore, non è purtroppo destinata a perdurare, interrotta da delle misteriose macchine che invadono il villaggio e ne rapiscono gli abitanti. Tra questi, Ilo, il fratello di Lana. La nostra eroina riesce miracolosamente a fuggire ripromettendosi di salvare il fratello, inconsapevole di essere destinata a svelare misteri ben più grandi di lei.
Nel tragitto, farà conoscenza con Mui, la già citata amabile creaturina.

Raccontare senza parole

L’ultima fatica Wishfully non comunica mai direttamente le informazioni sopra descritte. Il titolo è infatti sprovvisto di dialoghi esplicativi (o quantomeno quelle poche battute che hanno i personaggi sono comunicate in una lingua di fantasia, incomprensibile all’utente) e mancano persino i tanto abusati frammenti di testo sparsi per la mappa che spiegano per filo e per segno storia e retroscena di varia natura.

L’opera infatti si serve della mera comunicazione per ambienti, e talvolta per immagini, quasi icone religiose (rubate con furbizia a lavori ben più celebri come Journey di Thatgamecompany), volte non tanto a dare una spiegazione precisa degli eventi, ma più a suggerire al giocatore più attento possibili significati e valori di ciò che accade a schermo.

Planet of Lana certamente non è il primo titolo che racconta una vicenda senza l’ausilio di dialoghi o di testi scritti. Ciònondimeno non è semplice narrare una storia (per quanto semplice voglia essere quella del gioco in questione) “silenziosamente” senza per questo risultare inutilmente criptici e misteriosi.

Al contrario, l’avventura della nostra eroina rischia di finire sul versante opposto: il racconto rischia di risultare prevedibile per i videogiocatori più navigati, rimanendo però una valida esperienza per i più giovani o i meno avvezzi al genere. Non temete però, per quanto semplice, le animazioni, la colonna sonora ed il gusto estetico sopperiranno a una storia semplice conferendole il giusto peso emotivo e l’attiva partecipazione del giocatore.

Planet of Lana: paesaggio

Il gioco

Il team di Wishfully decide consapevolmente di non voler rivoluzionare il mondo dei puzzle games, limitandosi ad imitare i migliori del genere. Ciò è chiaramente un bene dal punto di vista pratico, visto quanto facile sia sopravvalutare le capacità del proprio Team (sopratutto se agli albori com’è il caso di wishfully), d’altro canto però così facendo i puzzles risultano troppo spesso banali e dalla risoluzione immediatamente comprensibile per tutti i videogiocatori avvezzi al genere.

Il titolo infatti si presenta come adatto ai più giovani ed ai meno avvezzi al mondo dei videogames, complice anche la breve durata complessiva dell’esperienza che si aggira attorno alle 4 ore e il fatto che il titolo sia disponibile nel servizio in abbonamento di Microsoft. I neofiti apprezzeranno senza dubbio lo stile grafico, la dolcezza della narrazione e la semplicità dei comandi.

Controllare due personaggi alla volta può apparire complesso sulla carta, tuttavia le azioni che potremo far compiere ai nostri protagonisti sono veramente ridotte, alla luce di quello che è presumibilmente un design di tipo sottrattivo.

Lana, infatti, può soltanto saltare ed abbassarsi, oltre a comandare a Milo, chiedendogli di aspettarla o di seguirla e, all’occorrenza, di posizionarsi in un punto determinato a non grande distanza dal nostro alter-ego.

A questo proposito, il sistema di movimento di Lana è stranamente meccanico e datato, costringendo a movimenti lenti e fuori dal tempo: per saltare a destra mentre siamo rivolti a sinistra, infatti dovremo prima far voltare il nostro personaggio e solo allora premere il comando di salto.

Una svista che sicuramente non influenzerà complessivamente il valore dell’esperienza ma che emerge prepotente in un oceano di cura e amore verso tutti gli altri comparti che fanno emergere in negativo un sistema di controllo a tratti alienante.

Planet of Lana: il Sole

Come si presenta

Basta un solo sguardo per apprezzare la cura e la dedizione impiegata dal team per costruire gli ambienti di Planet of Lana.
Il colpo d’occhio è immediato e lo stile usato rende il gioco riconoscibile da un solo screenshot.

Il timore che la palette cromatica potesse risultare ridondante e poco varia viene in realtà fugato presto, sia perché le macchine e le creature sono realizzate utilizzando dei toni di nero molto peculiari, che spezzano bene con gli ambienti molto colorati, sia perché il gioco fa capolino in ambienti dissimili l’un con l’altro: spaziando da deserti a paludi; da foreste ad accampamenti abbandonati.

Se è innegabile che questi ambienti donino necessaria freschezza al titolo, evitando un precoce affaticamento cromatico, questi risultano essere poco connessi l’un l’altro, dando la spiacevole sensazione di trovarsi in dei veri e propri livelli a tenuta stagna, piuttosto che di star facendo un esperienza di viaggio continua e indissolubile.

Il comparto sonoro è più che apprezzabile con un sound design avvolgente e rilassante, utile a immedesimarsi nell’azione.

È però nella colonna sonora, composta da Takeshi Furukawa (già celebre per aver curato le musiche di The Last Guardian), che l’avventura di Wishfully brilla maggiormente dal punto di vista sonoro: composizioni potenti e posizionate sapientemente sono in grado di far emozionare anche il più duro degli orecchi.

Conclusione

Planet of Lana è un gioco che si lascia ispirare dai migliori, senza la presunzione di voler rivoluzionare il genere. Quello che spicca nella produzione Wishfully è senz’altro il comparto artistico, curato, riconoscibile e che non può lasciare indifferenti, sia dal lato visivo che sonoro.
Si tratta in definitiva di un’esperienza memorabile e adatta a tutti, senza però raggiungere le vette delle produzioni a cui si ispira.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: Xbox Series S|X, PC, Xbox One
  • Data uscita: 23/05/2023
  • Prezzo: 19,99 €

Ho provato il gioco a partire dal day one su PC grazie all’Xbox Game Pass

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Editoriali

Patient Gamer: l’arte di saper attendere

In un momento storico in cui il mercato videoludico spinge con sempre maggiore intensità verso il preordine, l’acquisto al Day One e più in generale, l’acquisto affrettato e compulsivo dell’ultimo titolo AAA, attendere cali di prezzo, recensioni ed opinioni prima di acquistare un titolo è diventato un atto di ribellione così necessario da far nascere anche l’appellativo di Patient Gamer.

Un’industria fagocitatrice di tempo

I bonus preordine non sono l’unico incentivo per acquistare un titolo anzitempo. La vera spinta, invece, arriva direttamente dai consumatori che anelano la fatidica chiacchiera attorno all’ultima colossale fatica di questa o quella Major.

Chiacchiera che ha purtroppo, vita sempre più breve all’interno di un mercato quantomai saturo e affollato. Diventa necessario allora affrettarsi a terminare l’ultimo titolo prima di procedere ad acquistare il prossimo o, come avviene più soventemente, non terminarlo del tutto. Per essere videogiocatori oggi non è più sufficiente essere appassionati, è richiesta anche un’attiva partecipazione in una discussione che si aggira per i locali del web, al videogiocatore è demandato l’onere di essere sempre attivo e sul pezzo, di tenersi perennemente aggiornati su tutte le principali uscite nel medium.

In questo ambiente tanto ostile a chi il videogioco desidera viverlo con i propri tempi, cresce di giorno in giorno il gruppo di patientgamers, una nicchia ormai stufa di doversi precipitare ad acquistare l’ultima uscita prima che questa non interessi più a nessuno.

Persino i servizi in abbonamento, che si presentano almeno in teoria come antitesi di queste logiche anti-consumatore, acquistano prestigio non tanto per la qualità dei titoli presenti nel catalogo, opere dal valore storico ed artistico indiscutibile, bensì dalla quantità di titoli presenti sin dal Day One all’interno del propria selezione.

Da un’osservazione fredda e analitica di qualcuno completamente esterno al mondo del videogioco si potrebbe dedurre dunque che la qualità di un titolo venga dettata esclusivamente da quanto recente sia la sua data di uscita rispetto al momento in cui lo si giochi.

Il ruolo della community

Il videogiocatore moderno allora da una parte si lamenta di come nelle iterazioni moderne si punti solo alla grafica come elemento di innovazione rispetto ai precursori, dall’altra si disdegnano a piè pari titoli anziani di “appena” 3 o 4 anni, che appaiono moltissimi in un mondo informatico, ma che risultano incredibilmente brevi dal punto di vista sociale: molti videogiochi di epoche ormai scomparse risultano ancora incisivi e significati dal punto di vista artistico e ludico; pur che ciò si riferisca anche solo all’articolazione di una trama ben strutturata.

Non è obiettivo di questo articolo, tuttavia, condannare il discorso attorno al videogioco, sarebbe ipocrita visti i pomeriggi trascorsi a redarre testi simili a questo in cui discutere in compagnia.

Questo non vuole essere un invito al silenzio, né tantomeno una condanna a chi gioisce nel sentirsi parte di una community, al contrario si tratta di un invito a unirsi a community durature e affezionate, pronte ad accogliere nuovi membri non solo appena dopo l’uscita dell’ultimo titolo, ma in momenti sparsi nell’arco del naturale ciclo di vita di un gioco, pur mantenendo il sempre gradita discussione che si crea attorno all’uscita.

Un invito dunque alla ponderatezza e all’arte di saper attendere.

I vantaggi dell’attesa

I giocatori PC si sono accorti già da tempo delle pessime condizioni in cui i videogiochi sono stati rilasciati nel mercato recentemente. Titoli funestati da bugs, glitches e problemi di ogni sorta rilasciati a prezzo pieno sono all’ordine del giorno, lasciando che sia l’acquirente a fungere da beta tester e dovendosi accollare giga e giga di aggiornamenti mirati a risolvere (almeno in parte) problemi di prodotti altrimenti prossimi all’ingiocabilità.

L’utenza ha già accettato da tempo le patch del Day One, consapevole che la crescente mole di contenuti di un videogioco comporti un conseguente aumento di problematiche del software.
Il problema sorge qualora – e non si tratta affatto di un evento raro – qualora la suddetta patch non sia in grado che di “mettere una pezza” sulle varie problematiche e si finisce col dover attendere giorni, se non settimane e mesi prima di poter usufruire di un prodotto rassomigliante al progetto ideato dagli sviluppatori.

Alla luce di ciò l’invito diventa più che mai attuale: attendete! Quale fretta può mai spingere così impudentemente ad acquistare prodotti completi solo in parte, per di più a prezzo pieno?

Perché, naturalmente il vantaggio dell’attesa è anche di natura puramente economica.

Il preordine di The last of Us Part 1 offre degli strumenti per rendere il gioco più facile durante le prime fasi di gameplay.

L’attesa è risparmio

Tutti i videogiocatori con alle spalle qualche anno di esperienza nel medium, sanno quante volte capiti che un gioco annunciato in pompa magna, massivamente spinto da campagne marketing onnipresenti finisce per essere accolto solo tiepidamente da critica e pubblico.

A quel punto, generalmente, basta poco tempo affinché il gioco affolli gli scaffali di store fisici e digitali invenduto, finendo per dimezzare rapidamente il proprio prezzo di partenza dopo giusto alcune settimane.

Ma non è affatto necessario che si tratti di un gioco mediocre. A prescindere dalla qualità generale dell’esperienza, è un dato di fatto: i videogiochi mutano il loro prezzo rapidamente (eccezion fatta per le esclusive di casa Nintendo, che optano per una politica di prezzo nettamente differente), andando incontro a sconti e black friday di ogni sorta, eventualmente persino ribassamenti di prezzo voluti dal singolo rivenditore.

È certo comunque che quando si decide di acquistare “in ritardo” lo si fa con maggiore cognizione di causa, dal momento che il titolo a quel punto sarà stato ampiamente analizzato e documentato in ogni sua parte da altri appassionati e testate specializzate. Farsi un’idea più precisa del prodotto è a questo punto semplicissimo, rimosso il costante rumore di fondo dato da trailers, campagne marketing e dichiarazioni da parte degli sviluppatori (che, per quanto genuine, sono per propria natura filtrate dalla passione per il gioco, o da banali ma non meno valide questioni economiche) che spingono l’utenza ad acquistare un prodotto ancora prima che quest’ultimo abbia veramente compreso di cosa si tratti.

Semplicemente, acquistare un titolo uscito già da qualche tempo non solo prevede un risparmio di tipo economico, ma anche un’incrementata igiene mentale nell’approccio con l’opera, in quanto una volta liberati dalla pressione mediatica ci si può ritenere effettivamente consci del prodotto di cui si sta venendo in possesso, consapevoli del tipo di esperienza che si ci accinge a sperimentare.

Non è una condanna

Fraintendere è semplice, ma è comprensibilissimo che un utente si sia fidelizzato a un’IP, una software house o, ancora meglio, uno specifico autore e decida di sua spontanea volontà di riporre la propria fiducia in questo o quell’entità preordinando un titolo o acquistandolo al Day one.

Non bisogna sorprendersi, però quando il prodotto acquistato si riveli essere il Cyberpunk o il Death Stranding di turno, che per indole non possono soddisfare un pubblico dalle aspettative incontentabili, fondate non sulla base di quello che il software finale vuole essere, bensì maturate all’interno della propria immaginazione, accresciuta dallo scalpitio degli altri appassionati su internet nella perenne attesa della next big thing, che finisce puntualmente o per non arrivare mai, o per arrivare solo in parte (com’è naturale che sia visti i numeri spropositati di cui è composta l’industria del gaming “tradizionale”) accontentando una nicchia più ricettiva a un certo tipo di gameplay, trama o esperienza.

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Editoriali

Cosa sono i Soulslike e cosa li contraddistingue

Grazie al recente successo commerciale che è stato Elden Ring, ultima fatica dello studio di sviluppo From Software, il termine Soulslike ha acquisito un’ancora più ampia diffusione. Ma che cos’è un Soulslike? Quali sono le caratteristiche che lo differenziano al punto da far scaturire la necessità di generare un nuovo termine?

Soulslike o Soulsborne?

In una recente intervista rilasciata a IGN relativa al venturo lancio di Amored Core 6, Hidetaka Miyazaki, considerato a diritto il padre dei souls, ha esplicitamente parlato di un tipo di gameplay “soulsborne” legittimando così una volta per tutte il termine. Nello specifico, Miyazaki risponde così alla domanda se ci debba aspettare un titolo “soulsborne” dal prossimo Armored Core:

No, non abbiamo fatto uno sforzo volontario per provare ad indirizzarlo verso un tipo di gameplay soulsborne.

Hidetaka Miyazaki

Ma cosa si intende esattamente per soulsborne? E che cosa cambia da soulslike? Domande dalla natura più che legittima scaturite da una comunicazione inefficace da chi ha popolarizzato determinati termini.

Chiunque abbia un’infarinatura base di linguistica, sa bene quanto siano rari nelle lingue i sinonimi assoluti: sarebbe inutile generare due parole per indicare la medesima cosa. Per soulslike si intende un genere – o sottogenere se preferite – di videogiochi tendenzialmente vicino al più ampio ombrello dell’action RPG. Soulsborne invece indica tutti i prodotti più o meno connessi ai canoni del soulslike partoriti direttamente dalla casa di sviluppo “madre” del genere: From Software.

Definire Bloodborne un soulslike a tutti gli effetti si era rivelato già compromettente all’uscita del titolo per PlayStation 4, data la sua natura spiccatamente più action e meno ruolistica rispetto alle esperienze passate. Non c’è da sorprendersi se poi, con Sekiro, la definizione di soulslike non bastasse più a racchiudere dei prodotti così sensibilmente differenti, legati solo da un matrice di tipo produttiva. Nasce così il termine soulsborne, per indicare i prodotti più “recenti” (da Demon’s Souls in poi) della casa di sviluppo; simili nelle sensazioni, ma molto differenti a livello ludico e di esperienze complessive.

Queste distinzioni fanno nascere spontanea una questione, che è stata rimandata dall’inizio di questo testo per poter preparare una solida base su cui basare il successivo discorso: quali sono gli elementi essenziali per comprendere di cosa si stia parlando quando si discute di soulslike?

Che cos’è un Soulslike?

Si può affermare, senza paura di sbagliarsi troppo, che il soulslike fondi le sue radici nella più ampia categoria dell’action RPG.

D’altronde, quando Demon’s Souls sbarcò per la prima volta su PlayStation 3, nessuno si sarebbe immaginato che una reinterpretazione del genere incentrata su un combat system più lento e meditato avrebbe dato luce a una vera e propria nuova varietà di videogiochi.

Non sorprende neanche che grande focus delle recensioni del periodo ponessero grande enfasi sulla spiccata difficoltà del titolo (caratteristica che ha contraddistinto le opere del 2022), oggi cappello anche del reparto marketing dei titoli From Software, con conseguenza che a un’utenza che ha ricevuto il fenomeno più passivamente, risulti essere l’elemento connotativo più evidente dei soulsborne.

In effetti Demon’s Souls arriva nel nel 2009, periodo in cui i videogiochi, puntando con sempre maggiore veemenza al pubblico generalista, allora in grande crescita, abbassavano incredibilmente il livello di sfida a favore di un’accessibilità forzosa ed eccessiva, generando dei titoli nei quali non solo perdersi era impossibile, con qualche freccia o indicatore costantemente presente a schermo, con degli apici nei quali persino il game-over non era contemplato, come dimostrava il reboot del 2008 di Prince of Persia e come confermerà Bioshock Infinite nel Marzo del 2013.

Tuttavia, la difficoltà non è una componente centrale per identificare un soulslike; infatti, piuttosto che di difficoltà, si dovrebbe parlare di severità nella punizione degli errori. Ma sopratutto, come sottolineava già la recensione di IGN di Demon’s Souls, è caratteristica dei soulslike la possibilità di personalizzazione del personaggio, non solo a livello estetico ma sopratutto a livello ludico, con delle armi ed equipaggiamenti che offrono approcci radicalmente diversi all’esperienza con un arsenale composto sia da armi veloci e agili, che spadoni impossibili e ingombranti, passando per armature in grado di modificare il numero di I-Frames durante una schivata.

L’atipica componente online che caratterizza i soulsborne non è una componente essenziale per un soulslike, ma è un’aggiunta gradita ai più, capace di donare maggiore longevità grazie alla componente PvP, ma anche come scusa per presentare storie e plausibili movimenti degli NPC all’interno del mondo di gioco, evocabili come fossero altri videogiocatori connessi e regalando l’illusione di un mondo vivo dietro al codice.

Il Gameplay

Il gameplay di un soulslike è senza dubbio l’elemento che meglio di qualunque altro ne definisce i connotati.

Delle riflessioni ponderate e meditate devono precedere l’input dei comandi. Premere compulsivamente il pulsante di attacco o di schivata, risulterà inevitabilmente in una morte prematura: nessuna disattenzione è concessa. Conoscere bene i movimenti del nemico aiuta molto, ma non è essenziale. È sufficiente riuscire a leggerne i movimenti, insieme a una buona dose di riflessi per anticipare quale sia il momento giusto in cui colpire, e quale quello per ritirarsi. È invece richiesta una buona conoscenza del moveset dell’arma impugnata.

Anche il gameplay, per quanto fresco e a modo suo innovativo, non è una vera invenzione della casa di sviluppo nipponica. I soulslike si contraddistinguono per i tempi di recupero lenti dopo ogni attacco, che lasciano scoperti alle violenze dei nemici in combinazione a una corretta gestione di stamina e cure, ma sono di per sé riconducibili alla celeberrima serie Monster Hunter di enorme successo nella terra del Sol Levante.

Il mondo di un soulslike

Per essere definito tale, il mondo di un soulslike deve essere provvisto di numerosi shortcut che colleghino l’intero mondo (come nel caso della prima metà di Dark Souls), o le singole zone delle varie aree che compongono il mondo di gioco (come nel caso di Bloodborne o Dark Soul III).

Le singole zone possono essere ricche di segreti, e i fan spesso apprezzano quando la densità di quest’ultimi tende verso l’alto, ma il world e level design non si deve limitare all’abbondanza di shortcut per spostarsi agilmente da un punto all’altro dell’area, bensì deve essere foriero di un tipo di narrazione che è stata ri-popolarizzata da Miyazaki. Non è un mistero, infatti, che tra le fonti di ispirazione del papà dei souls vi siano le opere di Fumito Ueda, in particolare ICO.

La trama dei souls, o più specificatamente in questo caso, la tanto decantata “lore” (pur consapevoli che non siano la stessa cosa), si ricava sì dalle descrizioni di armi, oggetti ed equipaggiamenti sparsi in giro per il mondo, ma anche da elementi visivi dello scenario.

Una statua mancante nell’area di un duplice boss che gli amanti del primo Dark Souls ricorderanno bene, ha generato a lungo discussioni e teorie da parte dei fan su chi fosse rappresentato in quella scultura e il conseguente rapporto dell’individuo mancante in questione con le altre rappresentazioni presenti. Una porta chiusa a chiave dall’esterno suggerisce che qualcuno abbia volontariamente rinchiuso il malcapitato che si celava nella stanza dietro la porta. Forse come punizione per i peccati commessi.

Insomma, come i mondi di Fumito Ueda sono in grado di raccontare delle storie senza l’ausilio di cutscenes esplicative o dialoghi esaustivi, così un soulslike deve essere in grado di narrare “silenziosamente” mediante l’ausilio di dettagli a schermo e modelli poligonali.

I “falsi”

Considerato il discorso appena concluso, qualcuno potrebbe domandarsi se quindi in qualche misura si possa quindi considerare Ico un soulslike. La riposta ovviamente è no. Come è stato discusso, il soulslike, come tra l’altro grande parte degli altri generi videoludici, fonda le sue radici in diversi altre macro-categorie. Come l’action RPG e il metroidvania, per cui è naturale trovare elementi apparentemente “souls” in giochi che concettualmente non potrebbero esserne più distanti.

Hollow Knight, ad esempio è un chiaro esempio di metroidvania che viene però spesso accomunato ai souls. Esso in realtà possiede delle caratteristiche “derivate” dai titoli di casa FromSoftware, come ormai è comune a moltissimi generi, sempre più difficili da incasellare in delle strette categorie e che amano miscelarsi generando nuove divertenti dinamiche); esempi sono: l’ambiguità degli NPC, mai del tutto esaustivi, la spiccata enfasi sulla narrazione ambientale silenziosa e, più in generale, un’atmosfera cupa e ineffabile molto vicina ai canovacci soulsborne.

Sia Doom che What remains of Edith Finch, ad esempio hanno in comune la visuale in prima persona (che per molti anni è stata prerogativa del genere dei doom-clones), ma ciò naturalmente non è sufficiente per ritenere i due giochi appartengano al medesimo genere.

La derivazione dei souls, allora (ma di quasi tutti i generi in verità), non si limita al banale assemblaggio di elementi presi ora dall’action RPG, ora del metroidvania, ma è una fine pratica di rielaborazione di meccaniche e dinamiche per dare luce ad un tipo di esperienza del tutto nuova.

In sintesi: le caratteristiche di un Soulslike

Le caratteristiche essenziali affinché un gioco possa essere considerato un Soulslike in definitiva non sono moltissime, ma appartengono ad aspetti diversi dell’interazione con il videogiocatore.

Dal punto di vista del gameplay puro, ci si aspetta un combattimento non necessariamente “lento”, ma comunque punitivo e meditato, con dei tempi di recupero a seguito di ogni attacco che lasciano scoperti, punendo così fretta o disattenzione dei videogiocatori. Anche la gestione della stamina fa parte del combat del genere, attaccare o schivare troppo frequentemente, oltre a essere poco efficace come approccio, porterà a un rapido consumo della stessa, lasciando il giocatore scoperto durante la fase di recupero.

Dal punto di vista dell’esplorazione o, più in generale del mondo di un soulslike, è prerogativa del genere una mappa interconnessa e ricca di segreti da scoprire, con shortcut che colleghino tra di loro o intere aree del mondo o all’interno delle singole zone di gioco.

In ultimo, pur se non essenziale, è caratteristica comune del genere una narrativa silenziosa, aspetto che non riguarda necessariamente la trama, ma che è in grado di trasmettere coerenza tra i personaggi del mondo e la loro locazione all’interno dello stesso, oltre ad aggiungere dettagli e significato alla storia del mondo che ci si accinge a esplorare.

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Editoriali

I videogiochi come esperimenti d’interazione

Se c’è qualcosa che mi ha sempre affascinato particolarmente nel medium del videogioco rispetto a qualunque altro media, è l’attiva interazione con l’utente. Un film o un brano musicale, ad esempio, scorrono imperterriti a prescindere che un utente sia in grado di recepire il messaggio in quel dato momento. In quest’editoriale, cercherò di analizzare al meglio delle mie capacità portando degli esempi ritenuti illustri di cosa significhi davvero interagire con un videogioco, cercando di raccapezzarmi circa fino a dove è stata spinta la reciprocità del rapporto tra utente e software.

Videogiochi e Videogiocatori

Il medium videoludico (o quantomeno nella stragrande maggioranza delle sue declinazioni) per procedere necessita inderogabilmente di un individuo che vi si rapporti, compiendo delle determinate azioni affinché la narrazione possa proseguire.

Questo rapporto tra utente e software è sempre stato a tutti gli effetti il tratto caratterizzante del videogioco e, in quanto tale, è da semore grande motivo di studio e di sperimentazione da parte dei game designer più disparati. I risultati di tali esperimenti sono necessariamente variabili, eppure c’è da ammettere che quando il software riconosce il videogiocatore come entità fondante dell’esperienza, che questo sia esterno o interno alla narrazione, l’essere riconosciuto è sempre motivo di shock per l’utente. Il videogioco, quando abbatte la quarta parete, ci tira fuori dalla finzione rammentandoci del nostro ruolo nell’interazione e, in certi casi, se ben eseguito, tale escamotage finisce al contrario per immergerci ancora di più nella finzione.

Metal Gear Solid

Un esempio che è stato capace di distinguersi e di rimanere iconico nel tempo è sicuramente l’interazione con Psycho Mantis nel primo Metal Gear Solid. Poco prima dello scontro con il boss, durante una cutscene, questi mostrerà i suoi problemi -appunto- psichici leggendovi la memoria, elencando alcuni salvataggi presenti nella memory card.

Avviene dunque una strana simbiosi fra il giocatore ed il protagonista, in quanto durante il processo di “lettura dei ricordi” è implicito che i ricordi del protagonista coincidano con quelli del giocatore. Tuttavia, riconoscere il videogiocatore non si limita a includerlo nelle vicende del videogioco più o meno indirettamente come già sperimentava Kojima nel 1998.

Metal Gear Solid

Shadow of the Colossus

Appena nella generazione successiva, il 18 ottobre del 2005, Fumito Ueda rilascia sul mercato Shadow of the Colossus, oggi riconosciuto come un Cult da pubblico e critica specializzata. Pur essendo di per sé un action-adventure-puzzle game (rimarcando già allora quanto flebili e miscelabili fossero i generi in cui cerchiamo di far rientrare ogni possibile iterazione videoludica) si rifaceva in parte a quelli che erano gli stilemi già allora consolidati dei JRPG ma sublimandoli e portandoli all’esasperazione.

Era già ampiamente approvato che nei JRPG, a differenza di quanto avviene nei RPG di stampo occidentale, in cui l’utente interpreta personaggi blank su cui proiettare il personaggio che più si preferisce, nei giochi di ruolo provenienti dalla terra del sol levante, il videogiocatore è tenuto a impersonare un personaggio a sé stante con desideri e ambizioni proprie, indipendenti dalla volontà del giocatore, seppur delle scelte che abbiano un’influenza più o meno rilevante nella trama e che riguardino più da vicino l’utente siano sovente ben accette.

Shadow of the Colossus

In Shadow of the Colossus, si interpreta un personaggio di cui non si sa nulla, che abita un mondo altrettanto misterioso. Le informazioni date in mano al giocatore sono frammentate e sporadiche, capaci sì di far innamorare di quel mondo immaginario, ma la cui misteriosità tiene al contempo a debita distanza.

In questa iterazione, avviene esattamente l’opposto di quanto proposto da Kojima nello scontro con Psycho Mantis, il giocatore è tenuto ad identificarsi non più in una proiezione di sé che sfida la quarta parete, ma in un individuo di cui non conosce nulla, e per di più di cui non approva lo scopo finale.

L’intera missione di Wander (iconico protagonista del videogioco) è dalla dubbia moralità, e difficilmente può venire integralmente abbracciata dal giocatore: tutta l’esperienza è studiata affinché alla riuscita del nostro obiettivo, cioè quella di abbattere i suddetti colossi, il giocatore provi un ambiguo senso sì di gratificazione, ma comunque permeato di un controverso senso di colpa, da sentimenti di pura vergogna. Come se le azioni appena compiute fossero in qualche modo sbagliate, immorali, degenerate.

L’impegno del giocatore anche in questo caso è essenziale, in quanto come è stato evinto qualche paragrafo fa, la partecipazione del giocatore è fondamentale affinché il titolo possa proseguire nella narrazione. D’altro canto, però, lo sforzo in questo caso viene percepito come effimero,in quanto possiamo soltanto lasciarci trascinare dal flusso degli eventi, obbedendo alle regole imposteci da Ueda. È necessario che noi abbattiamo i prossimo titano, non importa quanto degenerato possa apparire ai nostri polpastrelli.

Hardware

Da allora sono stati numerosi i tentativi di modificare l’interazione diretta con il videogiocatore, coinvolgendolo più fisicamente con risultati dall’effetto decisamente variabili. Il primo esempio che giunge subito alla mente è senza dubbio l’esperimento di Xbox con il Kinect, che ha conosciuto decisamente poca fortuna sopratutto se confrontato ai ben più illustri Wiimote di Nintendo, da cui Microsoft ha certamente preso spunto.

In verità, la ricerca di un esperienza del genere ha radici ben più profonde con il fallimento che fu il Virtual boy, o i curiosi esperimenti di Playstation2 come Buzz o la dimenticata EyeToy. Ma oggi, grazie ai visori per la realtà virtuale, abbiamo conosciuto un tipo d’interazione che sfida i metodi classici di approccio al videogioco, pur senza snaturarlo del tutto.Senza però dover ricorrere a modifiche di natura Hardware, alcuni titoli dalla matrice più “tradizionale” sono stati in grado di riproporre in maniera più moderna alcuni tropes dell’interazione tra videogiocatore e videogioco di cui abbiamo discusso.

The Last of Us Part I

Primo tra tutti, The Last of Us Part I, che notoriamente costringe il giocatore a impersonare un individuo dall’indole violenta temprata da atroci sofferenze. In un colpo di scena ben congeniato e preparato, l’utente è nuovamente costretto a compiere delle azioni vergognose e immorali (per quanto riguarda ciò che definiamo come moralità oggi), di cui non condivide l’esito, eppure la sua unica possibilità è quella di procedere nell’esecuzione dei comandi, percependo come, questa volta, al contrario di quanto siamo troppo spesso portati a credere, è il videogioco a guidare il videogiocatore, lasciando scivolare l’inganno per cui è il videogiocatore a guidare le sorti dell’avventura.

Queste interazioni ci ricordano che non è così, anzi, nessuna scelta che possiamo compiere, nessuna strada che possiamo intraprendere non è già stata contemplata dal codice del software. Al videogiocatore non resta che l’illusione del controllo.

I videogiochi, infatti, illudono soltanto di poter compiere una scelta, The Last of Us Parte I lascia coraggiosamente cadere la maschera e ci insegna come le azioni compiute fino ad allora non fossero frutto della nostra volontà come giocatori, ma al contrario che noi non siamo che il mezzo attraverso cui la storia si protrae.

The Last of Us Part I

The Stanley Parable insegna che l’interazione è tutto

David Wreden con The Stanley Parable, segna un punto di svolta nel discorso attorno al videogioco, abbattendo formalmente l’idea protrattasi negli anni per cui nei videogames, la volontà del videogiocatore è direttamente chiamata in causa.

Compiere delle scelte in grado d’influenzare le vicende non è infatti compito dell’utente finale, bensì di chi il software lo sviluppa e decide come e quando dare la possibilità al giocatore di sentirsi protagonista, di sentirsi influente. Tutti i possibili esiti sono già stati previsti e collaudati.

Cosa rimane dunque al videogiocatore? Se ogni possibile conclusione è già ampiamente determinata a priori, qual è la funzione di compiere una scelta? Chiaramente in (quasi) nessun altro media ci si aspetta che la propria influenza abbia un impatto così rilevante, per cui anche solo godersi la narrazione proposta è una valida soluzione.

D’altronde non sono neppure tutti i giochi a suggerire all’utente che la sua partecipazione è determinante. Molti titoli definiti a ragione lineari si aspettano che le azioni del giocatore abbiano impatto solo durante la fase di gameplay, o magari il gameplay è l’unico elemento portante dell’esperienza. Tuttavia, al fine di godersi l’esperienza al massimo, è talvolta necessario dimenticare tutti i discorsi e le sovrastrutture che abbiamo imparato a riconoscere, e lasciarci al contrario travolgere da delle avventure davvero in grado di farci sentire protagonisti.

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Scorn – Recensione

Recensione in BREVE

Scorn è un’esperienza capace di distinguersi. L’estetica horror ispirata agli immaginari di Giger immerge il giocatore in un mondo sì derivativo, ma che dimostra comunque di avere personalità e di essere in grado di reinterpretare i classici. Il lato puramente ludico è l’aspetto sicuramente meno curato del gioco, cionondimeno grazie a una eccellente narrazione silenziosa rimane criptica, ma a suo modo capace d’intrigare il videogiocatore.

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Di Scorn, se ne è già parlato abbondantemente, sia evidenziando i suoi lati positivi, sia sottolineandone le criticità. Quando mi sono approcciato per la prima volta alla recensione di Scorn, la prima domanda che mi sono posto è stata: «Ho qualcos’altro da aggiungere che non sia già stato precedentemente discusso, analizzato, commentato o criticato?»

Fortunatamente, per propria natura, Scorn è un titolo che si presta a numerose interpretazioni, un’esperienza gravida di spunti di discussione e di riflessione, tale da consentire punti di vista sempre diversi e vari, ciascuno valido a modo suo, consentendomi di rispondere affermativamente alla domanda postami sopra.

Scorn: horror

Spoiler Alert
Questo articolo contiene dettagli rilevanti sulla trama di Scorn

Un primo sguardo

Il gioco – nato dalla mente del gamer direct Ljubomir Peklar, dalle caratteristiche che richiamano apertamente Giger e le pellicole di Cronembergsi allontana senza vergogna dal videogioco tradizionale, mirando a essere un esperienza che emerge in confronto alle produzioni contemporanee e ponendo grande enfasi sulle suggestioni visive dei panorami sempre orrorifici, ma comunque pregni del misterioso fascinoso che avvolge l’intera avventura.

Tuttavia, è proprio quando l’esperienza si scontra con il doversi interfacciare a un utente attraverso il medium scelto, il videogioco, che emergono gli spigoli e le sbavature del titolo.

Ed è da questo presupposto che nasce in definitiva la mia volontà di scrivere di Scorn: è sufficiente essere diverso? Un’esperienza unica, differente (almeno nelle atmosfere) da tutto quello che ho avuto modo di provare finora nel medium, può permettersi di preoccuparsi meno del suo interfacciarsi a un individuo giocante?

Affinché un film possa essere considerato tale, è necessario che qualcuno possa testimoniare che le sequenze video che lo compongono, apparentemente sconnesse, siano in realtà legate a doppio filo da un intreccio di campi e controcampi, di eventi che si avvicendano in montaggi paralleli e alternati, di successioni in raccordi di sguardi e di posizione.

Poco importa se il messaggio finale arrivi o meno, se lo spettatore abbia effettivamente compreso il senso (prima ancora del significato) di quanto stia accadendo nello schermo davanti ai propri occhi.

Scorn se ne infischia di inviare un messaggio chiaro e univoco, preferisce piuttosto lasciarsi decifrare e interpretare dal giocatore stesso, il quale si farà idee e impressioni differenti a quelle di ciascun’altro sulla base delle medesime suggestioni, immergendo il fruitore in un mondo vivo e disgustosamente pulsante, alieno e indecifrabile per i nostri standard. Ljubomir Peklar è riuscito con il supporto del suo team, a creare un’idea di vita derivativa ma alternativa, dai connotati e dalla psiche ineffabili.

Eppure, affinché il mondo e le creature proposte da Scorn possano esistere è necessario che vi sia qualcuno pronto a testimoniarlo: il videogiocatore. Ed è proprio quest’ultimo, ahimè, l’elemento meno considerato nell’avventura messa in piedi da Ebb Software.

Le suggestioni di Scorn

In un ambiente così finemente curato, modellato e texturizzato secondo uno standard qualitativo così alto e seguendo dei canoni artistici finemente definiti, tali da garantire un ambiente creativo, alieno ma comunque sempre coerente, è strano dover confessare che l’esplorazione non venga mai ricompensata.

Seguire la strada sbagliata, come siamo stati abituati a fare in altri giochi anche meno affini a Scorn, non viene mai premiato, anzi garantirà solo la frustrazione di dover ripercorrere lo stesso sentiero appena attraversato.

Eppure, questa estrema linearità del titolo è lungi dall’essere un difetto effettivo. Ben vengano le esperienze più lineari. Anzi, dirò di più, il senso di angoscia suscitato da Scorn viene al contrario, corroborato da questo level design labirintico e a tratti dispersivo che caratterizza il nostro pellegrinaggio profano per la fabbrica.

Viaggio dalla natura decisamente atipica, il nostro. Se è vero, come dicevo, che l’esplorazione non viene mai ricompensata, il dedalo che costituisce il nostro tragitto per gli ambienti proposti da Scorn, contribuisce a fomentare il costante senso di smarrimento che ci terrà compagnia durante tutto il gioco.

Sovente vi domanderete se stiate percorrendo la strada corretta mentre il vostro alter-ego virtuale apparirà sempre abbastanza sicuro di come vadano utilizzati i vari macchinari sparsi nell’ambiente, che fungeranno da puzzle da risolvere per poter proseguire. Introducendo un’interessante dissonanza – funzionale alla creazione dell’atmosfera di Scorn – tra il protagonista e il videogiocatore.

I Puzzle

I Puzzle sono senza dubbio alcuno l’elemento più smussato del gameplay, nonché il pilastro portante dell’esperienza dal punto di vista prettamente ludico.

Non saranno mai particolarmente difficili né tantomeno brillanti. Eppure il team di sviluppo sembra aver trovato un furbo escamotage al fine di mantenere alta la gratificazione del giocatore alla risoluzione degli enigmi. Dal momento che saremo sempre incerti dell’effettivo funzionamento di questo o quel marchingegno, quando – a rompicapo risolto – avremo compreso come vadano utilizzate le varie parti che lo compongono, potremo sentirci appagati dal nostro risultato, come avessimo appreso una lettera nuova dell’alfabeto apocrifo di Scorn.

Scorn: shooting

Lo Shooting

Ho trovato frustranti oltre ogni ragionevole senso le fasi di shooting, specialmente quelle più avanzate, in cui morire non sarà un avvenimento così raro.

I colpi dei nemici sono difficili da evitare, costringendo il giocatore a una boriosa pratica in cui si ruoterà attorno alla creatura nemica per ingannarne l’IA o, alternativamente, a praticare la non più nobile arte della fuga a gambe levate.

La ricarica e il cambio delle armi sono particolarmente sceniche e definitivamente piacevoli da vedere, ma altresì eccessivamente lente, rimandando al ragionamento fatto sopra a proposito di come la Quality of Life generale sia stata sacrificata in nome di un’estetica appagante. Soddisfazione che arriva senza indugio, e in cui il team di sviluppo ha senz’altro avuto successo; eppure aver dovuto sacrificare altro dell’esperienza generale pesa in queste sezioni più che mai, strattonando fuori il giocatore dall’immersione a cui tutti gli altri elementi miravano con così tanta perizia.

Da un certo momento in poi, inoltre, le armi saranno perennemente presenti a schermo, rubando una discreta, seppur fortunatamente non così invadente, sezione dello schermo che sarebbe altrimenti potuta venire adibita alla contemplazione dei tanto decantati scenari, privati in questo modo della parte bassa dell’inquadratura per una buona parte dell’esperienza.

Due parole sul lato tecnico

Il furto dello scenario da parte delle armi a schermo è una svista non indifferente, vista la squisita direzione artistica di Scorn, sempre coerente ma non per questo poco varia, con scenari che spaziano da angusti corridoi pulsanti della fabbrica “bassa” a spazi aperti all’esterno della stessa o zone che ricordano più apocrifi luoghi di culto.

La fotografia è eccellente, e trova il suo apice nelle (seppur sporadiche) validissime cutscene del gioco. Con una luce sempre adatta a suggerire la natura aliena del posto, distante da quella solare a cui siamo abituati, quasi dovesse prima traversare una fitta nube di polveri prima di poter rimbalzare sul suolo, celebrando le composizioni di certe ambientazioni che non hanno nulla da invidiare alle più ricche tavole di un fumetto.

Ottimo anche il comparto audio, che immerge il giocatore in una moltitudine di suoni dalla dubbia provenienza, allo scopo di tenere i nervi del giocatore sempre sull’attenti, avvolgendolo da tutte le direzioni in attesa di un prossimo pericolo.

A questo proposito, suggerisco di giocare utilizzando delle cuffie o un buon impianto stereo, perché l’ambiente trae grande giovamento dal comparto audio, che arricchisce l’atmosfera con toni più horror di quanto non avessi preventivato, suggerendo dei JumpScare che poi, nel concreto, non arrivano quasi mai, mantenendo il giocatore in uno stato di ansia e angoscia perenne convenevole al senso di Scorn in quanto esperienza.

Per quanto riguarda modellazione e texturing, il livello generale è davvero ragguardevole per una produzione di questa portata, e il team di sviluppo sembra sapere bene dove e come vadano nascoste magagne che, in definitiva, l’utente finale non noterà mai.

Anche i bug sono rari e sporadici, consentendo un’immersione coerente e prolungata.

Scorn

Il rapporto con il videogiocatore

Se uno dei difetti discussi è stata la mancanza di attenzione da parte di Scorn nei riguardi del giocatore, non si può tuttavia negare che gli sviluppatori non abbia chiaro quale sia il pubblico di riferimento: videogiocatori navigati che sanno a cosa stanno andando incontro.

Il videogiocatore non viene mai preso per mano in modo eccessivo e ridondante come capita in altri titoli fin troppo pregni di guide e spiegazioni onnipresenti.

Ad esempio, la totale assenza di tutorial per spiegare come ricaricare o sostituire le armi, è compensata da un’interfaccia richiamabile in qualsiasi momento nel menù pausa, che illustra tutti i comandi necessari a compiere qualsivoglia azione. La troverete utile in più di un’occasione.

Notevole anche come Scorn sia in grado di sovvertire le aspettative. Un esempio è durante una sequenza in cui, nel più classico degli esempi del genere horror, dovremo percorrere lo stesso tragitto attraversato da una misteriosa quanto spaventosa creatura che ci precederà sempre di qualche passo. Quando finalmente ci confronteremo con l’essere, ad attenderci, piuttosto che il banale jumpscare che attendevamo, questa si legherà a noi attraverso delle pratiche che ricordano da vicino Cronenberg e il body-horror in generale, diventando contemporaneamente minaccia alla nostra sopravvivenza e strumento essenziale alla riuscita del nostro viaggio dallo scopo incerto.

Anche dal punto di vista dell’immedesimazione è stato fatto un gran lavoro: durante una delle cutscene discusse, assisteremo alla presunta nascita del nostro alter-ego, il quale svegliatosi nel processo di una sorta di disgustoso parto alieno, dovrà recidersi con le proprie mani quello che appare come un cordone ombelicale. Quando il nostro protagonista preso di coraggio, afferrerà il cordone con le mani, questi le allontanerà istintivamente in tutta fretta, dando la chiara sensazione dell’essersi sorpreso di poter percepire l’ambiente circostante proprio da questa protuberanza.

Riflessioni conclusive

Nonostante i difetti che sono stati discussi, la totale assenza della rigiocabilità e lo shooting che non rende giustizia a un lavoro altrimenti così degno di attenzione, ogni qualvolta avessi del tempo libero, avevo sempre voglia di rimettermi a giocare a Scorn.

Tralasciando il mio lato hipster che gode nell’apprezzare opere non adatte a tutti e che hanno il coraggio di essere differenti, ho trovato difficoltà a decidermi su come impostare questa discussione, se sotto un’ottica positiva o negativa, data la grande quantità di difetti che lo permea.

La Quality of Life generale è sacrificata in nome dell’impatto estetico, mentre gli scontri con i nemici sono talmente frustranti e boriosi da costringere alla fuga nella maggior parte delle situazioni in cui è possibile, vista la scarsa qualità dell’IA nemica, che si dimenticherà in fretta di voi.

Ciònonostante, ogniqualvolta tornassi a casa, maturava in me il desiderio di rimettermi a giocare, di scoprire cosa si nascondesse dietro quel marchingegno corrotto, di svelare quale mistero si celasse nella fabbrica.

Che siano stati i puzzle, in definitiva non così brillanti, ma sempre gratificanti, il senso di smarrimento costante provocato da un level design caotico e labirintico, ma comunque capace di guidare il giocatore verso la prossima meta.

Che sia stata la curiosità nello scoprire le vicende dietro lo scopo della fabbrica, l’origine della piaga, l’intento del parassita o dello stesso protagonista, a farmi apprezzare il gioco non mi è dato saperlo, probabilmente si tratta di una comunione tra gli elementi discussi sopra.

Certamente mi sono soffermato più di qualche volta ad ammirare i paesaggi di Scorn, sempre alieni e orrorifici, ma comunque ricchi di fascino e a loro modo irresistibili, domandandomi se delle ambientazioni così gradevoli e curate valessero un esperienza complessivamente mediocre, che di certo non trova il suo picco nel lato gameplay, ma che non cerca neanche di trovare la sua strada nel genere del walking sim (troppo spesso ingiustamente bistrattato), in quanto ambisce a un gameplay “vero e proprio“, attraverso lo shooting e i puzzles, ma che non risulta mai soddisfacente quanto desidera.

Il finale, invece, forse possibilmente anticlimatico ma comunque coraggioso e ricco di libere interpretazioni, spiazza ogni possibile dubbio: Scorn è un esperienza consigliata e da provare pad (o tastiera) alla mano.

La paura che un titolo del genere possa risultare troppo derivativo e che non trovi il suo spazio tra le fonti d’ispirazioni palesi del calibro di Giger o Cronemberg, è sensata e plausibile. Tuttavia, Ljubomir Peklar riesce a prendersi un posto in quell’olimpo del body horror, commistendo la giusta dose di citazioni ai classici del genere a delle idee potenti e originali.

Un’esperienza capace di reggersi sulle proprie gambe, anche senza dover essere amanti del genere di riferimento o senza conoscere le fonti d’ispirazione.

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Editoriali

Xbox Game Pass: 5 gemme nascoste da non perdere

Da quanto emerge da un documento spedito da Sony all’antitrust inglese in merito all’acquisizione da parte di Microsoft del celeberrimo publisher Activision-Blizzard, gli utenti di Xbox Game Pass ammonterebbero a 29 milioni, seppur in seguito Phil Spencer abbia più o meno ufficialmente ribassato la cifra a 25 milioni.

Qualunque sia la verità, è palese che il servizio in abbonamento della casa di Redmond abbia già preso posto nelle case di noi videogiocatori, grazie agli oltre 400 titoli presenti nel catalogo, tra cui spiccano i nomi di giochi del calibro di Deathloop, Persona 5, Dragon Quest XI, Assassin’s Creed Origins, i vari Battlefield presenti nel catalogo di Game Pass + EA Play ed il venturo Starfield.

Cionondimeno, ci sono anche videogiochi indie meno noti al grande pubblico, ma non per questo meno validi o intrattenenti. Stiamo parlando di cinque gemme nascoste da non lasciarsi sfuggire nello sconfinato catalogo del servizio di videogames in abbonamento più popolare del momento.

Donut County

Nato principalmente dalla fantasia di Ben Esposito, arriva su Game Pass direttamente dalle mani di un autore già celebre per aver lavorato anche a giochi come What Remains of Edith Finch, The Unfinished Swan ed il recentissimo Neon White. Donut County è un titolo dalle premesse semplici: “Un gioco carino in cui interpreti un buco nel pavimento”, per citare quanto riportato nel sito dello sviluppatore.

Se già l’incipit appare di per sé quantomeno originale, è il gameplay la colonna portante dell’esperienza che, richiamando senza vergogna avventure come Katamari Damacy, si basa su degli enigmi nei quali, interpretando il sopracitato buco, dovremo inghiottire elementi dello scenario via via più grandi in modo da poter passare al livello successivo. Dopo il nostro passaggio, infatti, sarà appagante constatare come non sarà rimasta che una distesa deserta (o in fiamme) laddove prima erano presenti costruzioni di varia natura.

La scrittura dei disparati dialoghi è davvero di pregevole fattura, e tiene incollati allo schermo per la durata delle circa due ore di durata del titolo, con buffi scambi tra i personaggi che intervallano le varie sezioni di gioco, sempre sagaci ed ironici, attraverso i quali conosceremo la storia del procione che per pigrizia ha scatenato l’inarrestabile buco e degli altri, sempre bizzarri e sopra le righe, abitanti della cittadina.

Manca tuttavia la localizzazione in italiano, per cui sarà necessario masticare un po’ di inglese per comprendere la divertente, ma non essenziale trama del gioco.

Pikuniku

Rileggendo la lista che ho stilato prima di scrivere questo testo, quando ho scelto i 5 giochi da consigliare, mi sono subito reso conto quanto semplice sia evincere da questa selezione diversi aspetti del mio carattere ed, in particolar modo, il mio senso dell’umorismo.

Sì, perché è senza dubbio necessario parlare di umorismo per descrivere il gioco sviluppato da SectorDub.

Apparentemente adatto a tutte le età, e nell’aspetto e nella difficoltà effettivamente lo è (classificato PEGI 7), cela in realtà un umorismo che farà molto piacere a chi, come il sottoscritto, è un amante del nosense.

A livello puramente ludico, si tratta di un misto tra un platform 2D ed un rompicapo con enigmi ambientali mai troppo complessi da affrontare in solo o in coop “da divano”.

Interpretando un mostro bipede, ci avventureremo in uno strampalato mondo popolato da creature ancora più bizzarre, in una trama che resta semplice, ma che si infittisce fino all’assurdo, anche grazie ai suoi irrazionali protagonisti, rivelando infine un misterioso complotto che avremo il compito di debellare.

Il gioco di per sé non ha molte pretese e fa poche cose ma buone, regalando anche dei minigiochi intrattenenti ma mai invadenti.

Consigliatissimo a grandi e piccini ed a chiunque abbia voglia di farsi delle grasse risate sulle spalle degli insensati e coloratissimi personaggi dell’altrettanto variopinto mondo di Pikuniku.

Prodeus

Prodeus è una delle gemme nascoste dell'Xbox Game Pass

Se siete appassionati di retro shooters, boomer shooters, doom’s clones o come preferite chiamarli, Prodeus è senz’altron pane per i vostri denti.

Alcune criticità sono da evincere: la ricarica un po’ troppo frequente di alcune armi e la pessima gestione dello shop per acquisire i diversi power-up e le nuove armi con cui fare fuori schiere di demoni.

Della trama non sto neanche a parlarne, l’fps ideato da Bounding Box Software e disponibile nel catalogo di Xbox Game Pass segue la filosofia un tempo descritta da John Carmack per cui la storia di un gioco è equiparabile a quella di un film porn: “Ci si aspetta che ci sia, ma non è così importante”. Prodeus sintetizza la trama riducendola a delle scritte facilmente skippabili su schermo, richiamando alla memoria vecchie glorie del passato degli fps, e consentendo al giocatore di passare subito all’azione.

Lo shooting è frenetico e soddisfacente, costringendo il giocatore a non rimanere mai fermo, pena la sconfitta. Le morti saranno abbastanza comuni, ma non estenuanti, in quanto si ripartirà dall’ultimo checkpoint.

Buono il comparto audio, che restituisce pienamente il feeling dei colpi andati a segno.

Complessivamente, un’esperienza appagante e non eccessivamente longeva (circa 8 ore), che saprà gratificare chiunque desideri del sano gore e spappolare una moltitudine di demoni a suon di proiettili.

Se avete già finito gli intramontabili classici IDSoftware presenti nel catalogo ed ancora non siete sazi di interiora di demoni, questo è senz’altro il gioco che stavate cercando.

The Pedestrian

The Pedestrian è una delle gemme nascoste dell'Xbox Game Pass

L’opera prima di Skookum Arts è una chicca a mio avviso imperdibile per tutti gli amanti dei puzzle 2D.

In questa curiosa avventura presente su Game Pass, impersoneremo un pedone, come suggerisce il titolo, ovvero l’omino (o la donnina, per così dire, in base ad una scelta iniziale) dei vari segnali stradali o delle indicazioni urbane. Questi ha infatti magicamente preso vita e necessita del nostro soccorso per spostarsi da cartello in cartello, da segnaletica in segnaletica.

Per la durata delle circa 4 ore di durata del titolo, si susseguiranno numerosi puzzle, quasi tutti validi ma con pochi “momenti wow” come amo definirli io (cioè rivelazioni, nuovi significati di meccaniche già conosciuti, epifanie), ma compensando con numerose meccaniche che si avvicendano al cambiare dell’ambientazione, come dover collegare elettricamente elementi di una parete con gli allacci elettrici di un cartello per aprire una porta, o dipingere un cartello per paralizzare gli elementi al suo interno, mettendo a dura prova l’ingegno e la capacità di problem solving dell’utente.

In particolare, proprio quando penseremo di aver già visto tutto quello che il titolo aveva da offrirci e i puzzle cominceranno ad apparire stantii, un finale a dir poco sorprendente ci sconvolgerà.

Sconvolgimento non da legare alla trama, che è praticamente assente (salvo fare un fumoso capolino nell’ultimissima parte dell’esperienza, pur rimanendo sempre solo accennata), ma legato a doppio filo a come The pedestrian va inteso come gioco, ribaltando le nostre idee sul titolo e costringendo l’utente per l’ennesima volta a doversi riadattare ad un importante cambiamento nelle meccaniche.

Gorogoa

Gorogoa è una delle gemme nascoste dell'Xbox Game Pass

Ennesimo pozzle di questa lista, ma data la sua qualità generale non potevo escluderlo.

Fra i titoli dell’elenco, Gorogoa, il gioco nato dai disegni di Jason Roberts e sviluppato da Buried Signals e pubblicato dall’ormai nota ed amata Annapurna Interactive è sicuramente il più avveniristico.

Catapultati da (quasi) subito in un interfaccia divisa in 4 blocchi, senza un vero e proprio tutorial, per procedere dovremo spostare e sovrapporre i vari elementi che compongono i quadranti per procedere in quella che è una storia disseminata nei secoli, dal significato fumoso e mai esplicito, che si lascia interpretare dal giocatore, senza imporre un messagio univoco.

Se per The Pedestrian i puzzle erano vari e diversificati tra loro, ma con pochi “momenti wow” come li ho definiti, qui le circostanze si ribaltano completamente: spostare i vari blocchi per i quadranti rimarrà una meccanica immutata dall’inizio alla fine: saranno infatti le risoluzioni degli enigmi ad essere di volta in volta diverse e sempre originali, costringendoci a pensare “lateralmente” e sorprendendo l’utente di volta in volta con intuizioni difficili da prevedere ma mai troppo ostiche.

Consigliato a chiunque sia alla ricerca di un’esperienza breve ma dalla forte personalità, capace di distinguersi ed eccellere nelle poche meccaniche date in pasto all’utente.