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Civilization 7 – Recensione

Gioco ai videogame da oltre 30anni e, crescendo, è nata la passione per i titoli strategici e per i gestionali più impegnativi. Curiosissimo per natura, ero affascinato dall’idea di poter fondare e far fiorire imperi virtuali. Già dai tempi dei primi capitoli di Civilization, opera nata dal genio di Sid Meier agli inizi degli anni Novanta e sviluppata originariamente da MicroProse, mi sono trovato catapultato in un universo ricco di sfide: un mondo in cui si parte con una singola città per poi costruire un impero prospero, facendo i conti con la diplomazia, la scienza, la guerra e la cultura. Nel corso del tempo la serie si è evoluta sotto l’egida di Firaxis Games (che Sid Meier stesso ha co-fondato) e la pubblicazione di 2K, arricchendosi di nuove meccaniche e approfondimenti, ma mantenendo sempre l’ossatura tipica del “4X”: Explore, Expand, Exploit, Exterminate. E ora, finalmente, è arrivato il momento di parlare di Civilization 7. Ho avuto l’opportunità di provarlo in anteprima e, da giocatore di lunga data, posso dire con fermezza che questa nuova incarnazione sa come tenerti incollato allo schermo, ammaliandoti con la sua complessità e la sua profondità strategica. A patto che…

Un’eredità importante e un nuovo capitolo che sa stupire

Iniziare a parlare di Civilization 7 significa anche ripercorrere, in parte, la storia di questo franchise. Per questioni anagrafiche, non ho giocato al capostipite della serie, datato 1991, ossia quando Meier sperimentava con l’idea di trasformare la storia umana in un gigantesco board game digitale. Ho vissuto di più il passaggio a Civilization II, con grafiche migliorate e le prime vere battaglie che regalavano un senso di realismo, sebbene fossimo ancora nelle prime fasi della grafica bidimensionale. Con Civilization III si è aperta una nuova stagione di tradizione mista a innovazione, e Civilization IV ha segnato l’epoca della colonna sonora epica (chi non ricorda la traccia iconica all’avvio?) e di un miglioramento generale del sistema di gioco. Civilization V, poi, ha introdotto l’innovazione dell’esagono nelle caselle di mappa e lo spostamento delle unità, mentre Civilization VI ha continuato a innovare aggiungendo la suddivisione delle città in distretti e ulteriori migliorie in campo diplomatico e artistico.

Arriviamo a Civilization 7: un titolo che, pur mantenendo la medesima struttura a turni e lo stile “crea e gestisci il tuo impero dalla preistoria all’era moderna (e oltre)”, aggiunge ulteriore complessità a un sistema che, a ogni nuova iterazione, diventa più ampio e ricco di sfaccettature. Non a caso gli sviluppatori di Firaxis tengono a sottolineare la profondità delle meccaniche, l’importanza della diplomazia (con nuovi accordi e opzioni di interazione tra leader) e la possibilità di personalizzare ulteriormente lo sviluppo della propria civiltà, dal punto di vista culturale, scientifico, militare e religioso.

Civilization-7-Recensione-Spagna

Un piccolo gioiello, ma… per chi ha molta dedizione

Civilization 7, come i suoi predecessori, non è un gioco che si “apre e si gioca” in pochi minuti giusto per passare il tempo. È un titolo che pretende passione e dedizione, capace di fagocitare intere giornate se ci si lascia assorbire dalla pianificazione necessaria per progredire in tutte le aree cruciali dell’evoluzione della propria civiltà. Le differenze rispetto a Civilization VI si notano soprattutto a livello di micromanagement: la gestione dei distretti urbani e delle infrastrutture è stata ampliata ulteriormente, con la possibilità di specializzare sempre di più le città verso determinati output (cultura, produzione, commercio, scienza o addirittura turismo e intrattenimento). Se a questo si aggiunge un’IA migliorata nelle trattative diplomatiche – per quanto perfezionabile, come da tradizione – ci si ritrova a dover studiare ogni mossa con estrema attenzione.

Quando descrivo Civilization 7 come un “piccolo gioiello”, voglio dire che è un gioco dalle tante sfaccettature e che brilla sotto diversi punti di vista. Offre una gamma incredibile di scelte al giocatore, regalando una sensazione di controllo onnipotente sul proprio destino digitale. Tuttavia, come tutti i gioielli preziosi, va maneggiato con cura e con calma. Non aspettatevi di lanciare la partita e di capire tutto in un paio d’ore: io, che credevo di conoscere bene la serie, ho dovuto fare i conti con numerosi cambiamenti e nuove meccaniche che mi hanno costretto a rivedere le mie strategie abituali. La bellezza di Civilization 7, però, è proprio questa: la costante scoperta di nuovi equilibri, di sinergie tra edifici e distretti, di scelte politiche che influenzano le relazioni internazionali e di sentieri tecnologici che portano a vantaggi inaspettati.

La mia prima disfatta: gli Stati Uniti mi soffiano la vittoria

Nonostante la mia lunga esperienza, la prima partita a Civilization 7 è andata in modo sorprendentemente… disastroso. Avevo puntato tutto su un obiettivo ben preciso, convinto che nessuno dei miei avversari avrebbe potuto competere con me in quel settore. Invece, gli Stati Uniti si sono dedicati silenziosamente a un altro tipo di vittoria – la diplomatica, nello specifico – e hanno concluso tutti i passaggi necessari per ottenerla prima che io potessi dire “Ho vinto!”. Ebbene sì, ho perso la partita. Ho assistito a una schermata di sconfitta che, nonostante la comprensibile frustrazione del momento, mi ha spinto a riflettere su quanto Civilization 7 sia un titolo tanto affascinante quanto spietato.

Questo insuccesso ha riacceso in me la voglia di giocare “un altro turno”, classico mantra del fan di Civ. Finita la partita, mi sono trovato a ricominciare, testardo, deciso a non farmi fregare di nuovo dalla diplomazia altrui. Ma proprio questa è la grande forza di Civilization: ogni volta che ci si trova di fronte a una sconfitta, non ci si sente ingannati dal gioco, ma piuttosto si avverte la necessità di studiare nuove strategie, di pianificare diversamente e di non lasciare spazi agli avversari. Insomma, un perfetto esempio di come un videogame possa stimolare la creatività e le capacità di analisi del giocatore.

Leader e bonus: un menù da veri gourmet della strategia

Uno degli aspetti che trovo più interessanti di Civilization 7 è la selezione dei leader, ancora più varia che in passato (e in continua espansione, se consideriamo i DLC futuri che senza dubbio arriveranno). Firaxis ha da sempre puntato sul proporre personaggi storici provenienti da ogni parte del mondo, ognuno con il proprio bagaglio di bonus e malus che vanno a influenzare radicalmente lo stile di gioco. Stavolta, ho deciso di sperimentare due leader che mi incuriosivano particolarmente: Franklin e Napoleone.

La scelta di Franklin per la mia civiltà è stata motivata dalla volontà di spingere sull’acceleratore dello sviluppo tecnologico. Immaginate la scena: mi sono ritrovato a capo di un esercito che, almeno all’inizio, doveva essere l’esercito dell’antica Roma, guidato però dall’illustre statista americano. La sensazione è, a dir poco, straniante: un Franklin in toga che tiene discorsi di ispirazione alla corte romana lascia presagire un contesto quasi distopico. Ma è una distopia affascinante e, nonostante il paradosso storico, efficace dal punto di vista ludico. I bonus di Franklin, infatti, favoriscono la produzione di scienza e la fondazione di nuove città in maniera equilibrata, consentendo un rapido progresso tecnologico e un discreto miglioramento della produzione industriale con l’andare dei secoli.

Napoleone, invece, è tutto l’opposto: un condottiero carismatico, che offre vantaggi militari e diplomatici nei confronti delle civiltà confinanti. Giocare con Napoleone significa abbracciare una strategia aggressiva, basata sullo sviluppo di un esercito potente e sull’espansione territoriale rapida. Naturalmente, non bisogna sottovalutare le conseguenze diplomatiche: se attaccate a ripetizione i vostri vicini, rischierete sanzioni, alleanze avversarie e boicottaggi commerciali. Eppure, se ben gestita, l’aggressività militare di Napoleone può garantire un vantaggio tattico insormontabile, specialmente nelle prime ere, quando i confini si delineano e si definiscono le sfere d’influenza.

Civilization 7 Recensione: Napoleone

Tra epoche, distretti e meraviglie: il fascino del passare del tempo

Un altro aspetto che mi ha sempre rapito di Civilization è la transizione tra le varie epoche storiche. Dalla preistoria si passa gradualmente all’età classica, al medioevo, al rinascimento, all’età industriale, moderna, contemporanea e persino al futuro prossimo. Questa progressione segna dei passaggi quasi rituali, in cui ogni era porta con sé nuove tecnologie, nuovi edifici e nuove sfide, come l’accesso a risorse strategiche che prima non erano disponibili o la necessità di aggiornare le proprie strutture.

In Civilization 7, il passaggio tra un’epoca e l’altra è ulteriormente enfatizzato dalla possibilità di potenziare i distretti cittadini in modo sempre più specifico. Se ad esempio volete puntare tutto sulla cultura, potete costruire e ingrandire i vostri distretti teatrali, con musei, grandi opere e così via. Se preferite la scienza, potete dedicare intere zone urbane alla creazione di campus, laboratori e meraviglie naturali convertite in centri di ricerca. Oppure, ancora, potete specializzare alcune città verso la produzione bellica, erigendo caserme avanzate e poligoni di tiro per velocizzare l’addestramento delle unità militari. Tutto si incastra come un enorme puzzle, che richiede di valutare le risorse sul territorio, la posizione geografica, la presenza di fiumi, montagne, coste e altre caratteristiche che possono influenzare la resa dei vostri distretti.

Civilization 7 Recensione: Carri armanti

Scelte difficili: cooperare o dominare?

Uno degli elementi più intriganti di Civilization 7 è il continuo doversi porre domande cruciali: collaborare con i vicini o dichiarare guerra? Firmare trattati di non belligeranza o stringere accordi commerciali e culturali per rafforzare le proprie linee di rifornimento? Soprattutto a difficoltà più elevate, gli avversari controllati dall’IA si rivelano piuttosto smaliziati, pronti a prendere decisioni che massimizzano i loro interessi. Di conseguenza, non è raro vedere alleanze inaspettate o tradimenti clamorosi. In una delle mie partite, ad esempio, avevo stretto un accordo di cooperazione scientifica con un’altra civiltà, che sembrava condividere il mio interesse per la ricerca. Mi sentivo al sicuro, finché non mi sono accorto che quel patto serviva ai miei “amici” solo per guadagnare tempo, potenziare i propri distretti scientifici e infine lanciarsi nella corsa a una vittoria basata sulla scienza, tagliandomi fuori sul traguardo finale. Ho perso la partita anche in questo frangente, e ammetto di aver trattenuto a stento una risatina nervosa, perché il gioco sa essere crudele e geniale allo stesso tempo.

La sfida della difficoltà e il “bello” di un gioco complesso

Spesso mi viene chiesto: “Ma come fai a divertirti con un gioco così complesso? Non è meglio qualcosa di più immediato, che non richieda di leggere venti schermate di tutorial?” La mia risposta, da giocatore appassionato di gestionali e strategici, è che la complessità può essere uno stimolo enorme per la mente, una sfida che dà soddisfazione proprio perché non si limita a premiarti se premi un paio di tasti a caso. Civilization 7 è un titolo che va studiato, capito e interiorizzato, e il percorso di apprendimento è parte integrante del divertimento. All’inizio si commettono errori, si trascurano determinati aspetti e si perde la partita senza neanche rendersene conto.

Con il passare delle ore, però, iniziamo a comprendere come funziona il motore del gioco: come combinare i distretti in modo efficiente, quando è il momento di avviare un trattato commerciale, come gestire al meglio le risorse strategiche e così via. È in questa curva di apprendimento che risiede la magia di Civilization. Ognuno di noi, appassionati del brand, ha avuto la sua “prima volta” con un capitolo della serie e ha sperimentato quel senso di spaesamento misto a curiosità che ti spinge a migliorare turno dopo turno. Civilization 7 porta avanti questa tradizione di “profondità”, e la eleva grazie a un’interfaccia più pulita, a indicatori più chiari delle varie risorse e a un sistema di consigli e suggerimenti che, seppur non infallibile, cerca di guidare i neofiti.

Civilization 7 Recensione: Roma

La mia esperienza con Franklin e Napoleone: due modi di dominare il mondo

Tornando alla mia esperienza più recente, voglio raccontarvi come ho gestito le partite con i due leader che ho scelto di provare in maniera approfondita: Franklin e Napoleone. Con Franklin, come accennato, mi sono concentrato principalmente sulla ricerca scientifica, puntando a una rapida esplorazione di quelle tecnologie che potessero assicurare un salto di qualità alle mie unità e alle mie strutture produttive. Ho cercato di mantenere un buon rapporto con i vicini, stipulando contratti commerciali vantaggiosi e patti di non belligeranza che mi permettessero di crescere in pace. Il percorso scientifico, però, non è privo di ostacoli: se non si costruisce un esercito minimo per la difesa, si rischia di diventare un bersaglio facile per le civiltà più aggressive. Quindi ho dovuto bilanciare la corsa alla ricerca con la realizzazione di un apparato militare almeno accettabile.

Con Napoleone, invece, ho calzato l’elmo del conquistatore. Ho iniziato la partita consapevole che avrei dovuto crescere velocemente da un punto di vista territoriale, per assicurarmi più risorse e un vantaggio geografico sugli avversari. Ho scelto di fondare città in prossimità di giacimenti di ferro e di cavalli, necessari per costruire un esercito imponente già in epoca classica e medievale, e poi ho premuto l’acceleratore sulla produzione militare. Devo dire che la sensazione di spadroneggiare sul campo di battaglia con Napoleone è molto appagante: i bonus militari permettono di formare battaglioni più potenti e di sferrare attacchi rapidi, cogliendo di sorpresa le civiltà che si basano sulla diplomazia. Certo, un approccio del genere comporta un continuo rischio di escalation: attacchi un vicino, l’altro si insospettisce, si creano alleanze difensive e potresti ritrovarti a combattere su più fronti. Eppure, l’adrenalina di veder crescere il mio impero di turno in turno, sottraendo città cruciali ai rivali, è stata impagabile.

Diplomazia avanzata e trattati internazionali

Un punto di forza di Civilization 7 è l’evoluzione del sistema diplomatico. Già in passato, la serie introduceva concetti come la religione e la vittoria culturale, ma qui è tutto portato a un livello più raffinato. Le coalizioni nascono e muoiono a seconda delle pressioni geopolitiche, e la possibilità di organizzare congressi mondiali o conferenze internazionali per decidere il futuro delle risorse, delle meraviglie o dei diritti umani può davvero cambiare l’esito di una partita. Ho visto nazioni apparentemente amiche voltarmi le spalle all’ultimo minuto, magari costrette da pressioni esterne, e altre invece offrirmi aiuto per ragioni di interesse comune. Ed è proprio qui che ci si sente come un direttore d’orchestra, cercando di armonizzare le note di politica interna ed esterna, mentre le nazioni rivali cercano di dare un tocco diverso alla sinfonia.

Il bello è che non c’è un’unica strada vincente: potete scegliere di restare neutrali e di farvi i fatti vostri (puntando su scienza o cultura), oppure potete essere i pacificatori del mondo cercando di convincere tutti a firmare patti di non belligeranza, o ancora potete abbracciare la via del militarismo per sottomettere i popoli rivali prima che possano danneggiarvi. Ogni scelta comporta vantaggi e svantaggi, e non esiste una strategia che funzioni in tutte le partite, perché molto dipende da quali civiltà vi trovate di fronte e dalla conformazione geografica della mappa, che può favorire uno stile di gioco rispetto a un altro.

Le sconfitte: inevitabili ma formative

Un altro elemento che può colpire i nuovi giocatori (e che può scoraggiare chi si aspetta un titolo immediato) è la frequenza con cui ci si trova in situazioni di disfatta. In Civilization 7 non è raro perdere una partita, a volte dopo diverse ore, per un obiettivo mancato o perché un alleato, senza che voi lo sapeste, ha lavorato sodo per ottenere una vittoria diplomatica, religiosa o culturale. Ricordo ancora quella partita in cui mi ero focalizzato sullo sviluppo marittimo, costruendo flotte potenti per difendere le mie rotte commerciali e tenere lontani i pirati dall’oceano. Ero così concentrato su questo aspetto che non ho notato come una civiltà amica, con cui avevo buoni rapporti, stesse accumulando pian piano punti per la vittoria culturale, diffondendo la sua influenza grazie a grandi artisti e musicisti. Quando me ne sono accorto, era troppo tardi: nel giro di pochi turni, il “mio amico” ha trionfato, mentre io mi ritrovavo con una poderosa marina militare ma un pugno di mosche in termini di obiettivi.

Non nego di aver provato un po’ di frustrazione, ma questa è anche la bellezza di un gioco che non regala nulla. Serve costanza per imparare a vigilare su tutti gli aspetti contemporaneamente, e ogni sconfitta diventa un’occasione per perfezionare le nostre abilità da strateghi.

Civilization 7 Recensione: Franklin

Tecnicamente solido

Dal punto di vista tecnico, Civilization 7 si mostra solido, ben ottimizzato e con una grafica rinnovata: gli scenari sono ancora più dettagliati, le città si animano di luci e movimenti in tempo reale, e i vari modelli dei leader sono resi con grande cura. Quando si zooma sulla mappa, si notano particolari come le strade, i campi coltivati e i distretti specializzati.
L’interfaccia utente è migliorata rispetto ai precedenti capitoli: i menu sono più ordinati e i suggerimenti contestuali aiutano i giocatori a prendere decisioni consapevoli, anche se talvolta la mole di informazioni da gestire può risultare soverchiante. Per chi ama gli strategici a turni, tuttavia, questa abbondanza di dati è quasi una carezza, perché amplia la gamma di scelte possibili.

Da giocare e rigiocare

Dopo tutte queste ore trascorse ad affrontare partite mozzafiato e a studiare strategie nelle varie epoche, ho raggiunto una conclusione piuttosto netta: Civilization 7 merita un voto di tutto rispetto. È un titolo che, a mio avviso, stupisce per varietà e profondità, per la cura con cui Firaxis ha ulteriormente perfezionato la formula, ma richiede di essere capito, apprezzato e, soprattutto, di essere “giocato parecchio” prima di poterne cogliere tutte le sfumature. Non è un gioco adatto a chi cerca immediatezza o a chi vuole intrattenersi per mezz’ora, magari in modo spensierato. Qui siamo davanti a un’esperienza che pretenderà ore su ore della vostra vita, ma che saprà ripagarvi con momenti di autentica soddisfazione, quando riuscirete finalmente a completare un obiettivo epocale o a stringere un’alleanza cruciale che vi permetterà di rovesciare i rapporti di forza.

Civilization 7 è un prodotto che si inserisce con onore nella serie, portando avanti il DNA di Civilization in modo coerente e affascinante. Consiglio a chiunque sia incuriosito di provare, magari partendo a un livello di difficoltà medio-basso, così da familiarizzare con le meccaniche prima di lanciarsi nelle sfide più ardue. Ma siate pronti a impegnarvi e a leggere qualche guida o suggerimento online, perché la strada per diventare grandi leader è lunga e tortuosa.

Conclusione

Civilization 7 si conferma il “piccolo gioiello” di cui parlavo, un titolo complesso che farà la gioia di noi eterni amanti della strategia e che potrà far innamorare anche chi non ha mai provato un gestionale di questa portata, a patto di metterci la giusta dose di pazienza e di entusiasmo. D’altronde, come appassionato di vecchia data, so bene che la formula di Civilization ha sempre richiesto tempo e applicazione, ma è proprio in questa “lentezza” e ricchezza di sfaccettature che il gioco riesce ancora a brillare, rendendo ogni singolo turno un passo verso la gloria… o verso il baratro, se qualche leader avversario dovesse sorprendere con una strategia inaspettata. In ogni caso, non c’è niente di più esaltante che dire “ancora un turno” alle due del mattino, mentre la vostra civiltà entra trionfante in una nuova, fantastica, era.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, PS5 PRO, Xbox Series X/S, Nintendo Switch, PS4, Xbox One, PC
  • Data uscita: 11/02/2025
  • Prezzo69,99 €

Ho provato Civilization 7 in anteprima grazie a un codice per PlayStation 5 gentilmente fornito dal publisher.

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Tecnologie

Dal 2D al 3D: l’evoluzione della profondità nei videogame

Come appassionato di videogiochi, ho sempre trovato affascinante il modo in cui l’industria sia riuscita a trasformare un medium piatto e bidimensionale in un’esperienza immersiva, tridimensionale e ricca di profondità. E non parlo solo dell’evoluzione grafica, ma di come l’introduzione della terza dimensione abbia cambiato radicalmente il gameplay, il modo di raccontare storie e l’interazione stessa con i giochi.

Vorrei portarvi in un viaggio, partendo dai classici picchiaduro 2D, passando per l’impatto rivoluzionario del 3D, fino agli RPG che hanno spinto i confini della profondità a livelli inimmaginabili.

L’era dei picchiaduro 2D: la semplicità che conquista

Negli anni ’90, i picchiaduro 2D dominavano le sale giochi e le console di casa. Giochi come Street Fighter II e Mortal Kombat rappresentavano il massimo dell’innovazione. Con una prospettiva bidimensionale, il focus era tutto sulla precisione e sul tempismo: muoversi avanti, indietro, saltare o abbassarsi erano le uniche opzioni per evitare gli attacchi avversari.

Ricordo le ore passate a padroneggiare le combo di Ryu o Ken, cercando di perfezionare lo Shoryuken nel momento giusto. In Street Fighter II, la profondità non era fisica ma strategica. Bisognava leggere l’avversario, anticipare le sue mosse e reagire con riflessi fulminei. Era un’epoca di puro gameplay, dove ogni partita era una battaglia di abilità e determinazione.

Tuttavia, per quanto amassi questi giochi, c’era una limitazione evidente: il movimento era confinato a una linea immaginaria. Mancava quella sensazione di spazio, di libertà che solo una terza dimensione avrebbe potuto offrire.

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Il salto nel 3D: l’avvento di Tekken e Virtua Fighter

L’arrivo di Virtua Fighter (1993) di Sega è stato un momento spartiacque. Per la prima volta, un picchiaduro introduceva modelli poligonali e movimenti tridimensionali. Non era più solo avanti o indietro: ora potevi spostarti lateralmente, schivare e utilizzare l’arena in modo completamente nuovo. Questo cambiamento ha rivoluzionato il genere, aprendo la strada a giochi come Tekken, che non solo abbracciavano il 3D, ma lo sfruttavano per creare mosse più fluide, arene interattive e strategie completamente nuove.

Tekken ha spinto tutto al massimo. Ogni personaggio aveva un set di mosse unico e la possibilità di girare attorno all’avversario aggiungeva uno strato di complessità. Ricordo ancora le prime volte in cui eseguivo una schivata laterale con Hwoarang, sentendo finalmente quella libertà che i giochi 2D non potevano offrire. Inoltre, la grafica poligonale permetteva una caratterizzazione più dettagliata dei personaggi, rendendo il tutto più coinvolgente.

Anche Soul Calibur merita una menzione speciale. Questo gioco non solo sfruttava il 3D per i combattimenti, ma integrava armi, movimenti complessi e arene dinamiche che potevano influenzare il corso dello scontro. Le possibilità sembravano infinite, e per un appassionato come me, era come entrare in un nuovo mondo.

L’esplosione del 3D negli RPG: mondi da esplorare

Mentre i picchiaduro abbracciavano la terza dimensione, gli RPG la utilizzavano per creare mondi. Giochi come Final Fantasy VII (1997) sono stati pionieri, utilizzando fondali prerenderizzati in 3D per dare l’impressione di profondità. Anche se il movimento era ancora limitato, il passaggio da ambienti piatti a città e dungeon che sembravano veri luoghi ha trasformato il modo in cui i giocatori vivevano le storie.

Ma la vera rivoluzione è arrivata con giochi come The Elder Scrolls III: Morrowind (2002) e Dark Souls (2011). Questi titoli non solo offrivano mondi completamente tridimensionali, ma integravano la profondità nel gameplay. In Morrowind, potevi scalare montagne, immergerti sott’acqua e scoprire segreti in ogni angolo del mondo. Ogni collina, caverna o città sembrava avere una storia, un significato.

Poi è arrivata la saga dei Souls, e tutto è cambiato.

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Dark Souls e la profondità come filosofia di gioco

Parlare della terza dimensione senza menzionare i giochi Souls sarebbe un delitto. Demon’s Souls e i suoi successori (Dark Souls, Bloodborne, Sekiro ed Elden Ring) non solo hanno utilizzato il 3D per creare mondi visivamente spettacolari, ma hanno integrato la profondità nel cuore del gameplay.

In questi giochi, l’ambiente non è solo uno sfondo: è un personaggio a sé stante. Ogni angolo può nascondere una trappola, un nemico o un tesoro. La verticalità è fondamentale: pensate ai castelli che si ergono verso il cielo, ai ponti sospesi sopra abissi infiniti, o ai percorsi tortuosi che si snodano attraverso foreste e caverne. Muoversi in questi ambienti richiede attenzione, pianificazione e coraggio.

Ricordo ancora la mia prima volta nel castello di Boletaria. La sensazione di pericolo era palpabile: il terreno sconnesso, le scale traballanti e la possibilità di cadere nel vuoto rendevano ogni passo una sfida. Era un tipo di profondità che andava oltre la grafica: era emotiva, psicologica. Sentivi il peso del mondo attorno a te, la sua ostilità, ma anche la sua bellezza. Per non parlare dei combattimenti, durante i quali ogni fendente portato col tempo sbagliato significava trovarsi in una situazione di svantaggio tattico e posizionale rispetto all’avversario. È lì che la tridimensionalità raggiungeva l’apice: il mondo intorno conta e tanto nella tenzone. Se non calcoli dove sei, muori e muori anche male.

L’introduzione del 3D non riguardò solo l’estetica, ma anche il gameplay. Skyrim, ad esempio, portò l’esplorazione a un nuovo livello: potevi scalare montagne, immergerti nei laghi e interagire con un mondo vivo e pulsante. Lo stesso vale per giochi come Dragon Age: Inquisition e The Witcher 3: Wild Hunt, che hanno utilizzato il 3D per integrare storie complesse direttamente nei loro mondi.

La terza dimensione come strumento di storytelling

Un altro aspetto cruciale dell’introduzione del 3D è stato il modo in cui ha rivoluzionato il racconto. Nei giochi 2D, la storia veniva spesso narrata attraverso dialoghi o scene statiche. Con il 3D, però, è possibile raccontare una storia attraverso l’ambiente stesso.

Prendiamo The Legend of Zelda: Ocarina of Time (1998). Questo gioco non solo ha introdotto un mondo tridimensionale esplorabile, ma ha usato lo spazio per narrare. Ogni villaggio, tempio o campo di Hyrule aveva un significato, una storia da raccontare senza bisogno di parole.

Oppure pensate a giochi come The Witcher 3: Wild Hunt. Qui, la profondità del mondo non è solo estetica: ogni collina, foresta o villaggio racconta una storia, spesso nascosta tra le pieghe di un paesaggio apparentemente naturale. La terza dimensione ha permesso di trasformare il mondo di gioco in un vero e proprio libro, dove ogni angolo è una pagina da scoprire.

Il 3D nei moderni open world: Red Dead Redemption e oltre

L’evoluzione del 3D ha raggiunto un’apoteosi negli open world moderni. Titoli come Red Dead Redemption 2 e Grand Theft Auto V dimostrano quanto sia possibile creare mondi realistici, dove ogni dettaglio è curato. In Red Dead Redemption 2 (un capolavoro che abbiamo anche approfondito), puoi cavalcare per chilometri, immergendoti in una natura selvaggia che sembra viva. Ogni albero, fiume o tramonto contribuisce a creare un’esperienza cinematografica unica.

Anche giochi come No Man’s Sky hanno portato la profondità a livelli inimmaginabili, offrendo interi universi da esplorare. Qui, il 3D non è solo una tecnologia, ma un mezzo per realizzare la promessa del gaming come viaggio infinito.

Conclusione: la profondità come futuro del gaming

Guardando indietro, è incredibile pensare a quanto la terza dimensione abbia trasformato il gaming. Da Street Fighter II a Tekken, da Final Fantasy VII a Dark Souls, ogni passo ha aggiunto uno strato di complessità, immersività e magia.

Ma la profondità non è solo una questione tecnica. È il modo in cui il gioco ti coinvolge, ti immerge e ti sfida a esplorare. E non vedo l’ora di scoprire cosa ci riserva il futuro. Forse mondi ancora più vasti, esperienze ancora più intense, o magari una quarta dimensione? Chissà. Ma una cosa è certa: l’evoluzione non si fermerà mai.

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Editoriali

I 10 giochi più difficili della storia

Dicono che il mondo dei videogiochi sia un paradiso di relax e divertimento. Quelli che lo dicono evidentemente non hanno mai provato a finire uno di questi dieci giochi! Se siete come me, ogni tanto vi viene un inspiegabile bisogno di sfidare i vostri nervi e la vostra sanità mentale, tanto da intraprendere questi giochi con lo stesso entusiasmo di chi salta in un pozzo sperando in un morbido atterraggio. Eccomi qui, a condividere le mie cicatrici (e un po’ di odio).

Siete pronti a scoprire i giochi più difficili della storia? (Spoiler: non ci sono lieti fini.)

10. Ninja Gaiden

giochi difficili: ninja gaiden

Ninja Gaiden è quel gioco che ti dice: “Vuoi essere un ninja? Bene, soffri come un ninja!” Dimenticate i tutorial rilassati e le modalità “easy” di certi titoli moderni. Qui la parola “difficile” viene fuori dal manuale d’istruzioni per accoglierci con affetto. Il gameplay è fantastico, certo, ma se vi fermate anche solo un attimo per godervelo, un nemico spunta fuori e vi abbatte senza pietà. Dopo ore di sudore e grida, potreste pensare di aver finito… invece c’è un boss più difficile dietro l’angolo. Se siete masochisti e ninja mancati, questo è il gioco per voi.

9. F-Zero GX

Il gioco di corse più cattivo mai creato. F-Zero GX ha la peculiarità di sembrare facile… per i primi dieci secondi. Poi, scopri che ogni curva è una potenziale catastrofe, ogni pilota avversario è un ninja, e ogni “boost” è una spinta verso la follia. Quando riesci a completare una pista, ti senti un dio. Ma chi ti ha detto che la vera sfida sono le piste ha dimenticato i Grand Prix e il boss finale. Sì, un boss in un gioco di corse. Non chiedetemi altro: ho ancora i flashback notturni.

8. Dark Souls

Ah, Dark Souls. Il primo incontro con questo titolo si svolge sempre allo stesso modo: crei il tuo personaggio con speranza e immaginazione, scegli un nome epico… poi, dopo pochi passi, il mondo ti ricorda chi è il vero boss qui. Non è solo un gioco difficile: è una maratona di sofferenza, dove ogni nemico sembra conoscere le tue debolezze. Dark Souls è un gioco che ti prende per mano… solo per spingerti giù da una scogliera. Ma stranamente, continui a tornare, perché ti convinci che “questa volta andrà meglio”. Spoiler: no, non andrà meglio.

7. Cuphead

giochi difficili: cuphead

Con il suo stile cartoonesco e un’adorabile grafica anni ‘30, Cuphead sembra quasi una passeggiata nei campi fioriti dell’infanzia… finché non premi “start”. Questo gioco non si gioca: si sopravvive. Ogni boss è una coreografia di schivate, colpi, e bestemmie trattenute, e se sbagli anche solo di un millisecondo, addio. Eppure, il mix di disperazione e risate isteriche che provoca è pura droga. Complimenti agli sviluppatori per aver creato un’opera d’arte che, molto probabilmente, sarà anche causa di diverse crisi nervose.

6. Ghosts ‘n’ Goblins

Un classico da sala giochi che non perdona. In Ghosts ‘n Goblins, giochi nei panni di un cavaliere che perde letteralmente i pantaloni al primo danno. Se questo non fosse abbastanza, ogni passo avanti è una danza tra demoni, scheletri e altre creature uscite dagli incubi. La cosa peggiore? Una volta finito il gioco, ti viene detto che era tutto un’illusione e devi rifare tutto da capo. Esatto. Siete finiti in un circolo di sofferenza infinita, e ora è troppo tardi per tirarsi indietro.

5. Contra

Contra è come un film d’azione anni ‘80, ma con un solo finale: la tua inevitabile sconfitta. Un gioco da sparare e correre dove ogni proiettile può far fuori il tuo soldato. La difficoltà è così alta che gli sviluppatori hanno dovuto inventare il famigerato “Konami Code” solo per dare ai poveri giocatori una speranza. Quindi, se un giorno vi svegliate pensando di voler provare una “difficoltà d’altri tempi”, Contra è la risposta. Ma ricordate: con grande potere viene grande frustrazione.

4. Super Meat Boy

giochi difficili: super meat boy

Oh, Super Meat Boy. Un gioco dove la tua unica missione è non morire… ogni tre secondi. Il protagonista è un pezzo di carne sanguinolento che deve saltare su muri pieni di seghe circolari, palle di fuoco e trappole che nemmeno in un film dell’orrore. Ogni livello ti fa sentire come se fossi sempre ad un passo dal trionfo, ma proprio quando pensi “ce l’ho fatta!”, cadi inesorabilmente in un’altra lama affilata. Solo i giocatori più pazienti – o testardi – riusciranno a finire questo gioco con il sorriso sulle labbra.

3. I Wanna Be The Guy

Con un titolo come I Wanna Be The Guy, non c’è inganno: questo è un gioco che separa i “ragazzi” dai “veri uomini”. È una parodia dei platform classici, ma con trappole così assurde che è praticamente una dichiarazione di guerra al giocatore. Ogni cosa, dalla grafica ai boss, è progettata per farti perdere la calma. Se riesci a finirlo, congratulazioni: sei ufficialmente “il ragazzo”. Ma non prendiamoci in giro: il percorso è pieno di momenti in cui vorrai solo piangere (o lanciare il controller).

2. Sekiro: Shadows Die Twice

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I fan di Dark Souls pensavano di essere preparati… ma poi è arrivato Sekiro. Questo gioco ti spinge a giocare come un vero samurai: devi avere pazienza, disciplina e perfetta tempistica. Non basta difendersi o attaccare a caso; ogni movimento richiede precisione chirurgica. Gli scontri con i boss sono lezioni di umiltà che ci fanno apprezzare ancora di più la nostra mortalità. E se pensi che “morire due volte” sia solo un modo di dire… be’, preparati a contare anche fino a dieci.

1. Battletoads

giochi difficili: battletoads

Infine, il leggendario Battletoads. Questo è il Monte Everest dei giochi difficili, una sfida di resistenza fisica e mentale. La famosa “Turbo Tunnel” è il peggior incubo di qualsiasi giocatore, dove la velocità è tanto alta che solo chi ha riflessi da pilota di F1 può sperare di sopravvivere. I giocatori si sono chiesti per anni se qualcuno l’abbia mai finito senza trucchi. Non so voi, ma io ancora sogno quel tunnel, con i miei rospi verdi che continuano a schiantarsi. Complimenti a chi ha avuto la forza e la follia per arrivare fino alla fine di questo viaggio.

Questi dieci giochi non sono solo difficili: sono un’esperienza che ti segna. Se mai li avete provati, sapete di cosa sto parlando. Se no, sappiate che il vero coraggio non è completarli, ma iniziarli. Siete pronti?

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Società

Microtransazioni nei videogiochi: il dibattito infinito

Le microtransazioni nei videogiochi sono diventate un argomento di grande discussione all’interno della comunità dei giocatori e oltre. Mentre alcuni le accolgono come una forma di personalizzazione e supporto ai giochi, altri le considerano un esempio di pratica commerciale controversa che può compromettere l’esperienza di gioco.

In questo articolo cercheremo di analizzare il fenomeno (sempre crescente e radicato) da ogni angolazione e in maniera asettica cercando più di sviscerarlo che di giudicarlo. Ecco perché non faremo esempi concreti di microtransazioni citando questo o quel titolo. La nostra speranza è quella di fornire un quadro completo del fenomeno. Al lettore, poi, la libertà di lodarlo o criticarlo.

Le microtransazioni, come suggerisce il nome, sono piccoli acquisti effettuati all’interno di un gioco per ottenere contenuti aggiuntivi, potenziamenti o personalizzazioni per il personaggio o l’esperienza di gioco. Possono variare da semplici skin cosmetiche a oggetti in-game che influenzano direttamente il gameplay.

Da una prospettiva commerciale, le microtransazioni sono diventate una fonte di entrate significative per gli sviluppatori di giochi. I giocatori possono essere disposti a spendere denaro reale per ottenere vantaggi competitivi o per personalizzare il loro avatar. Tuttavia, questa pratica ha sollevato molte preoccupazioni, soprattutto riguardo alla sua potenziale influenza sui giochi stessi e sulla loro equità.

Uno degli aspetti più controversi delle microtransazioni è la loro presenza nei giochi gratuiti o a pagamento. Nei giochi free-to-play, le microtransazioni spesso fungono da principale fonte di reddito per gli sviluppatori, consentendo loro di offrire il gioco gratuitamente mentre ancora guadagnano dalla vendita di contenuti in-game. Tuttavia, in alcuni casi, queste microtransazioni possono portare a un modello di gioco “pay-to-win“, dove i giocatori possono ottenere un vantaggio significativo spendendo denaro reale.

Anche nei giochi a pagamento, le microtransazioni sono diventate sempre più comuni. Molti titoli offrono pacchetti di contenuti aggiuntivi o espansioni che possono essere acquistati separatamente per arricchire l’esperienza di gioco. Tuttavia, alcuni giocatori ritengono che questi contenuti aggiuntivi dovrebbero essere inclusi nel prezzo di base del gioco, portando a una sensazione di essere esclusi da parti significative del gioco a meno che non si spenda ulteriormente denaro.

L’impatto delle microtransazioni sulla qualità complessiva dei giochi è un argomento di grande rilevanza nel panorama videoludico moderno. Queste transazioni, sebbene offrano agli sviluppatori una fonte di reddito aggiuntiva e ai giocatori la possibilità di personalizzare l’esperienza di gioco, sollevano domande importanti riguardo al modo in cui influenzano il design, l’equità e la soddisfazione generale del giocatore.

Una delle principali preoccupazioni riguarda l’equilibrio del gameplay. Quando le microtransazioni offrono vantaggi competitivi agli acquirenti, possono generare uno squilibrio tra giocatori che spendono denaro reale e quelli che non lo fanno. Questo crea un ambiente in cui il successo dipende più dalla capacità di investire denaro che dalle abilità o dalla strategia di gioco. Tale modello può minare l’esperienza di gioco per coloro che preferiscono competere in base alla propria abilità, creando un ambiente frustrante e non equo.

Microtransazioni videogiochi: cosmetics

Inoltre, le microtransazioni possono influenzare il modo in cui vengono progettati i giochi. Gli sviluppatori potrebbero essere tentati a creare meccaniche di gioco che incoraggiano gli acquisti in-game, piuttosto che concentrarsi sull’equilibrio e sull’esperienza di gioco soddisfacente per tutti i giocatori. Questo può portare a un calo della qualità complessiva del gameplay, con decisioni di design dettate più dalla redditività che dalla coerenza o dall’innovazione.

Un altro aspetto da considerare è il rapporto tra il prezzo del gioco e il valore percepito dai giocatori. Quando i giochi richiedono un costo iniziale e poi offrono microtransazioni aggiuntive, alcuni giocatori possono sentirsi scoraggiati o delusi, specialmente se i contenuti aggiuntivi sembrano essenziali per un’esperienza di gioco completa. Questo solleva domande sulla trasparenza e sull’integrità dei prezzi dei giochi, con i giocatori che si chiedono se il prezzo iniziale rifletta realmente il valore offerto.

Tuttavia, va notato che non tutte le microtransazioni sono viste negativamente. Quando offrono solo contenuti cosmetici che non influenzano il gameplay, possono essere accettate come una forma legittima di supporto allo sviluppatore. I giocatori possono apprezzare la possibilità di personalizzare il proprio personaggio o l’aspetto del gioco senza compromettere l’equità o l’esperienza di gioco per gli altri.

Un’altra prospettiva positiva sulle microtransazioni riguarda la possibilità di finanziare lo sviluppo continuo di contenuti e aggiornamenti per i giochi esistenti. Questo può contribuire a mantenere viva una comunità di giocatori a lungo termine e a prolungare la vita utile di un gioco al di là del suo lancio iniziale. Tuttavia, è importante che questi aggiornamenti siano valutati in modo equo e che non vengano utilizzati come pretesto per monetizzare ulteriormente l’esperienza di gioco.

In risposta alle preoccupazioni dei giocatori, alcune aziende hanno introdotto politiche più trasparenti riguardo alle microtransazioni e hanno cercato di limitare il loro impatto sul gameplay. Ad esempio, alcuni giochi offrono solo contenuti cosmetici che non influenzano la meccanica di gioco, garantendo che i giocatori non possano acquistare un vantaggio competitivo. Tuttavia, resta comunque la sfida di trovare un equilibrio tra la generazione di entrate per gli sviluppatori e il mantenimento dell’integrità e dell’equità del gioco.

In conclusione, le microtransazioni nei videogiochi sono un argomento complesso che continua a suscitare dibattiti appassionati. Mentre offrono agli sviluppatori una fonte di reddito supplementare e ai giocatori la possibilità di personalizzare l’esperienza di gioco, sollevano anche preoccupazioni riguardo alla loro influenza sul design del gioco e sull’equità complessiva. L’equilibrio tra profitto e esperienza di gioco soddisfacente rimane una sfida per l’industria videoludica, e il dibattito sul ruolo delle microtransazioni sembra destinato a continuare.

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Recensioni

Prince of Persia: The Lost Crown – Recensione

Quando ho avviato per la prima volta “Prince of Persia – The Lost Crown” avevo molte domande che mi frullavano in testa, le classiche domande che ci si pone quando si ha tra le mani un metroidvania: il livello di sfida sarà crescente e ben livellato? Quanti pad manderà nel paradiso dei pad? La storia sarà ben scritta? Posso dire che il titolo di Ubisoft Montpellier ha superato quasi a pieni voti i vari esami. Ma andiamo con ordine.

Questa recensione, come spesso accade per il nostro blog, non nasce con l’obbligo di dover fornire informazioni su un titolo a pochissimi giorni dalla sua uscita, ma con la velleità di regalare al lettore il commento a un gioco sviscerato a fondo e per lungo tempo.

Prince of Persia: The Lost Crown è un buonissimo gioco, anzi, dal mio punto di vista è un gioco eccellente. Non perfetto, ma sicuramente un titolo che sarà ricordato. È stato molto piacevole scoprire che il protagonista del gioco non è un Principe di Persia, in barba al lore della serie che prese il via nell’ormai lontano 1989. Anzi, il principe persiano in questione è oggetto della ricerca da parte del nostro eroe che, baldanzoso e arrogantello, appare immediatamente sullo schermo.

Si tratta di Sargon, guerriero facente parte del gruppo di mercenari chiamati “Gli Immortali”. Veniamo a conoscenza del fatto che le gesta di questo gruppo di eroi sono state determinanti per la vittoria della Persia sull’Impero Kusana e che sono attesi a Palazzo per incassare gli onori e la ricompensa della famiglia reale. I festeggiamenti, però, durano ben poco perché il principe Ghassan viene rapito da un gruppo – allerta spoiler – guidato niente popò di meno che da colei che ha insegnato a Sargon tutto quello che sa: Anahita. Partiti all’inseguimento, gli Immortali giungeranno al leggendario Monte Qaf, un tempo roccaforte degli idoli persiani e colpito da una tremenda maledizione che ha squarciato il tessuto temporale.

La storia e l’intreccio

Ho deciso di partire dall’ultimo dei miei dubbi iniziali e il motivo è presto detto: è l’unico che mi è rimasto sullo stomaco. The Lost Crown non gode di una storia particolarmente originale. Certo, il tempo e il suo scorrere avanti (e indietro) portano un valore aggiunto e quando si arriverà al primo momento topico, che mi guardo bene da svelare, tornerà  molto utile a Sargon e darà maggiore slancio all’avventura. Però, di “trova e recupera” l’universo videoludico è stracolmo e, forse, una trama più coinvolgente avrebbe giovato. I colpi di scena sono quasi un po’ telefonati e non lasciano a bocca aperta. Non starò qui a raccontarvi minuziosamente cosa accade, ovviamente, ma è certo che non è per la storia che questo gioco mi è piaciuto molto. Già, perché questo gioco mi piaciuto veramente molto.

La caratterizzazione dei personaggi

Non essendo stato giocato in pre-lancio, ho potuto leggere diverse opinioni sui personaggi, molte delle quali hanno definito il nostro eroe poco profondo o, addirittura, piatto. Devo dire di non trovarmi affatto d’accordo. Sargon e, in generale gli altri personaggi, per quanto poco inclini al dialogo (gli scambi dialettici sono ridotti all’osso durante l’avventura tranne che per le battute iniziale dove sono addirittura eccessivi e tendenzialmente inutili) trasudano fierezza ed eleganza. Il nostro eroe possiede quel tocco presuntuoso che lo rende affascinante per quanto un pizzico stereotipato a tratti. Non sto parlando di personaggi dal carisma straripante né indimenticabili ma che portano ben avanti la storia, sono credibili e ben caratterizzati. Sargon è un eroe solitario, duro, forgiato nel fuoco di un’infanzia difficile e celata. Tutto questo si legge ampiamente tra le pieghe del suo dire e non era semplice. La squadra degli  Immortali,  è vero, non è indimenticabile ma, essendo presenti sullo schermo di gioco per un tempo ridottissimo non credo fosse necessario lavorarci più di tanto. Tendenzialmente scappano via per qualche strano obiettivo e ci lasciano soli a fare tutto il lavoro. Come sempre accade.

Prince of Persia: The Lost Crown - Boss Fight

Salta, colpisci, vola e para

Dal mio punto vista, quando si giudica un metroidvania vanno analizzate due componenti essenziali: il lato platform e le dinamiche di combattimento. Con The Lost Crown rasentiamo la perfezione.

Dal lato platform, il gioco è programmato magistralmente. Sargon compie le sue evoluzioni in modo impeccabile e non mi è capitato mai, in oltre 28 ore di gioco, di imprecare per un salto impreciso o per l’attivazione ritardata di uno dei molteplici poteri che il nostro protagonista acquisisce col raggiungimento di alcuni punti cruciali dell’intreccio. Sullo schermo accade esattamente quello che abbiamo deciso che accada nel momento esatto in cui lo abbiamo preventivato (nel bene e nel male)  e questo non può che far sorridere il giocatore più esigente, quello che si frega le mani davanti ad un nuovo titolo e cerca la sfida.

Com’è giusto e canonico per qualunque metroidvania, poi, progredendo col gioco, il livello di difficoltà aumenta, ma è una crescita dolce e gestibile. Sia da un neofita che da un amante del genere. Non ci sono scorci troppo frustranti che mettono a rischio l’integrità dei pad e questo, a mio parere, è un bene. A tal proposito, una nota di merito va data alla possibilità di scegliere la modalità libera che lascia libero sfogo al gioco stesso, permettendo al giocatore di scovare i segreti progressivamente, raccogliere i collezionabili nascosti qui e lì e setacciare della mappa in ogni angolo e quella guidata in cui il giocatore è “spinto” verso l’obiettivo e garantisce di poter giocare avendo sempre davanti agli occhi il checkpoint successivo da raggiungere. Io ho giocato nella prima modalità e non me ne sono pentito affatto. Il gioco è scorrevole, divertente e mai noioso (se non per un parte centrale leggermente più lenta ma comunque godibile). Altra nota di merito per gli sviluppatori di Ubisoft va data per aver inserito la possibilità di modificare il livello di sfida sotto tutti i punti di vista, scegliendo il grado di forza, di resistenza dei nemici e la loro aggressività. Personalizzabile anche il livello di difficoltà delle parate in base al tempismo con il quale si vuole che siano efficaci o meno. Oltre a questa custom ci sono comunque i classici livelli di gioco tra cui poter scegliere: Principiante,  Guerriero, Eroe ed Immortale. Noi l’abbiamo giocato a livello Eroe ed è stata un’esperienza davvero soddisfacente.

Prince of Persia: The Lost Crown - Il Principe

Per quanto riguarda il lato action e, quindi, il combattimento ci troviamo di fronte ad un canovaccio noto agli amanti del genere: attacco, combo, parata, parry. Tutto già visto, quindi? No, perché si vede che in quel di Montpellier hanno lavorato tanto per regalare al giocatore una estrema libertà di scelta riguardo al modo di affrontare i nemici. Contro il più debole degli avversari fino alle varie boss fight, infatti, il repertorio di Sargon è estremamente variegato tra attacchi di sciabola orizzontali, verso l’alto, dall’alto, in volo, calci e scivolate offensive. Molto importanti, com’è giusto e ci aspettavamo, le parate e il tempismo con cui vengono eseguite cosa che, in determinati casi, permette al nostro eroe di contrattaccare in modo così efficace da finire il nemico. Il tutto condito dall’utilizzo di svariati poteri che si acquisiscono nel corso dell’avventura e che non danno mai la sensazione di essere stati piazzati lì come riempitivo o solo per un mero senso estetico. Ogni potere ha un suo utilizzo sia in combattimento, in combo con le varie mosse offensive, sia durante le fasi più complesse di avanzamento platform. Prince of Persia – The Lost Crown è un gioco ragionato e ben lavorato. Nulla è stato inserito per caso e questo è senz’altro un bene. 

La magia e la bellezza

Fin dall’inizio del gioco, il colpo d’occhio è di tutto rispetto. Arrivo a dire che, per quanto essenzialmente in 2D, i fondali sono così profondi, ben fatti e belli da vedere che la terza dimensione va ad insinuarsi nell’occhio del giocatore e dà al titolo i gradi di opera pittorica di assoluto livello.

È vero che in alcuni tratti, forse, i ragazzi di Ubisoft hanno preferito tirar dritto regalando momenti meno alti dal punto di vista visivo, ma in linea generale, Prince of Persia: The Lost Crown è un gioco molto, molto bello da vedere. Consiglio, per quanto concerne le console, di giocarlo su PS5 o Xbox Series X, se possibile, per godere appieno del motore grafico estremamente soddisfacente. Belle le animazioni di Sargon che adopera i propri poteri stilisticamente in modo ineccepibile e che fanno godere quando si affronta qualunque nemico. Insomma, The Lost Crown è uno splendido quadro in movimento, una vera gioia per gli occhi.

Conclusione

Prince of Persia: The Lost Crown è un bel gioco, ben programmato e bello da vedere. Una piacevole scoperta per gli amanti dei metroidvania e ricco di spunti in grado di appassionare anche quelli che non amano particolarmente il genere. Avremmo preferito sentirci più coinvolti da una storia scritta meglio e più interessante ma tant’è. Resta comunque un eccellente lavoro dei ragazzi di Ubisoft – Montpellier che merita di essere giocato assolutamente.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, Xbox Series S|X, Switch, PC, PS4, Xbox One
  • Data uscita: 18/01/2024
  • Prezzo: 49,99 €

Ho provato il gioco poche settimane dopo il day one.

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Editoriali

I videogiochi di Indiana Jones attraverso i decenni

Cari avventurieri digitali e appassionati di archeologia virtuale, preparatevi a calarvi nella storia dei videogame dedicati al leggendario Indiana Jones! Con l’entusiasmo alle stelle per l’imminente uscita del nuovo gioco previsto nel 2024, “Indiana Jones e l’Antico Cerchio“, diamo uno sguardo retrospettivo ai precedenti capitoli che ci hanno permesso di vivere le avventure di questo iconico personaggio manovrandolo famelici attraverso i nostri schermi.

Com’è probabile che già sappiate, Indiana Jones è stato protagonista di svariati titoli video ludici che ci hanno accompagnato per anni. Non tutti sanno, però, che il primo videogame, un vero e proprio capolavoro per l’epoca, fu “Raiders of the Lost Ark“. Sviluppato per Atari 2600, lasciò tutti a bocca aperta.

Raiders of the Lost Ark – 1982

Per chi non ha avuto (come me) la fortuna di sperimentare “Raiders of the Lost Ark” nel suo periodo d’oro, può risultare difficile cogliere appieno l’emozione e l’innovazione che questo gioco ha portato con sé. Rilasciato nel 1982, in un’era di limitate risorse grafiche e tecnologiche, il gioco ha sfidato i limiti della sua epoca. La sua trama segue le avventure di Indiana Jones, consentendo ai giocatori di esplorare il mondo e risolvere enigmi per recuperare l’Arca dell’Alleanza. La grafica pixelata potrebbe sembrare rudimentale oggi, ma all’epoca rappresentava uno dei massimi standard.

“Raiders of the Lost Ark” è stato un pioniere nel genere dei giochi d’avventura, offrendo una vasta mappa aperta e una trama non lineare, un’idea rivoluzionaria nel contesto dei primi anni ’80. Tuttavia, la sua difficoltà e complessità hanno reso il gioco un vero e proprio enigma per i giocatori, contribuendo alla sua fama.

In conclusione, “Raiders of the Lost Ark” per Atari 2600 è un capolavoro dell’era dei videogiochi classici, una pietra miliare che ha contribuito a plasmare il futuro del medium. Anche se alcuni aspetti potrebbero sembrare datati oggi, il gioco merita il rispetto e l’ammirazione per la sua audacia e la sua influenza nel panorama videoludico.

Indiana Jones in the Lost Kingdom – 1984

“Indiana Jones in the Lost Kingdom” è un videogioco del 1984 realizzato da Mindscape per Commodore 64. Ampiamente considerato trascurabile nel panorama dei giochi dell’epoca, presentava una sua grafica semplice e una meccanica di gioco limitata. Disgiunto dai film del nostro buon dott. Jones, non è riuscito a distinguersi in un mercato dominato da titoli più avvincenti. Le recensioni dell’epoca criticavano la mancanza di innovazione e la scarsa qualità complessiva del gioco. Nonostante il richiamo della popolarità di Indiana Jones, questo titolo non è riuscito a lasciare un’impronta significativa nella storia dei videogiochi, rimanendo un esempio di prodotto mediocre e facilmente dimenticabile.

Indiana Jones and the Temple of Doom – 1985

“Indiana Jones and the Temple of Doom” è un videogioco uscito nel 1985, basato sul film omonimo di Steven Spielberg. Sviluppato da Atari Games, il gioco è stato progettato per le sale giochi. La trama segue Indiana Jones nel suo viaggio per liberare i bambini schiavi dal malvagio Thuggee nel Tempio Maledetto. Il gameplay è diviso in tre fasi: guida di mine car, lotta con avversari e il confronto finale nel tempio. Nonostante l’entusiasmo iniziale dovuto al successo del film, il gioco ha ricevuto critiche miste, con lamentele sulla sua difficoltà e ripetitività. Pur essendo un prodotto dell’epoca, il gioco non ha raggiunto lo stesso status di culto di altri videogiochi, ma rimane un ricordo nostalgico per i fan di Indiana Jones. Grazie ai vari emulatori usciti anni dopo, posso dire fieramente di averci giocato parecchio. A differenza della critica del tempo, e so che non vi interessa minimamente, a me piacque molto e mi fece divertire.

Indiana Jones and the Last Crusade: The Graphic Adventure – 1989

Questo gioiellino è un’icona intramontabile nel panorama dei giochi d’avventura punta e clicca. Lanciato nel lontano 1989 dalla Lucasfilm Games, il titolo si distinse per la sua fedeltà al film e il coinvolgente stile grafico.

Il gioco segue la trama del film “L’Ultima Crociata” permettendo ai giocatori di rivivere le epiche avventure dell’archeologo e del suo mitico papà. L’attenzione ai dettagli è straordinaria, con scene iconiche ricreate con cura e un cast di personaggi memorabili che danno vita al mondo virtuale di Indiana Jones.

La vera genialità del gioco risiede nella sua capacità di bilanciare azione, enigmi e narrazione. Il giocatore si trova a dover risolvere intricati rompicapi e affrontare situazioni pericolose, proprio come il nostro amato archeologo sul grande schermo. Le scelte del giocatore influenzano il corso della storia offrendo varietà in game e diversi finali. La critica non esitò a elogiare il gioco per la sua trama avvincente, i dialoghi spiritosi e la colonna sonora coinvolgente. Le recensioni furono unanimi nel riconoscere la fedeltà al materiale di origine e la capacità del gioco di trasportare i giocatori in un’avventura epica.

“Indiana Jones and the Last Crusade: The Graphic Adventure” è ancora oggi considerato uno dei capisaldi del genere e un esempio di come un buon adattamento videoludico possa catturare l’essenza di un’iconica saga cinematografica. Un’autentica gemma per i fan di Indiana Jones e gli amanti dei videogiochi d’avventura. E, tra parentesi, il mio gioco su Indy preferito.

Indiana Jones and The last Crusade – The Action Game – 1989

“Indiana Jones e l’Ultima Crociata – The Action Game,” lanciato nel 1989, è un punto di riferimento nei giochi d’azione ispirati al famoso archeologo e uscì insieme al gioco punta e clicca poc’anzi descritto. Prodotto da Lucasfilm Games, il titolo si proponeva di portare l’esperienza cinematografica de “L’Ultima Crociata” direttamente sullo schermo dei giocatori ma con un taglio molto più action. Questo gioco, disponibile su varie piattaforme dell’epoca, incluse Amiga e Atari ST, offriva una grafica all’avanguardia, considerata eccezionale per il periodo. I giocatori potevano rivivere i momenti salienti del film, dalla fuga dai nazisti al confronto con il Cavaliere, tutto condito da azione frenetica e sequenze di piattaforme coinvolgenti.

La varietà di ambientazioni, tra templi misteriosi e castelli sinistri, faceva sì che ogni livello fosse un’immersione nella narrativa dell’Ultima Crociata. La meccanica di gioco, sebbene semplice, richiedeva abilità e riflessi per superare gli ostacoli e sconfiggere i nemici, mantenendo l’energia e l’atmosfera del film.

Le recensioni dell’epoca lodarono il gioco per la sua fedeltà alla fonte di ispirazione, la qualità visiva avanzata e la capacità di catturare l’essenza avventurosa di Indiana Jones. Nonostante il passare del tempo, “Indiana Jones e l’Ultima Crociata – The Action Game” rimane un classico amato dai fan dell’archeologo e un tassello importante nella storia dei videogiochi ispirati al cinema. Anche io lo giocai al tempo e ne conservo un piacevolissimo ricordo.

Indiana Jones and the Fate of Atlantis – 1992

Videogiochi Indiana Jones and the Fate of Atlantis

“Indiana Jones and the Fate of Atlantis,” rilasciato nel 1992, è un’opera maestra tra i giochi d’avventura punta e clicca. Creato anche questo dalla mitica LucasArts, il titolo sfida gli appassionati di Indiana Jones a un’entusiasmante ricerca dell’antica città perduta di Atlantide.

Il gioco si distinse al tempo per la sua trama avvincente e la profondità dei personaggi. I giocatori vestono i panni di Indy e affrontano una serie di enigmi complessi, interagendo con personaggi indimenticabili. Un elemento chiave, di grande innovazione per l’epoca, è la possibilità di scegliere tra diverse vie di gioco, determinando così la direzione della storia e offrendo una rara rigiocabilità.

Graficamente avanzato per il suo tempo, il gioco presenta una varietà di location mozzafiato, da antichi templi a laboratori nazisti. La colonna sonora coinvolgente contribuisce a creare un’atmosfera avvincente, arricchendo l’esperienza di gioco. Il titolo è rimasto un’icona nel genere dei giochi d’avventura, lasciando un’impronta indelebile nella memoria dei giocatori e consolidando la sua reputazione come uno dei migliori adattamenti videoludici di un’iconica serie cinematografica. Ancora oggi, è un tuffo nostalgico nell’universo avventuroso di Indiana Jones.

Indiana Jones and the Fate of Atlantis: The Action Game – 1992

“Indiana Jones and the Fate of Atlantis: The Action Game” è un videogioco d’avventura uscito nel 1992, sviluppato da LucasArts. Anche in questo caso, come nel caso di “The Last Crusade”, la Lucas fece uscire anche una versione action del gioco oltre all’avventura grafica. Il giocatore assume il ruolo di Indiana Jones, affrontando avversari e risolvendo enigmi in vari ambienti esotici. Le sequenze d’azione sono accompagnate da una colonna sonora coinvolgente, mentre il gameplay punta sull’esplorazione e la risoluzione di puzzle. Nonostante la sua natura orientata all’azione, il gioco mantiene il fascino dell’universo di Indiana Jones, offrendo un’esperienza coinvolgente per i fan del personaggio e della serie. Devo essere sincero: questo, oltre alle versioni Lego che non amo particolarmente e che citerò soltanto per dovere di cronaca, è l’unico gioco su Indiana Jones che non ho mai provato in prima persona quindi resto radicato alle cronache e alle impressioni della rete.

Indiana Jones’ Greatest Adventures – 1994

“Indiana Jones’ Greatest Adventures,” lanciato nel 1994 per Super Nintendo, è una celebrazione interattiva delle epiche avventure dell’archeologo più famoso del mondo. Sviluppato da Factor 5 e pubblicato da JVC Musical Industries, il gioco si presenta come un avvincente platform a scorrimento laterale che cattura l’essenza dei primi tre film della saga. Con una grafica dettagliata e fedele ai film, il gioco permette ai giocatori di rivivere momenti iconici come la fuga dal tempio maledetto, la ricerca del Sacro Graal e la lotta contro i nazisti. L’abilità di esplorare questi scenari familiari in uno stile di gioco coinvolgente ha reso “Greatest Adventures” un titolo adatto sia ai fan di lunga data che ai neofiti della saga di Indiana Jones.

Una delle caratteristiche distintive del gioco è la sua fedeltà alla trama originale, mantenendo il ritmo avvincente e gli incontri memorabili. La colonna sonora coinvolgente e i controlli intuitivi hanno contribuito a rendere l’esperienza di gioco avvincente e immersiva.

Le recensioni dell’epoca hanno applaudito il titolo per la sua riuscita amalgama di azione, esplorazione e fedeltà alla fonte di ispirazione. “Indiana Jones’ Greatest Adventures” rimane un omaggio virtuale ai momenti salienti della saga cinematografica, trasportando i giocatori in un viaggio emozionante attraverso le avventure leggendarie di Indiana Jones. Un must per i fan della serie e un capitolo iconico nella storia dei giochi a tema cinematografico.

Indiana Jones and the Infernal Machine – 1999

“Indiana Jones and the Infernal Machine” è un videogioco d’avventura pubblicato nel 1999 per PC e successivamente per Nintendo 64. Sviluppato anche questo da LucasArts, il gioco segue le avventure di Indiana Jones alla ricerca di un artefatto misterioso, l’Infernal Machine, durante la Guerra Fredda. Il gameplay combina elementi di esplorazione, puzzle-solving e azione, offrendo una varietà di ambientazioni internazionali. Il gioco ha ricevuto recensioni generalmente positive per la sua trama coinvolgente, la fedeltà all’atmosfera dei film e la varietà delle sfide proposte. Tuttavia, alcuni critici hanno notato la grafica datata e alcuni problemi tecnici. Nonostante ciò, “Indiana Jones and the Infernal Machine” è considerato un titolo apprezzabile per i fan dell’archeologo avventuriero. Personalmente ho giocato soltanto la versione per GameBoy Color ma, sono sincero, non mi face impazzire o gridare al miracolo. Resta comunque un titolo che possiamo definire discreto.

Indiana Jones and the Emperor’s Tomb – 2003

Videogiochi Indiana Jones and the Emperor's Tomb

“Indiana Jones and the Emperor’s Tomb” è un videogioco d’azione e avventura uscito nel 2003 per diverse piattaforme, tra cui PlayStation 2, Xbox e PC. Sviluppato da The Collective, il gioco segue le avventure di Indiana Jones alla ricerca di un antico artefatto in Cina. Appena iniziai a giocarci, ricordo, non capii esattamente cosa fare. Mi trovai un po’ stranito. Non so spiegare bene il motivo ma, alla fine, ci giocai con piacere. Con una prospettiva in terza persona, il gameplay offre una combinazione di esplorazione, combattimenti e risoluzione di enigmi. Il gioco è stato ben accolto per la sua trama avvincente, i combattimenti ben realizzati e la fedeltà al personaggio di Indiana Jones. Tuttavia, alcune critiche sono state rivolte alla telecamera e ai controlli in alcune situazioni. (confermo, erano legnosi) Nonostante ciò, è considerato uno dei migliori videogiochi ispirati alle avventure di Indiana Jones.

Indiana Jones and the Staff of Kings – 2009

Videogiochi Indiana Jones and the Staff of Kings

“Indiana Jones and the Staff of Kings” è un videogioco d’azione e avventura uscito nel 2009 per diverse piattaforme, incluso PlayStation 2, PlayStation Portable, Wii e Nintendo DS. Ricordo che lo acquistai con tantissime aspettative ma rimasi assai deluso. Il gioco, sviluppato da LucasArts, segue le avventure di Indiana Jones nella sua ricerca di un antico artefatto. Offre una varietà di ambientazioni esotiche, sequenze d’azione e enigmi, cercando di catturare l’essenza dell’universo di Indiana Jones. Tuttavia, il gioco ha ricevuto recensioni tendenzialmente negative che hanno sottolineato negativamente i controlli non sempre precisi e a una trama che non raggiunge le vette dei film. Io non lo apprezzai quasi per nulla e rapidamente andò ad impolverarsi sullo scaffale accanto alla console. Nonostante ciò, per i fan incalliti del famoso archeologo, può comunque offrire un’esperienza di gioco divertente.

L’attesa nel mondo moderno

L’annuncio del prossimo videogioco “Indiana Jones e l’Antico Cerchio” ha scatenato una ondata di entusiasmo tra i fan di lunga data. La community online è pervasa da una fervente attesa, con i giocatori che condividono la loro gioia e anticipazione per ciò che sembra essere un nuovo e coinvolgente capitolo nell’universo di Indiana Jones.

I social media sono diventati un luogo di discussione vivace, con i fan che condividono aspettative e speranze per questo nuovo titolo. Le immagini teaser e i brevi teaser trailer hanno alimentato positivamente la curiosità, rivelando scorci affascinanti e catturando l’attenzione dei giocatori con richiami visivi alle avventure cinematiche di Indiana Jones.

Le notizie non ufficiali circolanti online hanno aggiunto un tocco di mistero, contribuendo a generare un’atmosfera di anticipazione. La comunità è pronta a esplorare nuovi scenari, risolvere enigmi avvincenti e vivere nuove avventure insieme al carismatico archeologo. In questo contesto, l’atmosfera è intrisa di ottimismo, con i giocatori che non vedono l’ora di tuffarsi in un nuovo capitolo ricco di emozioni e avventura. L’entusiasmo cresce giorno dopo giorno, alimentato dalla speranza di vedere realizzate le aspettative e di vivere un’esperienza di gioco indimenticabile con Indiana Jones e l’Antico Cerchio.

Conclusione

La saga di Indiana Jones nei videogame ci ha offerto un affascinante percorso attraverso diverse epoche di tecnologia e gameplay. Dall’8-bit al 3D, la storia dell’archeologo del nostro cuore ci ha ispirato a esplorare mondi virtuali pieni di misteri e avventure. Non vediamo l’ora di vedere cosa ci riserva il futuro con il nuovo gioco del 2024. Pronti a imbracciare la frusta e a vivere fantastiche avventure?

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Editoriali

Perché Max Payne ha fatto la storia dei videogiochi

Atmosfera onirica, movimenti estremamente rallentati e dilatati, il pianto straziante di un neonato, una sensazione di disagio e terrore che cresce ogni istante. Due uomini incappucciati assalgono all’improvviso il padrone di casa che, chiamando disperato il nome della moglie, li fredda a colpi di pistola. La porta della camera da letto che si apre, la tragedia. Brividi. Questo che vi ho appena descritto è l’inizio di Max Payne, capolavoro sviluppato da Remedy Entertaiment e pubblicato da Gathering of  Developers il 23 luglio 2001 per PC. Fecero seguito Max Payne 2: The Fall of  Max Payne pubblicato nel 2003 e il terzo e ultimo capitolo della saga: Max Payne 3 uscito nel 2012. 

Se c’è una trilogia di videogiochi che deve essere giocata, è assolutamente quella di Max Payne. Fin da subito, ben 23 anni fa, sono stato rapito dalla sua narrazione intensa, avvolgente come un buon romanzo noir e ho vissuto le gesta di Max in un viaggio intriso di azione e dramma. L’innovazione del “bullet time”, di cui parleremo diffusamente in seguito, ha trasformato le sparatorie in vera e propria arte, regalando un senso di controllo del tempo unico. I personaggi, da Max stesso a Mona Sax, sono sfaccettati e indimenticabili e le loro storie si intrecciano in modo avvincente.

La trama, densa di misteri e colpi di scena, è un’epopea noir che mi ha lasciato col fiato sospeso. L’ambientazione cupa di New York, la colonna sonora mozzafiato e le sfide di gameplay innovativo sono solo alcune delle ragioni per cui consiglio caldamente di immergersi in questo mondo. La trilogia di Max Payne non è solo un gioco è un’esperienza emotiva e cinematografica che ha ridefinito il mio concetto di narrazione nei videogiochi. Se amate l’azione avvincente, i personaggi memorabili e le storie coinvolgenti, Max Payne è un viaggio che non potete permettervi di perdere.

L’Avventura di Max Payne

Max Payne, antieroe dai contorni più che oscuri, è un uomo di contraddizioni e tragedie, con un passato che si annida tra le ombre. Inizia come un tranquillo e ironico detective della NYPD nonché un padre di famiglia con una vita serena. Ma il destino ha in serbo dolori insondabili per lui. La morte di sua moglie e della figlia, vittime di un tragico evento legato al traffico di droga, getta la sua esistenza nell’abisso dell’oscurità.

La sua ricerca di giustizia si trasforma in una vendetta personale, che lo porta attraverso il cupo scenario di New York, in un turbine di ingiustizie e cospirazioni. Max si ritrova invischiato in una rete di crimine organizzato, intrighi politici e doppi giochi, tutto mentre la sua anima si consuma nella disperazione.

La prima parte della trilogia è una discesa agli inferi, dove Max è accusato ingiustamente dell’omicidio di suo amico e collega Alex Balder. Fuggendo dalla legge, scava sempre più a fondo nella corruzione della città per smascherare la verità.

La seconda parte, vede Max ancora tormentato dai fantasmi del passato. Il suo incontro con Mona Sax, un’assassina dal passato oscuro, aggiunge nuovi strati di complessità emotiva. La trama si intreccia in una danza mortale tra doppi giochi e tradimenti, mentre il nostro alter ego virtuale naviga tra le pericolose acque del caos.

Infine, nella terza e ultima parte, Max “assaggia” la violenza mafiosa in Brasile dove affronta nuovi nemici e nuove sfide. Il filo rosso della sua storia si lega al cerchio, rivelando connessioni inaspettate e un epilogo carico di emozioni. Max Payne, il detective avvincente, passa attraverso il fuoco della sofferenza e si trasforma in un’icona indelebile dei videogiochi, portando con sé una storia epica e un viaggio interiore impossibili di dimenticare.

Personaggi, anzi, Icone

I personaggi di Max Payne sono un gruppo affascinante di individui con storie e personalità uniche che hanno reso la trilogia indimenticabile. Max, il nostro eroe con una faccia da duro ma un cuore a pezzi, naviga attraverso il dolore con una passione per il dramma noir che non smette mai di intrigare. La sua voce narrante, intrisa di cinismo e disillusione, è la colonna sonora emotiva di tutto l’epico.

Mona Sax, la femme fatale con un tocco di mistero, è come una rosa tra le spine. La sua connessione complicata con Max è un intreccio di emozioni contrastanti, e il modo in cui i loro destini si intrecciano è tanto affascinante quanto complicato. Il capitano Vladmir Lem è il classico villain russo, ma la sua compostezza e sarcasmo hanno aggiunto un tocco di umorismo nero alla trama.

Il “don” di New York, il vecchio e saggio Alfred Woden, è un personaggio che trasuda autorità e mistero, con le sue decisioni oscure e le motivazioni enigmatiche. E poi c’è il folle ma geniale Vlad, il re degli ambienti distorti e surreali. Ogni personaggio, anche quelli minori, ha contribuito a dipingere un quadro complesso e coinvolgente che ha reso la trilogia di Max Payne una saga indimenticabile, popolata da individui che ti seguono anche quando spegni la console.

Videogiochi: Max Payne 3

Il “Bullet Time”

Il mondo rallenta e la percezione si amplia in un’esperienza unica che solo Max Payne può regalare. Il “bullet time” nella trilogia è più di una semplice meccanica di gioco; è un balletto coreografato di proiettili, una danza letale in cui il tempo scorre al tuo comando. Ricordo la prima volta che ho attivato il bullet time: tutto sembrava congelarsi mentre le traiettorie delle munizioni appena esplose da fucili e pistole si intrecciavano in aria.

Immerso in una sparatoria mozzafiato, il mondo si trasformava in una tavolozza di azione e adrenalina. Ogni sparo diventava un’opportunità strategica e l’agilità nel gestire il tempo diventava la chiave per sfuggire alle situazioni più estreme. L’effetto visivo di proiettili che fendevano l’aria a velocità ridotta, mentre Max si muoveva con grazia attraverso il caos, fu un’esperienza viscerale.

Il “bullet time” non era solo uno strumento tattico, ma un’espressione artistica della potenza del videogioco. Saltare da dietro una copertura, rallentare il tempo e vedere i nemici sorpresi mentre le mie pallottole li freddavano con precisione millimetrica era un piacere insuperabile. La sensazione di controllo totale sullo scorrere del tempo, mentre le mie decisioni determinavano l’esito degli scontri, era pura elettricità ludica.

Il “bullet time” nella trilogia di Max Payne ha ridefinito il concetto di azione frenetica nei videogiochi, creando un’esperienza che ha lasciato un’impronta indelebile sulla mia memoria di giocatore. Quei momenti di lentezza, con il cuore che batteva all’unisono con la colonna sonora avvincente, sono frammenti di pura magia videoludica che rimarranno con me per sempre.

Videogiochi Max Payne: Bullet Time

Colonna sonora da urlo

La musica è spesso sottovalutata, ma nella trilogia di Max Payne, la colonna sonora è stata una parte fondamentale dell’esperienza. Le melodie epiche hanno amplificato le emozioni e reso ogni momento ancora più memorabile. Ritmi cadenzati, coinvolgenti, violenti la fanno da padroni. Posso dirlo: Max Payne va anche ascoltato oltre che giocato.

Conclusione

La trilogia di Max Payne ha conquistato il cuore dei giocatori grazie a una combinazione perfetta di narrativa coinvolgente, personaggi indimenticabili, innovazione nel gameplay e una colonna sonora da brivido. Questi giochi hanno segnato un’epoca e continueranno a essere citati come pietre miliari nella storia dei videogiochi. E voi, quali ricordi avete di Max Payne? Fatecelo sapere nei commenti e continuate a giocare!

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Società

Lucca Comics & Games 2023: foto del nostro giro tra fantasia e sogno

Ebbene sì! Anche noi de “Il Videogiocatore” siamo stati al Lucca Comics and Games 2023, evento che si è tenuto dall’1 al 5 novembre e che è giunto alla sua 57esima edizione. È valsa la pena andarci, sono state mantenute le aspettative? Ecco le nostre impressioni.

Partiamo da alcuni assunti fondamentali: il Lucca Comics, pur essendo chiaramente rivolto ad un pubblico amante dell’universo ludico in ogni sua forma (dal fumetto, al videogame, dal gioco da tavola al cartone animato, dal collezionismo di nicchia al prodotto per la TV o il grande schermo) è concepito anche per chi li vive solo lateralmente o, addirittura, non è propriamente un fan. Anche il solo passeggiare tra i bellissimi vicoli all’interno della cinta muraria che delimita Lucca antica che è teatro del maestoso evento è un grande piacere. Certo, se si detesta l’idea di stare tra una folla di cosplayer, non si sopporta l’idea, appunto, di mascherarsi per assomigliare ai propri personaggi preferiti e al posto di accendere la tv per rilassarsi si preferisce, magari, fare soltanto sport non è il posto giusto.

Altro assunto imprescindibile è che per godere appieno di tutte le attrazioni, gli spettacoli, gli incontri con gli autori e i contest ci si dovrebbe trattenere più di un giorno ed essere pronti a camminare tanto. Ma proprio tanto eh! Basti pensare che in un giorno e mezzo di permanenza, siamo arrivati a circa 30 km di passeggiata (e ce la siamo presa comoda!).

Detto questo, per chi come noi è profondamente nerd e geek, Lucca Comics rappresenta il “nerdvana”.

Per tutto il tempo della nostra permanenza siamo stati a bocca aperta a indicare (e fotografare) ogni cosplayer e ogni sfilata estemporanea e programmata, fino ad arrivare a strabuzzare gli occhi per le action figures a prova di qualunque collezionista presenti nei padiglioni e a sentire i brividi di piacere a vivere esperienze magiche legate alle saghe preferite e ai personaggi che hanno fatto e fanno tuttora sognare.

Non starò qui a elencare tutti gli artisti presenti, tutti gli autori e ogni evento, lasciando tale compito a chi ha vissuto il Lucca Comics, per lavoro o inclinazione, come una serie di cose che sono avvenute, una dopo l’altra. Per me il Lucca Comics & Games 2023 ha rappresentato l’opportunità di vivere una realtà intrisa di fantasia e potersi sentire a proprio agio con sé stesso e con gli altri.

E questa libertà non deriva soltanto dal tema del maxi evento contenitore ma proprio dalla morfologia di un luogo che, pur essendo confinato, è talmente esteso da non poter essere circoscritto a vista d’occhio. Ed ecco che ogni strada, ogni vicolo, ogni piazza, dove per tutto il resto dell’anno vige l’antica e sacra bellezza di una città storica si trasforma nel teatro della libertà e degli opposti, dove non ci sono regole da seguire per vestirsi, truccarsi o scegliere cosa amare e cosa no.

Una libertà nella sua piena e autentica accezione positiva, in cui non c’è lo sfogo animalesco ma soltanto quello artistico e fan-atico. Non è un caso, infatti, che pur accogliendo ogni anno tra le 250 e le 300mila persone, il Lucca Comics non sia mai stato teatro di un tafferuglio, una zuffa o una scazzottata. Eppure parliamo di un evento in cui ci si sciroppano file chilometriche per vedere le attrazioni più belle (il padiglione Netflix, per chi ci è stato, vi dice qualcosa?!) e dove spesso (ahimè anche quest’anno) piove senza sosta o quasi.

Personalmente, ho vissuto il Lucca Comics & Games 2023 proprio in questo modo pur riscontrando criticità abbastanza prevedibili come le già citate infinite file per visitare i padiglioni più gettonati o le attrazioni di copertina oppure la dispersione del macro contenitore che impedisce, di fatto, di poter visitare tutto in solo giorno (ma anche due, forse, non bastano).

Non avevo alcuna maschera, nessuna lentina colorata agli occhi né tantomeno una parrucca sgargiante che facesse risaltare la mia figura; eppure mi sono sentito parte di tutta quella magia che ogni giorno ricerco nelle mie passioni.

Ecco le passioni, e soprattutto una, quella che accomuna me e probabilmente la totalità di voi che sta leggendo questo pezzo: i videogame.

Ho deciso di lasciare tutta la zona gaming come ultima da visitare, come ciliegina su una immensa torta buona e tremendamente faticosa da mangiare. E devo dire di aver fatto bene. Tutto il complesso dedicato ai videogame, realizzato fuori dalle mura per dedicargli il maggiore spazio possibile, è stato una chicca. Console Nintendo e Sony messe a disposizione gratuita per il gioco, stand pieni zeppi di gadget a tema, videogame a prezzo fiera (con promo davvero vantaggiose) e tanto, tantissimo colore per gli amanti del genere.

Una enorme palestra dedicata alla visione in grande stile di finali mondiali dei giochi più conosciuti e amati, con tanto di pubblico delle grandi occasioni ad applaudire le mosse migliori dei campioni in gara e un palco per le esibizioni di artisti a tema videoludico completavano l’area.

Che dire a tal proposito? Beh, amanti dei videogame, andateci!

In conclusione, benché nel pomeriggio di sabato un temporale in grande stile abbia deciso di bagnare anche i miei pensieri, ritengo che il Lucca Comics sia un evento di assoluto valore e rilievo e che meriti di essere vissuto da amanti e simpatizzanti. Un luogo splendido condito da magia e iper realismo difficili da trovare se non, forse, oltreoceano.

Ah, ultima cosa: nella zona dedicata al mondo zombificato di Raccoon City ci ho quasi rimesso i boxer all’attacco di un non morto uscito improvvisamente dalla nebbia! A chi chiedo i danni morali? 🙂

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Recensioni

Resident Evil 4 Separate Ways – Recensione

Mentre il buon Leon Kennedy fa di tutto per portare a casa sana e salva Ashley, la figlia del Presidente degli Stati Uniti, c’è una figura che agisce nell’ombra, che porta avanti la sua missione e che, al contempo, fa da angelo custode al nostro biondo eroe. Si potrebbe riassumere così il plot di Separate Ways, eccellente DLC di Resident Evil 4 Remake, rilasciato da Capcom a completamento del quarto capitolo della fortunata saga horror.

Da amanti della serie, un po’ ce lo aspettavamo, anzi, saremmo rimasti assai delusi se la software house nipponica avesse scelto non riproporre la storia di Ada Wong presente, perlatro, nel gioco originale del 2005 e che tante risposte aveva dato ai giocatori dell’epoca.

E dobbiamo dirlo: “Strade Separate” è un eccellente prodotto su cui gli sviluppatori hanno lavorato sia in termini di rielaborazione della trama sia per quanto concerne il comparto tecnico.

Chi vi scrive lo ha terminato in circa 4 ore e mezza a livello normale notando un ottimo bilanciamento della difficoltà che aumenta di pari passo con le attrezzature in dotazione e che potremo migliorare, riparare, vendere e comprare dal mercante, già al servizio di Leon. Ma andiamo con ordine…

Carissima Ada

Senza sfondare il muro dello spoiler, Separate Ways ci fa rivivere la spaventosa epopea in terra spagnola di Resident Evil 4 questa volta nei panni della femme fatale Ada Wong, agente segreto al soldo di Albert Wesker (ben noto cattivone che presto si prenderà la scena quale vero villain della saga), che ha come obiettivo quello di recuperare l’Ambra, da cui, pare, si sia sviluppata l’infezione che ha falcidiato il villaggio di Valdelobos e dintorni.

Resident Evil 4 Separate Ways: Ada Wong mira

La donna sarà aiutata da Luis Sera, scanzonato e simpatico ricercatore della Umbrella Corporation prima e a libro paga del famigerato Saddler poi. Le sue vicende si intrecceranno con quelle di Leon e la porteranno al loro fondamentale incontro al castello di Salazar.

Separate Ways assolve egregiamente il compito di fornire nuovi elementi alla storia di Resident Evil 4, gettando le basi per il futuro remake, da parte nostro abbastanza scontato, di Resident Evil 5.

Facendosi largo tra nemici sempre più potenti, Ada riuscirà a portare a termine la sua missione? La scopriremo essere davvero una donna di ghiaccio o mostrerà anche un lato più umano e compassionevole? Queste risposte le lasciamo a voi e ai vostri pad. Una cosa ve la diciamo però: peccato per il finale…

Azione? Altro che Leon!

Nei panni di Ada, come detto, dovremo affrontare sostanzialmente lo stesso tipo di nemici che hanno intralciato Leon ma potremo affrontare le sfide in modo diverso. La velocità degli scontri e la frenesia degli attacchi saranno, infatti, maggiori con la bella Ada, non solo per la sua spiccata agilità che, vivaddio, cancella la legnosità di Leon spalle al muro (per sapere di cosa parliamo, vi invitiamo a dare un’occhiata alla recensione di Resident Evil 4 Remake) ma anche per il rampino che potremo sia utilizzare per salire rapidamente sul tetto di un edificio, sia per avventarci sui nemici storditi in men che non si dica e finirli. E non ditemi che non vi sentivate frustrati quando non riuscivate con il biondo agente a raggiungere in tempo il ganado di turno vedendolo riprendersi e gettando a mare un parry perfetto.

Grazie al rampino potremo volteggiare da una costruzione all’altra senza problemi e affrontare i nemici da angolazioni più favorevoli. Certo, la programmazione ci impedisce di trasformarci in Batgirl e vivere un’avventura in chiave stealth e avvolti dalle tenebre ma, comunque, il rampino sarà un nostro fondamentale e fedele alleato per tutta l’avventura. Basti pensare che una bossfight che non vi sveliamo sarebbe pressoché impossibile da completare senza il suo ausilio.

Sviluppato in modo intelligente il comparto dedicato agli enigmi, diversi da quelli che hanno messo alla prova Leon ma, spesso, connessi alle soluzioni da lui trovate. Come detto, ci saremmo aspettati qualcosina in più in termini di trama, soprattutto nelle battute finali ma saremmo bugiardi se dicessimo che il gioco non sia divertente e assolutamente scorrevole.

Visto che vista?

Da un punto di vista tecnico, il DLC è quello che ci aspettavamo: il motore RE Engine, fa il suo lavoro egregiamente. La versione PC che abbiamo provato ci ha colpito per il dettaglio dei personaggi anche se non ha fatto gridare al miracolo. Esattamente come la storia principale. A tal proposito ci teniamo a rimarcare un concetto già espresso nel commento di RE4: il gioco è ben fatto ma non possiamo definirlo assolutamente facente parte della nextgen. È un ottimo cross-gen, niente di più.

Molto bella la resa delle capacità date dall’ I.R.I.S. che permettono ad Ada di vedere particolari invisibili ad un occhio umano. Non stiamo parlando di un potere centrale né tantomeno determinante ai fini della trama e del completamento del gioco ma è una chicca tutta da gustarsi.

Nessun crollo di frame improvviso durante le fasi più concitate, nessun rallentamento o bad clipping quando sullo schermo ci sono orde di nemici a fare compagnia ad Ada o durante le boss fight; insomma: nessun balbettamento tecnico a conferma del lavoro di sviluppo minuzioso fatto dalla software house del sol levante.

Conclusione

Separate Ways, in definitiva, rappresenta un prodotto di assoluto valore che merita di essere giocato dagli amanti della serie. Aggiungiamo anche che il prezzo di vendita, accessibile a tutti, lo rende un must have per chiunque abbia apprezzato Resident Evil 4 Remake. Come accennato, inoltre, alcuni spunti e alcune location (vi dice niente il laboratorio?) inedite sono un evidente gancio ai futuri prodotti Capcom che, si spera, siano di livello ancora superiore tanto di far riappassionare chi ha giocato agli originali e da stregare anche le nuove generazioni di videogiocatori.

Il nuovo DLC di Resident Evel 4 Remake costruisce una storia parallela solida, divertente e, alle volte, anche sorprendente. Un ottimo lavoro che va ad accrescere il valore già alto del RE4 e che ci fa conoscere ancora meglio il carattere, le capacità e le intenzioni della bella e misteriosa Ada Wong.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, PS4, Xbox Series X/S, PC
  • Data uscita: 21/09/2023
  • Prezzo: 9,99 €

Ho provato il gioco a partire dal day one su PC grazie a un codice fornito dal publisher.

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Editoriali

Perché Mortal Kombat ha fatto la storia dei videogiochi

Finish him”! Alzi la mano chi ricorda in quale videogame si sentono queste parole pronunciate da una voce profonda e cavernosa. Tutti, vero? Già, perché nessun videogiocatore può misconoscere “Mortal Kombat”. Questo iconico picchiaduro si trasformò ben presto in un must have di qualunque amante dei videogame, a prescindere dal genere preferito.

Chi come me ha sulle spalle parecchi lustri ormai, ha ancora i brividi nel ricordare la straordinaria brutalità di MK. Basti pensare che un altro imperatore dei picchiaduro, Street Fighter II, ricevette critiche per i disegni troppo forti dei combattenti battuti alla fine di ogni round. E quei disegni non hanno scandalizzato neppure un cucciolo di unicorno.

E invece Ed Boon e John Tobias nel 1992 decisero di spezzare una volta per tutte le catene del PEGI. Con Mortal Kombat inondarono di sangue, ossa e budella tutti gli schermi del mondo. In seguito alle proteste di diverse associazioni venne poi approntata in fretta e furia una patch che eliminava il sangue. Diciamocelo, però: in realtà nessuno l’ha mai usata.

Già, perché Mortal Kombat non affronta il tema della violenza in modo morboso. Ci si tuffa a piè pari senza limitarsi, facendo il giro e diventando sublime. Va a toccare le corde più profonde dell’essere umano, lo dilania dall’interno e ne scopre le carte.

Badate bene, non ho alcun interesse a fare filosofia spicciola, tutt’altro. Ma parlare di Mortal Kombat senza introdurre il tema degli istinti umani è impossibile.

Mortal Kombat

Tutto parte da una domanda ben precisa: perché nel lontano 1992 Mortal Kombat ebbe un successo talmente abbagliante da garantirsi uno stuolo di sequel che sono culminati, 31 anni dopo, con un remake del primo capitolo?

Potremmo rispondere parlando del comparto tecnico. Le scelte stilistiche, i colori, la caratterizzazione splendida dei personaggi (per approfondire tali argomenti rimando allo splendido pezzo del collega Marco Gioletta). Ma saremmo lontani dalla verità totale.

Badate bene, MK fu un vero e proprio big bang visivo per l’epoca. Con un colpo di spugna insanguinata furono relegati in un angolo i seppur splendidi disegni di Ryu, Ken, Blanka e compagnia cantante. Al loro posto apparvero sullo schermo personaggi assai più reali. Ciò fu possibile grazie alla grafica digitalizzata e del campionamento di movimenti fatti da atleti in carne ed ossa. Il risultato fu un film di kung fu infinito nei cabinati di tutte le sale giochi del mondo.

Ma bastò questo a trasformare Mortal Kombal nel più giocato picchiaduro di tutti i tempi? Fu davvero una mera questione grafico/stilistica? La risposta è semplice: no.

Mortal Kombat, invece, rispondeva a tutti i sentimenti che i giocatori di picchiaduro provano durante un match: la voglia di uccidere l’avversario, dilaniarlo, distruggerlo, spazzarlo via. Guardate le espressioni tirate dei gamer, per cercare di capire. Ancora di più, guardate l’estrema soddisfazione che si legge nel volto di quanti, vinti 2 round su 3, azzeccano la combinazione di tasti per sferrare la Fatality. Un godimento assoluto, ancestrale, animalesco. Fino a MK, battere l’avversario significava vederlo a tappeto, ora assumeva un senso tutto nuovo, macabro, violento, potente.

In un certo senso, se vogliamo, un illustre successore di MK, Tekken, coglie il nocciolo della questione. Pur non copiandone (giustamente) lo stile, trasforma i match in una battaglia di supremazia. Nello scontro è possibile, scegliendo tempestivamente le varie combinazioni, realizzare combo talmente lunghe e potenti da impedire, di fatto, all’avversario di contrattaccare fino alla sconfitta (Qualcuno ricorda un certo King…?)

Mortal Kombat fu proprio questo, e ritengo, non a caso fu scelta una grafica il più prossima, per l’epoca, al reale. Sullo schermo dovevano esserci delle persone da uccidere, sbudellare, fare a pezzi, schiacciare e tagliuzzare alla julienne.

Da quel primo, fantastico capostipite, MK ha visto un susseguirsi inarrestabile di sequel che mai hanno abbandonato il tema centrale della violenza. Certo, successivamente sono state introdotte anche le babality (per trasformare gli avversari in neonati indifesi) e le friendship (con cui il vincitore stringe un patto di amicizia con lo sconfitto). Ma, diciamoci la verità: hanno un sapore dolce/amaro. A tal proposito ho amato alla follia, la finta friendship di Joker nel recente Mortal Kombat 11. Durante la quale il folle arcinemico di Batman apparecchia tutto per accogliere lo sconfitto per poi finirlo inaspettatamente.

Ma quindi, Mortal Kombat è solo e soltanto violenza? Assolutamente no. Vale la pena fare una sottolineatura importante per evitare che ciò che sto scrivendo possa essere tacciato di miopia e faciloneria.

Mortal Kombat è un titolo che esalta la violenza e la assurge a tema fondamentale, ma non si esaurisce lì. Mortal Kombat è, probabilmente, uno dei titoli con la trama più lunga e meglio gestita dell’intera storia videoludica. I personaggi hanno alle spalle storie complesse, mitiche, magiche e anche tragiche. Sono caratterizzati in modo minuzioso, molto di più di qualunque altro combattente che appartiene ad altre dinastie videoludiche.

Non è un caso, infatti, che Mortal Kombat abbia ben presto sfondato la parete videoludica interessando sceneggiatori e registi cinematografici. I risultati, del 1995 e del 2021 non hanno fatto gridare al miracolo, ma sono sicuramente la dimostrazione che il franchise abbia qualcosa (molto) da raccontare al di là dei combattimenti e del sangue.

In definitiva, Mortal Kombat è riuscito e riesce tutt’ora a raggiungere livelli epici sia da un punto di vista estetico (l’estetica del macabro ovviamente) che da quello della narrazione. Dalla sua nascita ha fagocitato la preferenza di quasi la totalità degli amanti di genere, lasciando agli altri una buona fetta di consensi e poco altro (Tekken e Street Fighter non sono titoli dimenticati e continuano ad avere milioni di appassionati).

La saga oggi rinasce con un remake che sta già facendo discutere e che, ci scommettiamo, continuerà a far parlare di sé per parecchio tempo. Intanto noi amanti di MK ci lasciamo trasportare dalle sue atmosfere mistiche, affascinare dai suoi personaggi fantastici e torcere le budella per la sua eccessiva e scanzonata violenza.