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Microtransazioni nei videogiochi: il dibattito infinito

Le microtransazioni nei videogiochi sono diventate un argomento di grande discussione all’interno della comunità dei giocatori e oltre. Mentre alcuni le accolgono come una forma di personalizzazione e supporto ai giochi, altri le considerano un esempio di pratica commerciale controversa che può compromettere l’esperienza di gioco.

In questo articolo cercheremo di analizzare il fenomeno (sempre crescente e radicato) da ogni angolazione e in maniera asettica cercando più di sviscerarlo che di giudicarlo. Ecco perché non faremo esempi concreti di microtransazioni citando questo o quel titolo. La nostra speranza è quella di fornire un quadro completo del fenomeno. Al lettore, poi, la libertà di lodarlo o criticarlo.

Le microtransazioni, come suggerisce il nome, sono piccoli acquisti effettuati all’interno di un gioco per ottenere contenuti aggiuntivi, potenziamenti o personalizzazioni per il personaggio o l’esperienza di gioco. Possono variare da semplici skin cosmetiche a oggetti in-game che influenzano direttamente il gameplay.

Da una prospettiva commerciale, le microtransazioni sono diventate una fonte di entrate significative per gli sviluppatori di giochi. I giocatori possono essere disposti a spendere denaro reale per ottenere vantaggi competitivi o per personalizzare il loro avatar. Tuttavia, questa pratica ha sollevato molte preoccupazioni, soprattutto riguardo alla sua potenziale influenza sui giochi stessi e sulla loro equità.

Uno degli aspetti più controversi delle microtransazioni è la loro presenza nei giochi gratuiti o a pagamento. Nei giochi free-to-play, le microtransazioni spesso fungono da principale fonte di reddito per gli sviluppatori, consentendo loro di offrire il gioco gratuitamente mentre ancora guadagnano dalla vendita di contenuti in-game. Tuttavia, in alcuni casi, queste microtransazioni possono portare a un modello di gioco “pay-to-win“, dove i giocatori possono ottenere un vantaggio significativo spendendo denaro reale.

Anche nei giochi a pagamento, le microtransazioni sono diventate sempre più comuni. Molti titoli offrono pacchetti di contenuti aggiuntivi o espansioni che possono essere acquistati separatamente per arricchire l’esperienza di gioco. Tuttavia, alcuni giocatori ritengono che questi contenuti aggiuntivi dovrebbero essere inclusi nel prezzo di base del gioco, portando a una sensazione di essere esclusi da parti significative del gioco a meno che non si spenda ulteriormente denaro.

L’impatto delle microtransazioni sulla qualità complessiva dei giochi è un argomento di grande rilevanza nel panorama videoludico moderno. Queste transazioni, sebbene offrano agli sviluppatori una fonte di reddito aggiuntiva e ai giocatori la possibilità di personalizzare l’esperienza di gioco, sollevano domande importanti riguardo al modo in cui influenzano il design, l’equità e la soddisfazione generale del giocatore.

Una delle principali preoccupazioni riguarda l’equilibrio del gameplay. Quando le microtransazioni offrono vantaggi competitivi agli acquirenti, possono generare uno squilibrio tra giocatori che spendono denaro reale e quelli che non lo fanno. Questo crea un ambiente in cui il successo dipende più dalla capacità di investire denaro che dalle abilità o dalla strategia di gioco. Tale modello può minare l’esperienza di gioco per coloro che preferiscono competere in base alla propria abilità, creando un ambiente frustrante e non equo.

Microtransazioni videogiochi: cosmetics

Inoltre, le microtransazioni possono influenzare il modo in cui vengono progettati i giochi. Gli sviluppatori potrebbero essere tentati a creare meccaniche di gioco che incoraggiano gli acquisti in-game, piuttosto che concentrarsi sull’equilibrio e sull’esperienza di gioco soddisfacente per tutti i giocatori. Questo può portare a un calo della qualità complessiva del gameplay, con decisioni di design dettate più dalla redditività che dalla coerenza o dall’innovazione.

Un altro aspetto da considerare è il rapporto tra il prezzo del gioco e il valore percepito dai giocatori. Quando i giochi richiedono un costo iniziale e poi offrono microtransazioni aggiuntive, alcuni giocatori possono sentirsi scoraggiati o delusi, specialmente se i contenuti aggiuntivi sembrano essenziali per un’esperienza di gioco completa. Questo solleva domande sulla trasparenza e sull’integrità dei prezzi dei giochi, con i giocatori che si chiedono se il prezzo iniziale rifletta realmente il valore offerto.

Tuttavia, va notato che non tutte le microtransazioni sono viste negativamente. Quando offrono solo contenuti cosmetici che non influenzano il gameplay, possono essere accettate come una forma legittima di supporto allo sviluppatore. I giocatori possono apprezzare la possibilità di personalizzare il proprio personaggio o l’aspetto del gioco senza compromettere l’equità o l’esperienza di gioco per gli altri.

Un’altra prospettiva positiva sulle microtransazioni riguarda la possibilità di finanziare lo sviluppo continuo di contenuti e aggiornamenti per i giochi esistenti. Questo può contribuire a mantenere viva una comunità di giocatori a lungo termine e a prolungare la vita utile di un gioco al di là del suo lancio iniziale. Tuttavia, è importante che questi aggiornamenti siano valutati in modo equo e che non vengano utilizzati come pretesto per monetizzare ulteriormente l’esperienza di gioco.

In risposta alle preoccupazioni dei giocatori, alcune aziende hanno introdotto politiche più trasparenti riguardo alle microtransazioni e hanno cercato di limitare il loro impatto sul gameplay. Ad esempio, alcuni giochi offrono solo contenuti cosmetici che non influenzano la meccanica di gioco, garantendo che i giocatori non possano acquistare un vantaggio competitivo. Tuttavia, resta comunque la sfida di trovare un equilibrio tra la generazione di entrate per gli sviluppatori e il mantenimento dell’integrità e dell’equità del gioco.

In conclusione, le microtransazioni nei videogiochi sono un argomento complesso che continua a suscitare dibattiti appassionati. Mentre offrono agli sviluppatori una fonte di reddito supplementare e ai giocatori la possibilità di personalizzare l’esperienza di gioco, sollevano anche preoccupazioni riguardo alla loro influenza sul design del gioco e sull’equità complessiva. L’equilibrio tra profitto e esperienza di gioco soddisfacente rimane una sfida per l’industria videoludica, e il dibattito sul ruolo delle microtransazioni sembra destinato a continuare.

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Prince of Persia: The Lost Crown – Recensione

Quando ho avviato per la prima volta “Prince of Persia – The Lost Crown” avevo molte domande che mi frullavano in testa, le classiche domande che ci si pone quando si ha tra le mani un metroidvania: il livello di sfida sarà crescente e ben livellato? Quanti pad manderà nel paradiso dei pad? La storia sarà ben scritta? Posso dire che il titolo di Ubisoft Montpellier ha superato quasi a pieni voti i vari esami. Ma andiamo con ordine.

Questa recensione, come spesso accade per il nostro blog, non nasce con l’obbligo di dover fornire informazioni su un titolo a pochissimi giorni dalla sua uscita, ma con la velleità di regalare al lettore il commento a un gioco sviscerato a fondo e per lungo tempo.

Prince of Persia: The Lost Crown è un buonissimo gioco, anzi, dal mio punto di vista è un gioco eccellente. Non perfetto, ma sicuramente un titolo che sarà ricordato. È stato molto piacevole scoprire che il protagonista del gioco non è un Principe di Persia, in barba al lore della serie che prese il via nell’ormai lontano 1989. Anzi, il principe persiano in questione è oggetto della ricerca da parte del nostro eroe che, baldanzoso e arrogantello, appare immediatamente sullo schermo.

Si tratta di Sargon, guerriero facente parte del gruppo di mercenari chiamati “Gli Immortali”. Veniamo a conoscenza del fatto che le gesta di questo gruppo di eroi sono state determinanti per la vittoria della Persia sull’Impero Kusana e che sono attesi a Palazzo per incassare gli onori e la ricompensa della famiglia reale. I festeggiamenti, però, durano ben poco perché il principe Ghassan viene rapito da un gruppo – allerta spoiler – guidato niente popò di meno che da colei che ha insegnato a Sargon tutto quello che sa: Anahita. Partiti all’inseguimento, gli Immortali giungeranno al leggendario Monte Qaf, un tempo roccaforte degli idoli persiani e colpito da una tremenda maledizione che ha squarciato il tessuto temporale.

La storia e l’intreccio

Ho deciso di partire dall’ultimo dei miei dubbi iniziali e il motivo è presto detto: è l’unico che mi è rimasto sullo stomaco. The Lost Crown non gode di una storia particolarmente originale. Certo, il tempo e il suo scorrere avanti (e indietro) portano un valore aggiunto e quando si arriverà al primo momento topico, che mi guardo bene da svelare, tornerà  molto utile a Sargon e darà maggiore slancio all’avventura. Però, di “trova e recupera” l’universo videoludico è stracolmo e, forse, una trama più coinvolgente avrebbe giovato. I colpi di scena sono quasi un po’ telefonati e non lasciano a bocca aperta. Non starò qui a raccontarvi minuziosamente cosa accade, ovviamente, ma è certo che non è per la storia che questo gioco mi è piaciuto molto. Già, perché questo gioco mi piaciuto veramente molto.

La caratterizzazione dei personaggi

Non essendo stato giocato in pre-lancio, ho potuto leggere diverse opinioni sui personaggi, molte delle quali hanno definito il nostro eroe poco profondo o, addirittura, piatto. Devo dire di non trovarmi affatto d’accordo. Sargon e, in generale gli altri personaggi, per quanto poco inclini al dialogo (gli scambi dialettici sono ridotti all’osso durante l’avventura tranne che per le battute iniziale dove sono addirittura eccessivi e tendenzialmente inutili) trasudano fierezza ed eleganza. Il nostro eroe possiede quel tocco presuntuoso che lo rende affascinante per quanto un pizzico stereotipato a tratti. Non sto parlando di personaggi dal carisma straripante né indimenticabili ma che portano ben avanti la storia, sono credibili e ben caratterizzati. Sargon è un eroe solitario, duro, forgiato nel fuoco di un’infanzia difficile e celata. Tutto questo si legge ampiamente tra le pieghe del suo dire e non era semplice. La squadra degli  Immortali,  è vero, non è indimenticabile ma, essendo presenti sullo schermo di gioco per un tempo ridottissimo non credo fosse necessario lavorarci più di tanto. Tendenzialmente scappano via per qualche strano obiettivo e ci lasciano soli a fare tutto il lavoro. Come sempre accade.

Prince of Persia: The Lost Crown - Boss Fight

Salta, colpisci, vola e para

Dal mio punto vista, quando si giudica un metroidvania vanno analizzate due componenti essenziali: il lato platform e le dinamiche di combattimento. Con The Lost Crown rasentiamo la perfezione.

Dal lato platform, il gioco è programmato magistralmente. Sargon compie le sue evoluzioni in modo impeccabile e non mi è capitato mai, in oltre 28 ore di gioco, di imprecare per un salto impreciso o per l’attivazione ritardata di uno dei molteplici poteri che il nostro protagonista acquisisce col raggiungimento di alcuni punti cruciali dell’intreccio. Sullo schermo accade esattamente quello che abbiamo deciso che accada nel momento esatto in cui lo abbiamo preventivato (nel bene e nel male)  e questo non può che far sorridere il giocatore più esigente, quello che si frega le mani davanti ad un nuovo titolo e cerca la sfida.

Com’è giusto e canonico per qualunque metroidvania, poi, progredendo col gioco, il livello di difficoltà aumenta, ma è una crescita dolce e gestibile. Sia da un neofita che da un amante del genere. Non ci sono scorci troppo frustranti che mettono a rischio l’integrità dei pad e questo, a mio parere, è un bene. A tal proposito, una nota di merito va data alla possibilità di scegliere la modalità libera che lascia libero sfogo al gioco stesso, permettendo al giocatore di scovare i segreti progressivamente, raccogliere i collezionabili nascosti qui e lì e setacciare della mappa in ogni angolo e quella guidata in cui il giocatore è “spinto” verso l’obiettivo e garantisce di poter giocare avendo sempre davanti agli occhi il checkpoint successivo da raggiungere. Io ho giocato nella prima modalità e non me ne sono pentito affatto. Il gioco è scorrevole, divertente e mai noioso (se non per un parte centrale leggermente più lenta ma comunque godibile). Altra nota di merito per gli sviluppatori di Ubisoft va data per aver inserito la possibilità di modificare il livello di sfida sotto tutti i punti di vista, scegliendo il grado di forza, di resistenza dei nemici e la loro aggressività. Personalizzabile anche il livello di difficoltà delle parate in base al tempismo con il quale si vuole che siano efficaci o meno. Oltre a questa custom ci sono comunque i classici livelli di gioco tra cui poter scegliere: Principiante,  Guerriero, Eroe ed Immortale. Noi l’abbiamo giocato a livello Eroe ed è stata un’esperienza davvero soddisfacente.

Prince of Persia: The Lost Crown - Il Principe

Per quanto riguarda il lato action e, quindi, il combattimento ci troviamo di fronte ad un canovaccio noto agli amanti del genere: attacco, combo, parata, parry. Tutto già visto, quindi? No, perché si vede che in quel di Montpellier hanno lavorato tanto per regalare al giocatore una estrema libertà di scelta riguardo al modo di affrontare i nemici. Contro il più debole degli avversari fino alle varie boss fight, infatti, il repertorio di Sargon è estremamente variegato tra attacchi di sciabola orizzontali, verso l’alto, dall’alto, in volo, calci e scivolate offensive. Molto importanti, com’è giusto e ci aspettavamo, le parate e il tempismo con cui vengono eseguite cosa che, in determinati casi, permette al nostro eroe di contrattaccare in modo così efficace da finire il nemico. Il tutto condito dall’utilizzo di svariati poteri che si acquisiscono nel corso dell’avventura e che non danno mai la sensazione di essere stati piazzati lì come riempitivo o solo per un mero senso estetico. Ogni potere ha un suo utilizzo sia in combattimento, in combo con le varie mosse offensive, sia durante le fasi più complesse di avanzamento platform. Prince of Persia – The Lost Crown è un gioco ragionato e ben lavorato. Nulla è stato inserito per caso e questo è senz’altro un bene. 

La magia e la bellezza

Fin dall’inizio del gioco, il colpo d’occhio è di tutto rispetto. Arrivo a dire che, per quanto essenzialmente in 2D, i fondali sono così profondi, ben fatti e belli da vedere che la terza dimensione va ad insinuarsi nell’occhio del giocatore e dà al titolo i gradi di opera pittorica di assoluto livello.

È vero che in alcuni tratti, forse, i ragazzi di Ubisoft hanno preferito tirar dritto regalando momenti meno alti dal punto di vista visivo, ma in linea generale, Prince of Persia: The Lost Crown è un gioco molto, molto bello da vedere. Consiglio, per quanto concerne le console, di giocarlo su PS5 o Xbox Series X, se possibile, per godere appieno del motore grafico estremamente soddisfacente. Belle le animazioni di Sargon che adopera i propri poteri stilisticamente in modo ineccepibile e che fanno godere quando si affronta qualunque nemico. Insomma, The Lost Crown è uno splendido quadro in movimento, una vera gioia per gli occhi.

Conclusione

Prince of Persia: The Lost Crown è un bel gioco, ben programmato e bello da vedere. Una piacevole scoperta per gli amanti dei metroidvania e ricco di spunti in grado di appassionare anche quelli che non amano particolarmente il genere. Avremmo preferito sentirci più coinvolti da una storia scritta meglio e più interessante ma tant’è. Resta comunque un eccellente lavoro dei ragazzi di Ubisoft – Montpellier che merita di essere giocato assolutamente.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, Xbox Series S|X, Switch, PC, PS4, Xbox One
  • Data uscita: 18/01/2024
  • Prezzo: 49,99 €

Ho provato il gioco poche settimane dopo il day one.

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Editoriali

I videogiochi di Indiana Jones attraverso i decenni

Cari avventurieri digitali e appassionati di archeologia virtuale, preparatevi a calarvi nella storia dei videogame dedicati al leggendario Indiana Jones! Con l’entusiasmo alle stelle per l’imminente uscita del nuovo gioco previsto nel 2024, “Indiana Jones e l’Antico Cerchio“, diamo uno sguardo retrospettivo ai precedenti capitoli che ci hanno permesso di vivere le avventure di questo iconico personaggio manovrandolo famelici attraverso i nostri schermi.

Com’è probabile che già sappiate, Indiana Jones è stato protagonista di svariati titoli video ludici che ci hanno accompagnato per anni. Non tutti sanno, però, che il primo videogame, un vero e proprio capolavoro per l’epoca, fu “Raiders of the Lost Ark“. Sviluppato per Atari 2600, lasciò tutti a bocca aperta.

Raiders of the Lost Ark – 1982

Per chi non ha avuto (come me) la fortuna di sperimentare “Raiders of the Lost Ark” nel suo periodo d’oro, può risultare difficile cogliere appieno l’emozione e l’innovazione che questo gioco ha portato con sé. Rilasciato nel 1982, in un’era di limitate risorse grafiche e tecnologiche, il gioco ha sfidato i limiti della sua epoca. La sua trama segue le avventure di Indiana Jones, consentendo ai giocatori di esplorare il mondo e risolvere enigmi per recuperare l’Arca dell’Alleanza. La grafica pixelata potrebbe sembrare rudimentale oggi, ma all’epoca rappresentava uno dei massimi standard.

“Raiders of the Lost Ark” è stato un pioniere nel genere dei giochi d’avventura, offrendo una vasta mappa aperta e una trama non lineare, un’idea rivoluzionaria nel contesto dei primi anni ’80. Tuttavia, la sua difficoltà e complessità hanno reso il gioco un vero e proprio enigma per i giocatori, contribuendo alla sua fama.

In conclusione, “Raiders of the Lost Ark” per Atari 2600 è un capolavoro dell’era dei videogiochi classici, una pietra miliare che ha contribuito a plasmare il futuro del medium. Anche se alcuni aspetti potrebbero sembrare datati oggi, il gioco merita il rispetto e l’ammirazione per la sua audacia e la sua influenza nel panorama videoludico.

Indiana Jones in the Lost Kingdom – 1984

“Indiana Jones in the Lost Kingdom” è un videogioco del 1984 realizzato da Mindscape per Commodore 64. Ampiamente considerato trascurabile nel panorama dei giochi dell’epoca, presentava una sua grafica semplice e una meccanica di gioco limitata. Disgiunto dai film del nostro buon dott. Jones, non è riuscito a distinguersi in un mercato dominato da titoli più avvincenti. Le recensioni dell’epoca criticavano la mancanza di innovazione e la scarsa qualità complessiva del gioco. Nonostante il richiamo della popolarità di Indiana Jones, questo titolo non è riuscito a lasciare un’impronta significativa nella storia dei videogiochi, rimanendo un esempio di prodotto mediocre e facilmente dimenticabile.

Indiana Jones and the Temple of Doom – 1985

“Indiana Jones and the Temple of Doom” è un videogioco uscito nel 1985, basato sul film omonimo di Steven Spielberg. Sviluppato da Atari Games, il gioco è stato progettato per le sale giochi. La trama segue Indiana Jones nel suo viaggio per liberare i bambini schiavi dal malvagio Thuggee nel Tempio Maledetto. Il gameplay è diviso in tre fasi: guida di mine car, lotta con avversari e il confronto finale nel tempio. Nonostante l’entusiasmo iniziale dovuto al successo del film, il gioco ha ricevuto critiche miste, con lamentele sulla sua difficoltà e ripetitività. Pur essendo un prodotto dell’epoca, il gioco non ha raggiunto lo stesso status di culto di altri videogiochi, ma rimane un ricordo nostalgico per i fan di Indiana Jones. Grazie ai vari emulatori usciti anni dopo, posso dire fieramente di averci giocato parecchio. A differenza della critica del tempo, e so che non vi interessa minimamente, a me piacque molto e mi fece divertire.

Indiana Jones and the Last Crusade: The Graphic Adventure – 1989

Questo gioiellino è un’icona intramontabile nel panorama dei giochi d’avventura punta e clicca. Lanciato nel lontano 1989 dalla Lucasfilm Games, il titolo si distinse per la sua fedeltà al film e il coinvolgente stile grafico.

Il gioco segue la trama del film “L’Ultima Crociata” permettendo ai giocatori di rivivere le epiche avventure dell’archeologo e del suo mitico papà. L’attenzione ai dettagli è straordinaria, con scene iconiche ricreate con cura e un cast di personaggi memorabili che danno vita al mondo virtuale di Indiana Jones.

La vera genialità del gioco risiede nella sua capacità di bilanciare azione, enigmi e narrazione. Il giocatore si trova a dover risolvere intricati rompicapi e affrontare situazioni pericolose, proprio come il nostro amato archeologo sul grande schermo. Le scelte del giocatore influenzano il corso della storia offrendo varietà in game e diversi finali. La critica non esitò a elogiare il gioco per la sua trama avvincente, i dialoghi spiritosi e la colonna sonora coinvolgente. Le recensioni furono unanimi nel riconoscere la fedeltà al materiale di origine e la capacità del gioco di trasportare i giocatori in un’avventura epica.

“Indiana Jones and the Last Crusade: The Graphic Adventure” è ancora oggi considerato uno dei capisaldi del genere e un esempio di come un buon adattamento videoludico possa catturare l’essenza di un’iconica saga cinematografica. Un’autentica gemma per i fan di Indiana Jones e gli amanti dei videogiochi d’avventura. E, tra parentesi, il mio gioco su Indy preferito.

Indiana Jones and The last Crusade – The Action Game – 1989

“Indiana Jones e l’Ultima Crociata – The Action Game,” lanciato nel 1989, è un punto di riferimento nei giochi d’azione ispirati al famoso archeologo e uscì insieme al gioco punta e clicca poc’anzi descritto. Prodotto da Lucasfilm Games, il titolo si proponeva di portare l’esperienza cinematografica de “L’Ultima Crociata” direttamente sullo schermo dei giocatori ma con un taglio molto più action. Questo gioco, disponibile su varie piattaforme dell’epoca, incluse Amiga e Atari ST, offriva una grafica all’avanguardia, considerata eccezionale per il periodo. I giocatori potevano rivivere i momenti salienti del film, dalla fuga dai nazisti al confronto con il Cavaliere, tutto condito da azione frenetica e sequenze di piattaforme coinvolgenti.

La varietà di ambientazioni, tra templi misteriosi e castelli sinistri, faceva sì che ogni livello fosse un’immersione nella narrativa dell’Ultima Crociata. La meccanica di gioco, sebbene semplice, richiedeva abilità e riflessi per superare gli ostacoli e sconfiggere i nemici, mantenendo l’energia e l’atmosfera del film.

Le recensioni dell’epoca lodarono il gioco per la sua fedeltà alla fonte di ispirazione, la qualità visiva avanzata e la capacità di catturare l’essenza avventurosa di Indiana Jones. Nonostante il passare del tempo, “Indiana Jones e l’Ultima Crociata – The Action Game” rimane un classico amato dai fan dell’archeologo e un tassello importante nella storia dei videogiochi ispirati al cinema. Anche io lo giocai al tempo e ne conservo un piacevolissimo ricordo.

Indiana Jones and the Fate of Atlantis – 1992

Videogiochi Indiana Jones and the Fate of Atlantis

“Indiana Jones and the Fate of Atlantis,” rilasciato nel 1992, è un’opera maestra tra i giochi d’avventura punta e clicca. Creato anche questo dalla mitica LucasArts, il titolo sfida gli appassionati di Indiana Jones a un’entusiasmante ricerca dell’antica città perduta di Atlantide.

Il gioco si distinse al tempo per la sua trama avvincente e la profondità dei personaggi. I giocatori vestono i panni di Indy e affrontano una serie di enigmi complessi, interagendo con personaggi indimenticabili. Un elemento chiave, di grande innovazione per l’epoca, è la possibilità di scegliere tra diverse vie di gioco, determinando così la direzione della storia e offrendo una rara rigiocabilità.

Graficamente avanzato per il suo tempo, il gioco presenta una varietà di location mozzafiato, da antichi templi a laboratori nazisti. La colonna sonora coinvolgente contribuisce a creare un’atmosfera avvincente, arricchendo l’esperienza di gioco. Il titolo è rimasto un’icona nel genere dei giochi d’avventura, lasciando un’impronta indelebile nella memoria dei giocatori e consolidando la sua reputazione come uno dei migliori adattamenti videoludici di un’iconica serie cinematografica. Ancora oggi, è un tuffo nostalgico nell’universo avventuroso di Indiana Jones.

Indiana Jones and the Fate of Atlantis: The Action Game – 1992

“Indiana Jones and the Fate of Atlantis: The Action Game” è un videogioco d’avventura uscito nel 1992, sviluppato da LucasArts. Anche in questo caso, come nel caso di “The Last Crusade”, la Lucas fece uscire anche una versione action del gioco oltre all’avventura grafica. Il giocatore assume il ruolo di Indiana Jones, affrontando avversari e risolvendo enigmi in vari ambienti esotici. Le sequenze d’azione sono accompagnate da una colonna sonora coinvolgente, mentre il gameplay punta sull’esplorazione e la risoluzione di puzzle. Nonostante la sua natura orientata all’azione, il gioco mantiene il fascino dell’universo di Indiana Jones, offrendo un’esperienza coinvolgente per i fan del personaggio e della serie. Devo essere sincero: questo, oltre alle versioni Lego che non amo particolarmente e che citerò soltanto per dovere di cronaca, è l’unico gioco su Indiana Jones che non ho mai provato in prima persona quindi resto radicato alle cronache e alle impressioni della rete.

Indiana Jones’ Greatest Adventures – 1994

“Indiana Jones’ Greatest Adventures,” lanciato nel 1994 per Super Nintendo, è una celebrazione interattiva delle epiche avventure dell’archeologo più famoso del mondo. Sviluppato da Factor 5 e pubblicato da JVC Musical Industries, il gioco si presenta come un avvincente platform a scorrimento laterale che cattura l’essenza dei primi tre film della saga. Con una grafica dettagliata e fedele ai film, il gioco permette ai giocatori di rivivere momenti iconici come la fuga dal tempio maledetto, la ricerca del Sacro Graal e la lotta contro i nazisti. L’abilità di esplorare questi scenari familiari in uno stile di gioco coinvolgente ha reso “Greatest Adventures” un titolo adatto sia ai fan di lunga data che ai neofiti della saga di Indiana Jones.

Una delle caratteristiche distintive del gioco è la sua fedeltà alla trama originale, mantenendo il ritmo avvincente e gli incontri memorabili. La colonna sonora coinvolgente e i controlli intuitivi hanno contribuito a rendere l’esperienza di gioco avvincente e immersiva.

Le recensioni dell’epoca hanno applaudito il titolo per la sua riuscita amalgama di azione, esplorazione e fedeltà alla fonte di ispirazione. “Indiana Jones’ Greatest Adventures” rimane un omaggio virtuale ai momenti salienti della saga cinematografica, trasportando i giocatori in un viaggio emozionante attraverso le avventure leggendarie di Indiana Jones. Un must per i fan della serie e un capitolo iconico nella storia dei giochi a tema cinematografico.

Indiana Jones and the Infernal Machine – 1999

“Indiana Jones and the Infernal Machine” è un videogioco d’avventura pubblicato nel 1999 per PC e successivamente per Nintendo 64. Sviluppato anche questo da LucasArts, il gioco segue le avventure di Indiana Jones alla ricerca di un artefatto misterioso, l’Infernal Machine, durante la Guerra Fredda. Il gameplay combina elementi di esplorazione, puzzle-solving e azione, offrendo una varietà di ambientazioni internazionali. Il gioco ha ricevuto recensioni generalmente positive per la sua trama coinvolgente, la fedeltà all’atmosfera dei film e la varietà delle sfide proposte. Tuttavia, alcuni critici hanno notato la grafica datata e alcuni problemi tecnici. Nonostante ciò, “Indiana Jones and the Infernal Machine” è considerato un titolo apprezzabile per i fan dell’archeologo avventuriero. Personalmente ho giocato soltanto la versione per GameBoy Color ma, sono sincero, non mi face impazzire o gridare al miracolo. Resta comunque un titolo che possiamo definire discreto.

Indiana Jones and the Emperor’s Tomb – 2003

Videogiochi Indiana Jones and the Emperor's Tomb

“Indiana Jones and the Emperor’s Tomb” è un videogioco d’azione e avventura uscito nel 2003 per diverse piattaforme, tra cui PlayStation 2, Xbox e PC. Sviluppato da The Collective, il gioco segue le avventure di Indiana Jones alla ricerca di un antico artefatto in Cina. Appena iniziai a giocarci, ricordo, non capii esattamente cosa fare. Mi trovai un po’ stranito. Non so spiegare bene il motivo ma, alla fine, ci giocai con piacere. Con una prospettiva in terza persona, il gameplay offre una combinazione di esplorazione, combattimenti e risoluzione di enigmi. Il gioco è stato ben accolto per la sua trama avvincente, i combattimenti ben realizzati e la fedeltà al personaggio di Indiana Jones. Tuttavia, alcune critiche sono state rivolte alla telecamera e ai controlli in alcune situazioni. (confermo, erano legnosi) Nonostante ciò, è considerato uno dei migliori videogiochi ispirati alle avventure di Indiana Jones.

Indiana Jones and the Staff of Kings – 2009

Videogiochi Indiana Jones and the Staff of Kings

“Indiana Jones and the Staff of Kings” è un videogioco d’azione e avventura uscito nel 2009 per diverse piattaforme, incluso PlayStation 2, PlayStation Portable, Wii e Nintendo DS. Ricordo che lo acquistai con tantissime aspettative ma rimasi assai deluso. Il gioco, sviluppato da LucasArts, segue le avventure di Indiana Jones nella sua ricerca di un antico artefatto. Offre una varietà di ambientazioni esotiche, sequenze d’azione e enigmi, cercando di catturare l’essenza dell’universo di Indiana Jones. Tuttavia, il gioco ha ricevuto recensioni tendenzialmente negative che hanno sottolineato negativamente i controlli non sempre precisi e a una trama che non raggiunge le vette dei film. Io non lo apprezzai quasi per nulla e rapidamente andò ad impolverarsi sullo scaffale accanto alla console. Nonostante ciò, per i fan incalliti del famoso archeologo, può comunque offrire un’esperienza di gioco divertente.

L’attesa nel mondo moderno

L’annuncio del prossimo videogioco “Indiana Jones e l’Antico Cerchio” ha scatenato una ondata di entusiasmo tra i fan di lunga data. La community online è pervasa da una fervente attesa, con i giocatori che condividono la loro gioia e anticipazione per ciò che sembra essere un nuovo e coinvolgente capitolo nell’universo di Indiana Jones.

I social media sono diventati un luogo di discussione vivace, con i fan che condividono aspettative e speranze per questo nuovo titolo. Le immagini teaser e i brevi teaser trailer hanno alimentato positivamente la curiosità, rivelando scorci affascinanti e catturando l’attenzione dei giocatori con richiami visivi alle avventure cinematiche di Indiana Jones.

Le notizie non ufficiali circolanti online hanno aggiunto un tocco di mistero, contribuendo a generare un’atmosfera di anticipazione. La comunità è pronta a esplorare nuovi scenari, risolvere enigmi avvincenti e vivere nuove avventure insieme al carismatico archeologo. In questo contesto, l’atmosfera è intrisa di ottimismo, con i giocatori che non vedono l’ora di tuffarsi in un nuovo capitolo ricco di emozioni e avventura. L’entusiasmo cresce giorno dopo giorno, alimentato dalla speranza di vedere realizzate le aspettative e di vivere un’esperienza di gioco indimenticabile con Indiana Jones e l’Antico Cerchio.

Conclusione

La saga di Indiana Jones nei videogame ci ha offerto un affascinante percorso attraverso diverse epoche di tecnologia e gameplay. Dall’8-bit al 3D, la storia dell’archeologo del nostro cuore ci ha ispirato a esplorare mondi virtuali pieni di misteri e avventure. Non vediamo l’ora di vedere cosa ci riserva il futuro con il nuovo gioco del 2024. Pronti a imbracciare la frusta e a vivere fantastiche avventure?

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Editoriali

Perché Max Payne ha fatto la storia dei videogiochi

Atmosfera onirica, movimenti estremamente rallentati e dilatati, il pianto straziante di un neonato, una sensazione di disagio e terrore che cresce ogni istante. Due uomini incappucciati assalgono all’improvviso il padrone di casa che, chiamando disperato il nome della moglie, li fredda a colpi di pistola. La porta della camera da letto che si apre, la tragedia. Brividi. Questo che vi ho appena descritto è l’inizio di Max Payne, capolavoro sviluppato da Remedy Entertaiment e pubblicato da Gathering of  Developers il 23 luglio 2001 per PC. Fecero seguito Max Payne 2: The Fall of  Max Payne pubblicato nel 2003 e il terzo e ultimo capitolo della saga: Max Payne 3 uscito nel 2012. 

Se c’è una trilogia di videogiochi che deve essere giocata, è assolutamente quella di Max Payne. Fin da subito, ben 23 anni fa, sono stato rapito dalla sua narrazione intensa, avvolgente come un buon romanzo noir e ho vissuto le gesta di Max in un viaggio intriso di azione e dramma. L’innovazione del “bullet time”, di cui parleremo diffusamente in seguito, ha trasformato le sparatorie in vera e propria arte, regalando un senso di controllo del tempo unico. I personaggi, da Max stesso a Mona Sax, sono sfaccettati e indimenticabili e le loro storie si intrecciano in modo avvincente.

La trama, densa di misteri e colpi di scena, è un’epopea noir che mi ha lasciato col fiato sospeso. L’ambientazione cupa di New York, la colonna sonora mozzafiato e le sfide di gameplay innovativo sono solo alcune delle ragioni per cui consiglio caldamente di immergersi in questo mondo. La trilogia di Max Payne non è solo un gioco è un’esperienza emotiva e cinematografica che ha ridefinito il mio concetto di narrazione nei videogiochi. Se amate l’azione avvincente, i personaggi memorabili e le storie coinvolgenti, Max Payne è un viaggio che non potete permettervi di perdere.

L’Avventura di Max Payne

Max Payne, antieroe dai contorni più che oscuri, è un uomo di contraddizioni e tragedie, con un passato che si annida tra le ombre. Inizia come un tranquillo e ironico detective della NYPD nonché un padre di famiglia con una vita serena. Ma il destino ha in serbo dolori insondabili per lui. La morte di sua moglie e della figlia, vittime di un tragico evento legato al traffico di droga, getta la sua esistenza nell’abisso dell’oscurità.

La sua ricerca di giustizia si trasforma in una vendetta personale, che lo porta attraverso il cupo scenario di New York, in un turbine di ingiustizie e cospirazioni. Max si ritrova invischiato in una rete di crimine organizzato, intrighi politici e doppi giochi, tutto mentre la sua anima si consuma nella disperazione.

La prima parte della trilogia è una discesa agli inferi, dove Max è accusato ingiustamente dell’omicidio di suo amico e collega Alex Balder. Fuggendo dalla legge, scava sempre più a fondo nella corruzione della città per smascherare la verità.

La seconda parte, vede Max ancora tormentato dai fantasmi del passato. Il suo incontro con Mona Sax, un’assassina dal passato oscuro, aggiunge nuovi strati di complessità emotiva. La trama si intreccia in una danza mortale tra doppi giochi e tradimenti, mentre il nostro alter ego virtuale naviga tra le pericolose acque del caos.

Infine, nella terza e ultima parte, Max “assaggia” la violenza mafiosa in Brasile dove affronta nuovi nemici e nuove sfide. Il filo rosso della sua storia si lega al cerchio, rivelando connessioni inaspettate e un epilogo carico di emozioni. Max Payne, il detective avvincente, passa attraverso il fuoco della sofferenza e si trasforma in un’icona indelebile dei videogiochi, portando con sé una storia epica e un viaggio interiore impossibili di dimenticare.

Personaggi, anzi, Icone

I personaggi di Max Payne sono un gruppo affascinante di individui con storie e personalità uniche che hanno reso la trilogia indimenticabile. Max, il nostro eroe con una faccia da duro ma un cuore a pezzi, naviga attraverso il dolore con una passione per il dramma noir che non smette mai di intrigare. La sua voce narrante, intrisa di cinismo e disillusione, è la colonna sonora emotiva di tutto l’epico.

Mona Sax, la femme fatale con un tocco di mistero, è come una rosa tra le spine. La sua connessione complicata con Max è un intreccio di emozioni contrastanti, e il modo in cui i loro destini si intrecciano è tanto affascinante quanto complicato. Il capitano Vladmir Lem è il classico villain russo, ma la sua compostezza e sarcasmo hanno aggiunto un tocco di umorismo nero alla trama.

Il “don” di New York, il vecchio e saggio Alfred Woden, è un personaggio che trasuda autorità e mistero, con le sue decisioni oscure e le motivazioni enigmatiche. E poi c’è il folle ma geniale Vlad, il re degli ambienti distorti e surreali. Ogni personaggio, anche quelli minori, ha contribuito a dipingere un quadro complesso e coinvolgente che ha reso la trilogia di Max Payne una saga indimenticabile, popolata da individui che ti seguono anche quando spegni la console.

Videogiochi: Max Payne 3

Il “Bullet Time”

Il mondo rallenta e la percezione si amplia in un’esperienza unica che solo Max Payne può regalare. Il “bullet time” nella trilogia è più di una semplice meccanica di gioco; è un balletto coreografato di proiettili, una danza letale in cui il tempo scorre al tuo comando. Ricordo la prima volta che ho attivato il bullet time: tutto sembrava congelarsi mentre le traiettorie delle munizioni appena esplose da fucili e pistole si intrecciavano in aria.

Immerso in una sparatoria mozzafiato, il mondo si trasformava in una tavolozza di azione e adrenalina. Ogni sparo diventava un’opportunità strategica e l’agilità nel gestire il tempo diventava la chiave per sfuggire alle situazioni più estreme. L’effetto visivo di proiettili che fendevano l’aria a velocità ridotta, mentre Max si muoveva con grazia attraverso il caos, fu un’esperienza viscerale.

Il “bullet time” non era solo uno strumento tattico, ma un’espressione artistica della potenza del videogioco. Saltare da dietro una copertura, rallentare il tempo e vedere i nemici sorpresi mentre le mie pallottole li freddavano con precisione millimetrica era un piacere insuperabile. La sensazione di controllo totale sullo scorrere del tempo, mentre le mie decisioni determinavano l’esito degli scontri, era pura elettricità ludica.

Il “bullet time” nella trilogia di Max Payne ha ridefinito il concetto di azione frenetica nei videogiochi, creando un’esperienza che ha lasciato un’impronta indelebile sulla mia memoria di giocatore. Quei momenti di lentezza, con il cuore che batteva all’unisono con la colonna sonora avvincente, sono frammenti di pura magia videoludica che rimarranno con me per sempre.

Videogiochi Max Payne: Bullet Time

Colonna sonora da urlo

La musica è spesso sottovalutata, ma nella trilogia di Max Payne, la colonna sonora è stata una parte fondamentale dell’esperienza. Le melodie epiche hanno amplificato le emozioni e reso ogni momento ancora più memorabile. Ritmi cadenzati, coinvolgenti, violenti la fanno da padroni. Posso dirlo: Max Payne va anche ascoltato oltre che giocato.

Conclusione

La trilogia di Max Payne ha conquistato il cuore dei giocatori grazie a una combinazione perfetta di narrativa coinvolgente, personaggi indimenticabili, innovazione nel gameplay e una colonna sonora da brivido. Questi giochi hanno segnato un’epoca e continueranno a essere citati come pietre miliari nella storia dei videogiochi. E voi, quali ricordi avete di Max Payne? Fatecelo sapere nei commenti e continuate a giocare!

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Società

Lucca Comics & Games 2023: foto del nostro giro tra fantasia e sogno

Ebbene sì! Anche noi de “Il Videogiocatore” siamo stati al Lucca Comics and Games 2023, evento che si è tenuto dall’1 al 5 novembre e che è giunto alla sua 57esima edizione. È valsa la pena andarci, sono state mantenute le aspettative? Ecco le nostre impressioni.

Partiamo da alcuni assunti fondamentali: il Lucca Comics, pur essendo chiaramente rivolto ad un pubblico amante dell’universo ludico in ogni sua forma (dal fumetto, al videogame, dal gioco da tavola al cartone animato, dal collezionismo di nicchia al prodotto per la TV o il grande schermo) è concepito anche per chi li vive solo lateralmente o, addirittura, non è propriamente un fan. Anche il solo passeggiare tra i bellissimi vicoli all’interno della cinta muraria che delimita Lucca antica che è teatro del maestoso evento è un grande piacere. Certo, se si detesta l’idea di stare tra una folla di cosplayer, non si sopporta l’idea, appunto, di mascherarsi per assomigliare ai propri personaggi preferiti e al posto di accendere la tv per rilassarsi si preferisce, magari, fare soltanto sport non è il posto giusto.

Altro assunto imprescindibile è che per godere appieno di tutte le attrazioni, gli spettacoli, gli incontri con gli autori e i contest ci si dovrebbe trattenere più di un giorno ed essere pronti a camminare tanto. Ma proprio tanto eh! Basti pensare che in un giorno e mezzo di permanenza, siamo arrivati a circa 30 km di passeggiata (e ce la siamo presa comoda!).

Detto questo, per chi come noi è profondamente nerd e geek, Lucca Comics rappresenta il “nerdvana”.

Per tutto il tempo della nostra permanenza siamo stati a bocca aperta a indicare (e fotografare) ogni cosplayer e ogni sfilata estemporanea e programmata, fino ad arrivare a strabuzzare gli occhi per le action figures a prova di qualunque collezionista presenti nei padiglioni e a sentire i brividi di piacere a vivere esperienze magiche legate alle saghe preferite e ai personaggi che hanno fatto e fanno tuttora sognare.

Non starò qui a elencare tutti gli artisti presenti, tutti gli autori e ogni evento, lasciando tale compito a chi ha vissuto il Lucca Comics, per lavoro o inclinazione, come una serie di cose che sono avvenute, una dopo l’altra. Per me il Lucca Comics & Games 2023 ha rappresentato l’opportunità di vivere una realtà intrisa di fantasia e potersi sentire a proprio agio con sé stesso e con gli altri.

E questa libertà non deriva soltanto dal tema del maxi evento contenitore ma proprio dalla morfologia di un luogo che, pur essendo confinato, è talmente esteso da non poter essere circoscritto a vista d’occhio. Ed ecco che ogni strada, ogni vicolo, ogni piazza, dove per tutto il resto dell’anno vige l’antica e sacra bellezza di una città storica si trasforma nel teatro della libertà e degli opposti, dove non ci sono regole da seguire per vestirsi, truccarsi o scegliere cosa amare e cosa no.

Una libertà nella sua piena e autentica accezione positiva, in cui non c’è lo sfogo animalesco ma soltanto quello artistico e fan-atico. Non è un caso, infatti, che pur accogliendo ogni anno tra le 250 e le 300mila persone, il Lucca Comics non sia mai stato teatro di un tafferuglio, una zuffa o una scazzottata. Eppure parliamo di un evento in cui ci si sciroppano file chilometriche per vedere le attrazioni più belle (il padiglione Netflix, per chi ci è stato, vi dice qualcosa?!) e dove spesso (ahimè anche quest’anno) piove senza sosta o quasi.

Personalmente, ho vissuto il Lucca Comics & Games 2023 proprio in questo modo pur riscontrando criticità abbastanza prevedibili come le già citate infinite file per visitare i padiglioni più gettonati o le attrazioni di copertina oppure la dispersione del macro contenitore che impedisce, di fatto, di poter visitare tutto in solo giorno (ma anche due, forse, non bastano).

Non avevo alcuna maschera, nessuna lentina colorata agli occhi né tantomeno una parrucca sgargiante che facesse risaltare la mia figura; eppure mi sono sentito parte di tutta quella magia che ogni giorno ricerco nelle mie passioni.

Ecco le passioni, e soprattutto una, quella che accomuna me e probabilmente la totalità di voi che sta leggendo questo pezzo: i videogame.

Ho deciso di lasciare tutta la zona gaming come ultima da visitare, come ciliegina su una immensa torta buona e tremendamente faticosa da mangiare. E devo dire di aver fatto bene. Tutto il complesso dedicato ai videogame, realizzato fuori dalle mura per dedicargli il maggiore spazio possibile, è stato una chicca. Console Nintendo e Sony messe a disposizione gratuita per il gioco, stand pieni zeppi di gadget a tema, videogame a prezzo fiera (con promo davvero vantaggiose) e tanto, tantissimo colore per gli amanti del genere.

Una enorme palestra dedicata alla visione in grande stile di finali mondiali dei giochi più conosciuti e amati, con tanto di pubblico delle grandi occasioni ad applaudire le mosse migliori dei campioni in gara e un palco per le esibizioni di artisti a tema videoludico completavano l’area.

Che dire a tal proposito? Beh, amanti dei videogame, andateci!

In conclusione, benché nel pomeriggio di sabato un temporale in grande stile abbia deciso di bagnare anche i miei pensieri, ritengo che il Lucca Comics sia un evento di assoluto valore e rilievo e che meriti di essere vissuto da amanti e simpatizzanti. Un luogo splendido condito da magia e iper realismo difficili da trovare se non, forse, oltreoceano.

Ah, ultima cosa: nella zona dedicata al mondo zombificato di Raccoon City ci ho quasi rimesso i boxer all’attacco di un non morto uscito improvvisamente dalla nebbia! A chi chiedo i danni morali? 🙂

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Recensioni

Resident Evil 4 Separate Ways – Recensione

Mentre il buon Leon Kennedy fa di tutto per portare a casa sana e salva Ashley, la figlia del Presidente degli Stati Uniti, c’è una figura che agisce nell’ombra, che porta avanti la sua missione e che, al contempo, fa da angelo custode al nostro biondo eroe. Si potrebbe riassumere così il plot di Separate Ways, eccellente DLC di Resident Evil 4 Remake, rilasciato da Capcom a completamento del quarto capitolo della fortunata saga horror.

Da amanti della serie, un po’ ce lo aspettavamo, anzi, saremmo rimasti assai delusi se la software house nipponica avesse scelto non riproporre la storia di Ada Wong presente, perlatro, nel gioco originale del 2005 e che tante risposte aveva dato ai giocatori dell’epoca.

E dobbiamo dirlo: “Strade Separate” è un eccellente prodotto su cui gli sviluppatori hanno lavorato sia in termini di rielaborazione della trama sia per quanto concerne il comparto tecnico.

Chi vi scrive lo ha terminato in circa 4 ore e mezza a livello normale notando un ottimo bilanciamento della difficoltà che aumenta di pari passo con le attrezzature in dotazione e che potremo migliorare, riparare, vendere e comprare dal mercante, già al servizio di Leon. Ma andiamo con ordine…

Carissima Ada

Senza sfondare il muro dello spoiler, Separate Ways ci fa rivivere la spaventosa epopea in terra spagnola di Resident Evil 4 questa volta nei panni della femme fatale Ada Wong, agente segreto al soldo di Albert Wesker (ben noto cattivone che presto si prenderà la scena quale vero villain della saga), che ha come obiettivo quello di recuperare l’Ambra, da cui, pare, si sia sviluppata l’infezione che ha falcidiato il villaggio di Valdelobos e dintorni.

Resident Evil 4 Separate Ways: Ada Wong mira

La donna sarà aiutata da Luis Sera, scanzonato e simpatico ricercatore della Umbrella Corporation prima e a libro paga del famigerato Saddler poi. Le sue vicende si intrecceranno con quelle di Leon e la porteranno al loro fondamentale incontro al castello di Salazar.

Separate Ways assolve egregiamente il compito di fornire nuovi elementi alla storia di Resident Evil 4, gettando le basi per il futuro remake, da parte nostro abbastanza scontato, di Resident Evil 5.

Facendosi largo tra nemici sempre più potenti, Ada riuscirà a portare a termine la sua missione? La scopriremo essere davvero una donna di ghiaccio o mostrerà anche un lato più umano e compassionevole? Queste risposte le lasciamo a voi e ai vostri pad. Una cosa ve la diciamo però: peccato per il finale…

Azione? Altro che Leon!

Nei panni di Ada, come detto, dovremo affrontare sostanzialmente lo stesso tipo di nemici che hanno intralciato Leon ma potremo affrontare le sfide in modo diverso. La velocità degli scontri e la frenesia degli attacchi saranno, infatti, maggiori con la bella Ada, non solo per la sua spiccata agilità che, vivaddio, cancella la legnosità di Leon spalle al muro (per sapere di cosa parliamo, vi invitiamo a dare un’occhiata alla recensione di Resident Evil 4 Remake) ma anche per il rampino che potremo sia utilizzare per salire rapidamente sul tetto di un edificio, sia per avventarci sui nemici storditi in men che non si dica e finirli. E non ditemi che non vi sentivate frustrati quando non riuscivate con il biondo agente a raggiungere in tempo il ganado di turno vedendolo riprendersi e gettando a mare un parry perfetto.

Grazie al rampino potremo volteggiare da una costruzione all’altra senza problemi e affrontare i nemici da angolazioni più favorevoli. Certo, la programmazione ci impedisce di trasformarci in Batgirl e vivere un’avventura in chiave stealth e avvolti dalle tenebre ma, comunque, il rampino sarà un nostro fondamentale e fedele alleato per tutta l’avventura. Basti pensare che una bossfight che non vi sveliamo sarebbe pressoché impossibile da completare senza il suo ausilio.

Sviluppato in modo intelligente il comparto dedicato agli enigmi, diversi da quelli che hanno messo alla prova Leon ma, spesso, connessi alle soluzioni da lui trovate. Come detto, ci saremmo aspettati qualcosina in più in termini di trama, soprattutto nelle battute finali ma saremmo bugiardi se dicessimo che il gioco non sia divertente e assolutamente scorrevole.

Visto che vista?

Da un punto di vista tecnico, il DLC è quello che ci aspettavamo: il motore RE Engine, fa il suo lavoro egregiamente. La versione PC che abbiamo provato ci ha colpito per il dettaglio dei personaggi anche se non ha fatto gridare al miracolo. Esattamente come la storia principale. A tal proposito ci teniamo a rimarcare un concetto già espresso nel commento di RE4: il gioco è ben fatto ma non possiamo definirlo assolutamente facente parte della nextgen. È un ottimo cross-gen, niente di più.

Molto bella la resa delle capacità date dall’ I.R.I.S. che permettono ad Ada di vedere particolari invisibili ad un occhio umano. Non stiamo parlando di un potere centrale né tantomeno determinante ai fini della trama e del completamento del gioco ma è una chicca tutta da gustarsi.

Nessun crollo di frame improvviso durante le fasi più concitate, nessun rallentamento o bad clipping quando sullo schermo ci sono orde di nemici a fare compagnia ad Ada o durante le boss fight; insomma: nessun balbettamento tecnico a conferma del lavoro di sviluppo minuzioso fatto dalla software house del sol levante.

Conclusione

Separate Ways, in definitiva, rappresenta un prodotto di assoluto valore che merita di essere giocato dagli amanti della serie. Aggiungiamo anche che il prezzo di vendita, accessibile a tutti, lo rende un must have per chiunque abbia apprezzato Resident Evil 4 Remake. Come accennato, inoltre, alcuni spunti e alcune location (vi dice niente il laboratorio?) inedite sono un evidente gancio ai futuri prodotti Capcom che, si spera, siano di livello ancora superiore tanto di far riappassionare chi ha giocato agli originali e da stregare anche le nuove generazioni di videogiocatori.

Il nuovo DLC di Resident Evel 4 Remake costruisce una storia parallela solida, divertente e, alle volte, anche sorprendente. Un ottimo lavoro che va ad accrescere il valore già alto del RE4 e che ci fa conoscere ancora meglio il carattere, le capacità e le intenzioni della bella e misteriosa Ada Wong.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, PS4, Xbox Series X/S, PC
  • Data uscita: 21/09/2023
  • Prezzo: 9,99 €

Ho provato il gioco a partire dal day one su PC grazie a un codice fornito dal publisher.

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Editoriali

Perché Mortal Kombat ha fatto la storia dei videogiochi

Finish him”! Alzi la mano chi ricorda in quale videogame si sentono queste parole pronunciate da una voce profonda e cavernosa. Tutti, vero? Già, perché nessun videogiocatore può misconoscere “Mortal Kombat”. Questo iconico picchiaduro si trasformò ben presto in un must have di qualunque amante dei videogame, a prescindere dal genere preferito.

Chi come me ha sulle spalle parecchi lustri ormai, ha ancora i brividi nel ricordare la straordinaria brutalità di MK. Basti pensare che un altro imperatore dei picchiaduro, Street Fighter II, ricevette critiche per i disegni troppo forti dei combattenti battuti alla fine di ogni round. E quei disegni non hanno scandalizzato neppure un cucciolo di unicorno.

E invece Ed Boon e John Tobias nel 1992 decisero di spezzare una volta per tutte le catene del PEGI. Con Mortal Kombat inondarono di sangue, ossa e budella tutti gli schermi del mondo. In seguito alle proteste di diverse associazioni venne poi approntata in fretta e furia una patch che eliminava il sangue. Diciamocelo, però: in realtà nessuno l’ha mai usata.

Già, perché Mortal Kombat non affronta il tema della violenza in modo morboso. Ci si tuffa a piè pari senza limitarsi, facendo il giro e diventando sublime. Va a toccare le corde più profonde dell’essere umano, lo dilania dall’interno e ne scopre le carte.

Badate bene, non ho alcun interesse a fare filosofia spicciola, tutt’altro. Ma parlare di Mortal Kombat senza introdurre il tema degli istinti umani è impossibile.

Mortal Kombat

Tutto parte da una domanda ben precisa: perché nel lontano 1992 Mortal Kombat ebbe un successo talmente abbagliante da garantirsi uno stuolo di sequel che sono culminati, 31 anni dopo, con un remake del primo capitolo?

Potremmo rispondere parlando del comparto tecnico. Le scelte stilistiche, i colori, la caratterizzazione splendida dei personaggi (per approfondire tali argomenti rimando allo splendido pezzo del collega Marco Gioletta). Ma saremmo lontani dalla verità totale.

Badate bene, MK fu un vero e proprio big bang visivo per l’epoca. Con un colpo di spugna insanguinata furono relegati in un angolo i seppur splendidi disegni di Ryu, Ken, Blanka e compagnia cantante. Al loro posto apparvero sullo schermo personaggi assai più reali. Ciò fu possibile grazie alla grafica digitalizzata e del campionamento di movimenti fatti da atleti in carne ed ossa. Il risultato fu un film di kung fu infinito nei cabinati di tutte le sale giochi del mondo.

Ma bastò questo a trasformare Mortal Kombal nel più giocato picchiaduro di tutti i tempi? Fu davvero una mera questione grafico/stilistica? La risposta è semplice: no.

Mortal Kombat, invece, rispondeva a tutti i sentimenti che i giocatori di picchiaduro provano durante un match: la voglia di uccidere l’avversario, dilaniarlo, distruggerlo, spazzarlo via. Guardate le espressioni tirate dei gamer, per cercare di capire. Ancora di più, guardate l’estrema soddisfazione che si legge nel volto di quanti, vinti 2 round su 3, azzeccano la combinazione di tasti per sferrare la Fatality. Un godimento assoluto, ancestrale, animalesco. Fino a MK, battere l’avversario significava vederlo a tappeto, ora assumeva un senso tutto nuovo, macabro, violento, potente.

In un certo senso, se vogliamo, un illustre successore di MK, Tekken, coglie il nocciolo della questione. Pur non copiandone (giustamente) lo stile, trasforma i match in una battaglia di supremazia. Nello scontro è possibile, scegliendo tempestivamente le varie combinazioni, realizzare combo talmente lunghe e potenti da impedire, di fatto, all’avversario di contrattaccare fino alla sconfitta (Qualcuno ricorda un certo King…?)

Mortal Kombat fu proprio questo, e ritengo, non a caso fu scelta una grafica il più prossima, per l’epoca, al reale. Sullo schermo dovevano esserci delle persone da uccidere, sbudellare, fare a pezzi, schiacciare e tagliuzzare alla julienne.

Da quel primo, fantastico capostipite, MK ha visto un susseguirsi inarrestabile di sequel che mai hanno abbandonato il tema centrale della violenza. Certo, successivamente sono state introdotte anche le babality (per trasformare gli avversari in neonati indifesi) e le friendship (con cui il vincitore stringe un patto di amicizia con lo sconfitto). Ma, diciamoci la verità: hanno un sapore dolce/amaro. A tal proposito ho amato alla follia, la finta friendship di Joker nel recente Mortal Kombat 11. Durante la quale il folle arcinemico di Batman apparecchia tutto per accogliere lo sconfitto per poi finirlo inaspettatamente.

Ma quindi, Mortal Kombat è solo e soltanto violenza? Assolutamente no. Vale la pena fare una sottolineatura importante per evitare che ciò che sto scrivendo possa essere tacciato di miopia e faciloneria.

Mortal Kombat è un titolo che esalta la violenza e la assurge a tema fondamentale, ma non si esaurisce lì. Mortal Kombat è, probabilmente, uno dei titoli con la trama più lunga e meglio gestita dell’intera storia videoludica. I personaggi hanno alle spalle storie complesse, mitiche, magiche e anche tragiche. Sono caratterizzati in modo minuzioso, molto di più di qualunque altro combattente che appartiene ad altre dinastie videoludiche.

Non è un caso, infatti, che Mortal Kombat abbia ben presto sfondato la parete videoludica interessando sceneggiatori e registi cinematografici. I risultati, del 1995 e del 2021 non hanno fatto gridare al miracolo, ma sono sicuramente la dimostrazione che il franchise abbia qualcosa (molto) da raccontare al di là dei combattimenti e del sangue.

In definitiva, Mortal Kombat è riuscito e riesce tutt’ora a raggiungere livelli epici sia da un punto di vista estetico (l’estetica del macabro ovviamente) che da quello della narrazione. Dalla sua nascita ha fagocitato la preferenza di quasi la totalità degli amanti di genere, lasciando agli altri una buona fetta di consensi e poco altro (Tekken e Street Fighter non sono titoli dimenticati e continuano ad avere milioni di appassionati).

La saga oggi rinasce con un remake che sta già facendo discutere e che, ci scommettiamo, continuerà a far parlare di sé per parecchio tempo. Intanto noi amanti di MK ci lasciamo trasportare dalle sue atmosfere mistiche, affascinare dai suoi personaggi fantastici e torcere le budella per la sua eccessiva e scanzonata violenza.

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Fenomenologia del videogioco: quando un titolo cattura il cuore

Terminare un videogame che si è tanto amato e che ci ha tenuti incollati allo schermo per ore (dimenticando il mondo che scorre fuori) è sempre una grandissima emozione. Arrivare al culmine di una storia e conquistarne l’epilogo è qualcosa di magico e, al contempo, di tragico.

Già perché concludere un gioco ci porta inevitabilmente a smettere di giocarci, con buona pace di tutto il piacere che si è provato nel tragitto. Certo, possiamo rigiocarlo, scegliendo, laddove fosse possibile, soluzioni alternative, strategie non provate prima o aumentando la difficoltà ma, diciamocela tutta: è la prima volta quella che non si scorda mai.

Personalmente, alcuni giochi che fanno parte del mio vissuto tendo a rigiocarli ciclicamente, anche se col passare del tempo, i cicli si stanno sempre più dilatando e alcuni titoli sono stati inghiottiti dal passato come ricordi infantili.

Eppure, nel mio animo di videogiocatore c’è sempre una vocina che non vuole lasciar andare del tutto quei titoli che hanno riempito i pomeriggi (e le notti), che mi hanno fatto sorridere, sussultare, commuovere e arrabbiare.

Ognuno ha il suo modo di coltivare questo ricordo. Molti scelgono la via del racconto, riempiendo di chiacchiere la testa di amici e parenti spesso del tutto disinteressati. Quante volte, (ahilei) ho raccontato a mia moglie ogni dettaglio di un titolo che mi aveva particolarmente preso… proprio a lei che è ferma a Maniac Mansion e che manco se lo ricorda. Credo che, ogni volta, per lei sia come imbattersi in un enorme spoiler di una serie TV che non le interessa e che non vedrà mai: spallucce e via verso informazioni più interessanti.

Vedere, però, lo sguardo assente e noncurante della persona a cui stai raccontando la tua esperienza mistica è assai svilente. Loro ci provano anche a prestarti attenzione, a farti sfogare, ad assecondare la tua passione ma è tutto inutile: se non sei un videogiocatore incallito, non potrai mai capire. E’ ovvio che confrontarsi con chi ha amato quel titolo quanto e come te sarebbe interessante e stimolante ma è impossibile per chiunque vivere esattamente le tue emozioni e trasferirle in qualche forum attendendo risposta non mi soddisfa, anzi, mi fa sentire come un drogato alla ricerca della sua dose quotidiana.

Maniac Mansion

Ed ecco che la strada maestra che seguo per rivivere le emozioni di gioco è quella di cercare in rete qualunque cosa parli del gioco stesso. Badate bene: non le recensioni che vivono della soggettività di chi le scrive e che potrebbero farmi facilmente alterare qualora dovessero sminuire un gioco da me amato. Mi riferisco, invece, alle particolarità di tutto ciò che ruota attorno al gioco.

Sto lì a gustarmi la storia della sua creazione, qualche chicca tecnica, informazioni relative al sceneggiatura che, magari, era all’origine diversa e così via. Mi informo, qualora non lo conoscessi di fama, di chi sia il creatore del titolo, della sua storia, di quali sono i suoi lavori passati e quali, magari, sono già in cantiere per il futuro. Devo dire che, però, per la passione che nutro, è difficile che mi trovi di fronte ad un autore completamente sconosciuto e, quindi, il tempo che dedico a capire chi è la mente dietro al mio capolavoro di turno è assai poco.

Ken Levine: l’uomo dietro Bioshock, Thief e molte altre opere di successo

Molto più lungo e spalmato è, invece, il tempo che impiego per cercare in rete gli schizzi degli artisti grafici che hanno creato i personaggi da me poi amati. Guardo rapito i modelli scartati, quelli alla fine scelti e le piccole variazioni che i programmatori e i designer hanno portato sullo schermo.

Vi porto un esempio: nella versione director’s cut di Bioshock, uno dei miei giochi preferiti (e ne parlo anche in un articolo dedicato alla trilogia), terminato il gioco, si accede ad una sorta di museo all’interno del quale è possibile ammirare i modelli di tutti i personaggi dell’avventura corredati da una spiegazione sulla loro storia, le fasi di lavorazione ed, eventualmente, anche i nomi di prova scartati.

Sono presenti i lavori dei disegnatori, le modifiche, le cancellazioni, i personaggi mai inseriti e i disegni scartati. E’ possibile fare anche una sorta di giro guidato all’interno di un livello mai terminato.

Insomma, un vero e proprio “nerdvana” nel quale mi sono perso per un tempo indefinito, interminabile e meraviglioso.

Uno dei tanti modelli presenti nel museo di Bioshock

Fino a qualche anno fa, tutto quello che vi sto raccontando non era possibile. L’assenza di internet (sì, lo so: sono vecchio) e di portali dedicati rendeva assai scarno ciò che potessimo trovare. Anzi, in realtà non ci restava che acquistare riviste di settore con allegato qualche gadget oppure le versione deluxe del gioco in questione contenenti modellini e qualche altra diavoleria. Nulla che mi entusiasmasse grandemente.

Sì, perché quello che intendo io, da intimista del gioco, non è accumunabile al collezionismo o all’essere fan nel senso più spudorato del termine. Certo, anche io ho le mie collezioni e le mie action figure che custodisco gelosamente ma, quando si tratta di un videogame, parlo di qualcosa di profondamente diverso dal divismo.

In ogni notizia, ogni portale, ogni tavola in bianco e nero io rivedo i momenti di gioco, rivivo le emozioni provate nel progredire. E’ difficile da spiegare ma, ne sono sicuro, tanti di voi (si spera) che leggeranno questo articolo capiranno di cosa sto parlando.

La cultura del gioco si sta trasformando. E’ molto più mordi e fuggi. E’ tutto basato sulle stagioni, sui pass mensili, sugli aggiornamenti e sul cambiare ad ogni passo qualcosa.

Personalmente, non sono amante di questa ricerca spasmodica del nuovo. Soprattutto non lo sono di titoli finiti che sono lì perché qualcuno li ha concepiti così e che, quindi, meritano di sopravvivere alla forza dirompente del tempo.

Del resto le pietre miliari sono ai bordi delle strade da tempo immemore, quindi perché voler cambiare per forza i connotati ad una “pietra miliare” video ludica che, invece, va ammirata e goduta per quel che è e che sarà.

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Editoriali

Perché Bioshock ha fatto la storia dei videogiochi

Bioshock”. Avrei potuto anche scrivere questa unica parola, chiudere qui l’articolo e non aggiungere altro. Già, perché per qualunque amante dei videogame di qualità Bioshock è storia, anzi, è leggenda.

Quello che leggerete d’ora in avanti sarà il variopinto elogio di una saga, “Bioshock”, “Bioshock 2” e “Bioshock – Infinite”, che mi ha appassionato come quasi nessun’altra e che mi ha piacevolmente costretto a giocarla e rigiocarla fino a scoprire ogni più piccolo segreto, ogni sfaccettatura, ogni singolo passaggio. Con “Bioshock” e i suoi sequel, infatti, non si vive semplicemente una storia, non si vestono soltanto i panni del protagonista di turno ma si affrontano i propri demoni, ci si interroga, spinti dalla trama, a fare i conti con sé stessi e ad interrogarsi su cosa, fino in fondo, sia la nostra natura umana.

La nascita del mito

Ma andiamo con ordine. Nel 2007, sviluppato da Blind Squirrel Games e pubblicato da 2K Games, arriva “Bioshock”, un FPS destinato a cambiare la storia degli sparatutto in prima persona e non solo. Il titolo ebbe l’effetto deflagrante di una bomba atomica in un mondo video ludico che attendeva con ansia un nuovo capolavoro di cui cibarsi con voracità. Il lavoro dei ragazzi dello “Scoiattolo Cieco” si rivelò subito un gioiello preziosissimo, sia per il comparto tecnico e la programmazione perfetta sia per il design dei livelli e degli straordinari personaggi. Fu così che tutte le riviste di settore non poterono far altro che dare votazioni altissime tanto da raggiungere la media di 97/100. L’acclamazione di “Bioshock” fu unanime, così come la soddisfazione dei videogiocatori di tutto il mondo che si trovarono per le mani uno dei migliori titoli mai realizzati.

Bioshock: quando si dice colpo di fulmine
Quando si dice il colpo di fulmine!

Successore “spirituale” di System Shock 2, Bioshock venne ideato per stupire la platea videoludica e trasportarla in una realtà distopica in cui il giusto e lo sbagliato vanno a fondersi in un’ipocrisia generale e folle.

Il capostipite della serie inizia con il protagonista Jack intento ad affrontare il dramma di un disastro aereo rimanendo miracolosamente illeso. Precipitato al largo nell’Oceano Atlantico, scorge un faro poco distante. Entrato poi in una batisfera, viene trasportato suo malgrado all’ingresso della città di Rapture obbligato così a scoprire i tremendi segreti di un mondo sommerso intriso di pazzia, disumanità e degrado sociale da cui dovrà evitare di essere inghiottito.

La prima avventura si dipana proprio all’interno di questa stupefacente e affascinante città sottomarina in cui, prima del decadimento, si erano riunite menti illuminate e geniali che avevano come discutibile scopo quello di poter sperimentare senza freni, slegati dalla morale e dalle leggi terrestri.

Scopriamo, ben presto, che l’inizio della fine fu la scoperta di una sostanza estratta da alcune lumache di mare, l’Adam. Tale sostanza agisce sull’organismo umano come una sorta di tumore benigno che sostituisce le cellule presenti con cellule staminali potenziate e instabili. Risultato? Tanti poteri ma anche demenza e follia. Questi poteri vengono chiamati “Plasmidi” e donano a chi li possiede (i ricombinanti) le capacità, tra le altre, di congelare, bruciare, fulminare e generare api assassine. Tali poteri vanno costantemente rimpinguati dalla droga Adam che, come ogni sostanza stupefacente, causa dipendenza. Ed ecco che Rapture, nata come città utopica con lo sguardo rivolto al futuro e alla tecnologia, diventa in breve tempo un enorme calderone di morte e pazzia in cui umani dissennati vagano senza meta per procurarsi una dose.

E già così, ammettiamolo, potremmo parlare di un’idea originalissima alla base di Bioshock. Già così potremmo parlare di capolavoro. Per fortuna, però, Bioshock non si limita ad essere uno sparatutto in soggettiva tecnicamente e visivamente splendido ma anche un gioco in cui la trama ci lascia a bocca aperta e che ci regala chicche splendide come i Big Daddy e le Sorelline a cui non possiamo che dedicare una sezione più in basso.

Un Big Daddy ci sta caricando…

Tralasciando i risvolti di trama, per i quali il sottoscritto vi consiglia caldamente di recuperare i titoli e giocarli, i due sequel procedono nel solco tracciato da “Bioshock”, regalandoci in Bioshock 2 la possibilità di vestire i panni di un possente Big Daddy senziente e, nel terzo, di vivere un’avventura splendida tra l’onirico e il magico, il tutto sapientemente curato da una regia politica che ne fa, probabilmente, il titolo più maturo dei tre.

Big Daddy & Sorelline, terrore e genialità

Come abbiamo detto, gli abitanti di Rapture sono ormai perduti, vittime dei loro stessi vizi e perennemente alla ricerca di Adam. E la loro ricerca si estende, in modo macabro e purulento anche nei cadaveri disseminati qui e lì per una città senza freni. Già, perché con uno strumento terrificante simile ad una pistola con un lungo aculeo finale è possibile estrarre i residui di Adam che scorrono nelle vene del defunto. I cadaveri, però, restano incustoditi e a disposizione di tutti solo per pochissimi minuti perché, a pochi minuti dalla morte, ecco arrivare le visioni più agghiaccianti e terribili che Rapture proponga: i Big Daddy e le Sorelline. I primi sono dei robot corazzatissimi e armati di trivella meccanica che hanno un solo scopo: difendere le bimbe che li accompagnano. Queste creaturine a prima vista sembrano delle dolci e innocenti bambine che però si rivelano esseri mutati geneticamente e riprogrammati per “fiutare” l’Adam ed estrarlo dai cadaveri con i loro arnesi.

Bioshock: sorellina
Ecco una sorellina in tutto il suo macabro e tremendo splendore

Non nascondo che quando le incontrai per la prima volta restai pietrificato e provai una sensazione di terrore misto a fascinazione. È indubbio che, pur silenti, i Big Daddy siano personaggi straordinari, non a caso diventati ultra-famose icone pop più volte rappresentate e ben presenti nell’immaginario videoludico attuale.

Quando le parole “bene” e “male” non hanno più senso

Non starò qui a raccontare minuziosamente le trame di questi capolavori senza tempo a distanza di così tanti anni dalla loro uscita ma è necessario trovare all’interno di essi un filo conduttore dell’intera l’epopea di Bioshock: la difficoltà di distinguere il bene dal male. Cosa è giusto e cosa è sbagliato. Durante tutti i tre i giochi, infatti, saremo spesso chiamati a fare delle scelte difficili che potranno o non potranno rendere il nostro personaggio più forte e, di conseguenza, l’incedere tra i livelli più agevole. Saremo chiamati a scegliere se liberare le sorelline del loro mostruoso fardello regalando loro una nuova infanzia umana oppure ucciderle prosciugandole del tutto del prezioso Adam. Detta così, potrebbe essere semplice dire quale sia la scelta giusta ma, in realtà, siamo ben oltre i limiti dell’ovvio.

Le sorelline non sono biologicamente umane, anzi, sono completamente prive di umanità nel loro stato e ciò, convenzionalmente, non le porta allo status di esseri umani. Non sappiamo i risvolti reali della loro “redenzione” che, per mano nostra, potrebbe lasciarle in una sofferenza perenne e con enormi problemi di carattere psicologico e sociologico. Neanche la dottoressa che le ha create, Brigit Tenenbaum non sa realmente cosa le sorelline siano in realtà né tantomeno conosce la loro origine. Vale la pena rischiare la propria vita per salvare questi soggetti che potrebbero essere stati creati artificialmente in laboratorio? Sta a voi deciderlo… dilemmi etici di tale portata saranno ben presenti anche nei sequel in cui potremo o non potremo forzare la legge di Rapture e quella etica per andare avanti, oppure partecipare ad un golpe che possa favorirci. E’ tutto nelle nostre mani e i vari finali disponibili, che cambiano in base alle nostre scelte, rappresentano il giudizio finale sulle nostre azioni. Provare per credere.  

Sono ambidestro e ve lo dimostro!

Spero che a questo punto via sia passato il messaggio che “Bioshock” e fratelli siano dei capolavori visionari e senza tempo ma non potevi esimermi dal parlarvi di una delle meccaniche di gioco più importanti nonché più iconiche e riconoscibili del gioco: il doppio attacco combinato.

Abbiamo detto in incipit che a Rapture abbiamo la possibilità di acquisire poteri straordinari chiamati Plasmidi e che questi siano alla base di tutti e tre i titoli. Ciò non implica, però, che i nostri protagonisti non possano farsi largo tra selve di nemici a colpi di armi da fuoco, anzi. L’innovazione della saga di Bioshock è proprio rappresentata dal doppio attacco Plasmide/Arma da fuoco che possiamo sfruttare anche in base all’ambientazione. Per fare un paio di esempi banali, ma si può eliminare il nemico con enorme eleganza e in tanti modi diversi, se il nostro avversario si trova con i piedi nell’acqua sarà certo una buonissima idea utilizzare la scarica per fulminarlo per bene prima di finirlo con fucile o pistola mentre se si trova a camminare sul cherosene o sulla benzina, la fiamma ci aiuterà ad arrostirlo a puntino.

Boom e poi bang-bang!

Ecco, la possibilità di utilizzare la mano destra per sparare e la sinistra per utilizzare il potere fu un vero colpo di genio dei creatori che regalarono, così, ai posteri una saga da cui, successivamente, hanno attinto un po’ tutti a piene mani.

Una saga oltre il tempo e la tecnica

Degrado sociale, psicologia, cieca follia e lucida crudeltà sono gli ingredienti che, uniti ad un comparto tecnico di altissimo rilievo e da un level design degno di essere studiato nelle università di settore, fanno della saga di Bioshock una delle più importanti e ricordate dell’intera storia videoludica. Tre titoli che non sentono quasi per nulla il peso degli anni e che possono essere tranquillamente giocati anche al giorno d’oggi senza il timore di vivere un’esperienza vintage e poco appagante. Provare per credere.

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Resident Evil 4 Remake – Recensione

Recensione in BREVE

Resident Evil 4 è un capolavoro con qualche difettuccio. Il lavoro di Capcom per svecchiare l’opera è stato magistrale e ha trasportato in tutto (tranne che per il comparto grafico) nella piena attualità video ludica. Un must have a tutti gli effetti da giocare e rigiocare. Nessun miracolo, intendiamoci, ma il titolo merita assolutamente un voto altissimo.

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Parlare di un remake è sempre un compito arduo. Paragonare un prodotto nuovo ad uno di quasi vent’anni fa obbliga l’articolista a camminare su un terreno sdrucciolevole, palleggiando tra presente e passato. Il tutto, poi, si amplifica quando il protagonista del remake è una pietra miliare dell’universo videoludico che ha fatto scuola e che ha rappresentato la linea di demarcazione tra quello che c’è stato prima e quello che è venuto dopo.

Resident Evil 4 Remake è un capolavoro o no? I fan urleranno di eccitazione o resteranno delusi? Ecco cosa aspettarci dall’ultima fatica targata Capcom.

Fare tesoro degli errori passati

Realizzare un remake mette di fronte a due possibilità: restare fedeli alla storia o modificarla per dare una ventata di novità. Secondo il punto di vista di chi scrive, seguire la strada del rinnovamento in termini di trama è un errore molto grave ed è esattamente quello che non ci è piaciuto nel remake di RE3, in cui sequenze e momenti fondamentali a fini della storia apprezzata nel 1999 sono stati modificati o addirittura rimossi e sacrificati sull’altare del rinnovamento. Chi gioca ad un remake, invece, vuole riassaporare il gusto che ha provato ai tempi dell’uscita del gioco originale, rivivere le stesse atmosfere e, perché no, commuoversi nel ricordare personaggi o ambientazioni che gli hanno fatto amare quel titolo.

I ragazzi di Capcom, vivaddio, hanno recepito bene le copiose critiche piovute su Resident Evil 3 Remake, facendone tesoro e presentando un remake di RE4 assai fedele al gioco del 2006. Il lavoro di svecchiamento del titolo, infatti, ha riguardato la rimozione di alcune dinamiche di gioco ormai superate, la piccola modifica di alcune sequenze e la riscrittura di alcuni personaggi (soprattutto di Ashley) redendoli più gradevoli, anzi, evitando di odiarli letteralmente ogni qualvolta aprano bocca o compiano una qualunque azione. Ma andiamo con ordine.

Quoque tu, Leon!

Fin dai primissimi istanti del prologo che fa anche da tutorial, la sensazione che abbiamo provato è stata quella di trovarci di fronte ad un remake concettualmente diverso dal precedente capitolo. Abbiamo riconosciuto perfettamente ambientazioni e stile conosciuti nel 2006 e questo ci ha fatto sentire a casa. La piazza del villaggio di Valdelobos dove assistiamo alla primissima scena horror del gioco è esattamente come la ricordavamo e ci ha fatto sorridere di eccitazione e malinconia.

E, soprattutto, abbiamo riconosciuto il nostro caro Leon Kennedy. In questo capitolo della saga lo ritroviamo in qualità di agente segreto al servizio del Presidente degli Stati Uniti che lo ha assoldato per riportare a casa l’adorata figlia Ashley di cui si sono perse le tracce in Spagna.

Gli orrori vissuti a Raccoon City sembrano ormai alle spalle e l’eroe è convinto, pur nutrendo dei sospetti che ci sia qualcosa di grosso sotto, di aver intrapreso una missione “Trova&Salva” abbastanza canonica. Speranza vana. Appena messo piede in terra iberica, infatti, veniamo a conoscenza del fatto che molta gente del posto e alcuni turisti escursionisti sono scomparsi nel nulla e che le indagini non hanno portato a nessuna pista.

Rimasti soli alla periferia di Valdelobos, dunque, inizierà un nuovo incubo tra mostruosità crescenti e che troverà il suo culmine nell’ultimo atto della nostra avventura.

Scrivere una recensione no-spoiler di un remake parrebbe poco furbo, tanto più che abbiamo svelato essere molto fedele all’originale pubblicato al tempo per GameCube, ma il nostro intento è stato quello di preservare chi, invece, si approccia a Resident Evil 4 per la prima volta.

Una cosa, però, ve la sveliamo: niente Separate Ways. La mini campagna dedicata ad Ada Wong non è presente nel gioco. Prossimo DLC?

Il gameplay fra tradizione e attualità

Nel 2006, Resident Evil 4 si presentò ai fan con la classica visuale alle spalle del protagonista, caratteristica che il remake ha giustamente mantenuto. La capigliatura argentea e i muscoli del buon Leon, quindi, saranno sempre ben visibili sullo schermo garantendo al giocatore una discreta gestione degli spazi e delle fasi di gioco.

Come detto, il gameplay ha ricevuto un dovuto restyling così da rendersi più moderno e fruibile. Innanzitutto, sono stati eliminati i quick time events (a parte uno minuscolo nelle fasi iniziali) con buona pace di chi li amava e di chi, invece, come noi, crede siano ormai superati. Non dovremo più cimentarci, dunque, a premere i vari pulsanti richiesti a tempo per evitare questo o quell’altro ostacolo o sfruttare i nostri riflessi per abbattere nemici oversize. La sfida, dunque, ha ricevuto un upgrade interessante che ha reso il titolo più longevo, più giocabile e, di fatto, più divertente.

Per quanto riguarda i combattimenti, continui e costanti in linea con l’anima action del titolo, ci siamo goduti appieno le novità introdotte: la parata e il parry. In pratica, il nostro eroe potrà disinnescare i colpi sferrati all’arma bianca dai nemici fino a sbilanciarli e contrattaccare con un calcio o una spettacolare (quanto trash) suplex. Proprio per questo, il coltello di Leon sarà il nostro miglior amico e dovremo frequentemente farlo riparare al mercante così da non restarne senza durante gli scontri e poterlo utilizzare per finire i nemici agonizzanti prima che evolvano in mostri più veloci, resistenti e pericolosi.

Abbiamo citato la parata e il parry come gradevolissima introduzione e il motivo risiede nel fatto che Resident Evil 4, fin dal tutorial, ci manda un messaggio chiarissimo: se la vostra idea è quella di affrontare orde di nemici assaltandoli ed esponendovi ad attacchi multipli, accantonatela subito. Gli abitanti del villaggio semi-mutati prima e tutti gli altri avversari che troveremo via via nel nostro cammino di ricerca sono aggressivi, veloci e coriacei. Affrontarli a viso aperto significa, a livello normale e soprattutto difficile, sprecare fiumi di munizioni per abbattere avversari che spawnano di continuo, spaccare il coltello a forza di parate e rimetterci, alla fine, la vita. Meglio, laddove possibile, scegliere la modalità stealth e fuggire verso luoghi più sicuri.

Per quanto concerne le armi a disposizione, il mercante sarà un valido alleato proponendocene sempre di più potenti e, talvolta, offerte d’acquisto vantaggiose. Potremo anche scambiare gli spinelli (pietre preziose di colore rosa) che troveremo disseminati per la mappa o che riceveremo dopo aver completato piccole missioni secondarie le cui richieste troveremo scritte su volantini blu affissi ai muri. Riceveremo, così, manufatti e potenziamenti fondamentali per sopravvivere. Avremo anche la facoltà di vendere gioielli e monili trovali qui e lì così da arricchirci e comprare nuova attrezzatura.

Scegliere cosa acquistare e quando farlo sarà fondamentale per superare i livelli, 16 capitoli per l’esattezza, che si susseguiranno a difficoltà crescente. Trovarsi con l’arma sbagliata e senza munizioni nel posto sbagliato non ci darà scampo e renderà l’esperienza frustrante. A tal proposito, abbiamo gradito l’introduzione del crafting delle munizioni attraverso la combinazione di polvere da sparo e materiali specifici di cui la mappa è ampiamente disseminata. Ne faremo uso molto spesso, se non altro per liberare spazio nella nostra iconica valigetta tetris a carico limitato.

Molto, molto bene, come anticipato, la riscrittura dei personaggi e in particolar modo di Ashley che si rapporta finalmente a Leon in modo più maturo. Scomparsa, per fortuna, la figlia del Presidente sciocca del 2006 che, più di una volta, ci ha fatto invocare gli dei affinché venisse fulminata immantinente. Modificato anche il carattere del buon Kennedy, decisamente più cazzuto in questo capitolo rispetto al passato ma altrettanto ironico e sprezzante.  

Non abbiamo apprezzato, invece, il mancato di lavoro sui movimenti generali di Leon che appaiono piuttosto legnosi e poco fluidi, assai più vicini agli standard tecnici del 2006 piuttosto che a quelli attuali. Caratteristica che ci ha fatto imprecare non poco quando ci siamo trovati spalle al muro contro orde di nemici e i movimenti del nostro platinato eroe si sono rivelati troppo lenti. Nota a margine, la mancata introduzione di un’animazione che arresti la ricarica dell’arma nel caso di assalto nemico: se stiamo rimpolpando di munizioni un fucile o una pistola durante una carica avversaria dovremo rassegnarci a subire l’attacco. Peccato.

Un’opera da guardare ma soprattutto da ascoltare

E veniamo al comparto grafico di Resident Evil 4 Remake. Posto che lo abbiamo giocato su PC quasi al massimo del dettaglio, possiamo dire che il motore fisico e grafico abbia fatto ovvi passi da gigante, migliorando fortemente l’impatto estetico dell’opera ed esaltando lo già straordinario level design apprezzato nell’originale. Riteniamo, comunque, l’opera non pienamente in stile new generation, anzi, piuttosto cross-gen. Per intenderci, RE4 ci regala una cura dei dettagli importante ma ci saremmo aspettati qualcosa in più. È assai probabile che il gioco sia stato concettualmente realizzato immaginando che la maggior parte degli utenti lo avrebbe giocato su console o pc di penultima generazione ma non riteniamo, questa, una scusante. Il gioco, da un punto di vista strettamente grafico è un’occasione mancata di perfezione. Infatti, qui e lì, abbiamo notato texture piuttosto approssimative e qualche bad clipping (rarissimi, c’è da dirlo) alquanto fastidioso. Non abbiamo, insomma, gridato al miracolo.  

Fantastica, invece, la colonna sonora. Le tracce si sposano perfettamente con i momenti del gioco e concorrono a rendere l’esperienza emozionante. Da brividi i rantoli dei nemici, così come le parole di sfida lanciate in spagnolo (anche se leggermente ripetitive). Sentiremo migliaia di volte “Donde estas?” e “Un forastero!”. Una nota di merito al doppiaggio completamente in italiano molto ben fatto.

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: Horror
  • Lingua: Italiano
  • Multiplayer: Si
  • Prezzo59,99€
  • Piattaforme: PlayStation 5, PlayStation 4, Xbox Series X|S, PC
  • Versione provata: PC

Abbiamo affrontato i pericoli di Valdelobos e dintorni per circa 12 ore grazie a un codice fornito dal publisher