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Armored Core VI: rigiocare la saga dopo 25 anni

Era il lontano 1998, settembre per la precisione. Da poco diciannovenne e felice possessore della prima Playstation, uscita qualche anno prima sul mercato, mi apprestavo a festeggiare il mio compleanno, rigorosamente posticipato poiché, cadendo in agosto, gli amici erano tutti in vacanza. Nel giorno del mio compleanno bis, i miei amici si presentarono a casa con una decina di giochi per la mia amata console: tra questi, non posso dimenticare, c’era un titolo che stuzzicò da subito la mia curiosità. Si trattava di Armored Core, AC per gli amici.

Genesi

Armored Core nasceva da un’idea di Shoji Kawamori, mecha designer di storiche serie di anime (una delle più note in Italia è Capitan Harlock), oltre che dall’amore sconsiderato dei giapponesi per i robot giganti.

La saga di FromSoftware era ed è formata da simulatori di combattimento tra Mech (o Mecha), enormi robottoni guidati da un pilota che se le danno di santa ragione in scenari più o meno realistici. L’aspetto migliore del primo Armored Core era il fatto che si trattava di un titolo 3D in cui era possibile spostarsi in ogni direzione, sparare ovunque e trovarsi contro nemici che provenissero da ogni angolo, con una fluidità al tempo inimmaginabile.

La caratteristica principale della serie è sempre stata la personalizzazione del proprio mech. Il gioco metteva a disposizione una marea di potenziamenti per gambe, braccia e armi; scalabili al massimo, altamente modulari, i mech potevano essere plasmati ad uso e consumo del giocatore per affrontare le varie missioni, a patto di avere abbastanza crediti per farlo. Come ottenere crediti? È presto detto: bastava concludere le missioni e ottenevate la giusta ricompensa, dopo aver scalato ovviamente il costo dei proiettili usati e le spese di gestione.

Caratteristiche di gioco

Esplorare quei mondi e quegli scenari mi teneva incollato allo schermo per ore. Armored Core aveva una grafica poligonale in 3D che non faceva gridare al miracolo, ma considerando l’anno di uscita e la piattaforma, non si poteva chiedere di più onestamente.

Il gameplay fu considerato ottimo dalla critica e piacque molto anche a me: lo trovai molto interessante e coinvolgente. Questo mio giudizio deriva dalle ore di divertimento che trascorsi e dalla buona struttura a missioni che From Software creò. Gli scenari infatti proponevano città piene di detriti, basi lunari e ambienti desertici. La base lunare, in particolare, attirò la mia attenzione poiché la missione che ospitava era caratterizzata dalla bassa gravità. Nello specifico, nel tentativo di salvare la terra da un attacco dalla luna, il nostro mech avrebbe dovuto fare i conti con la poca gravità che influiva sui salti e sui suoi movimenti.

Un piccolo appunto negativo sul gioco era la difficoltà nel controllare il mech con il pad: i tasti da utilizzare erano troppi, a volta anche contemporaneamente. A parte questo piccolo intoppo, il primo Armored Core risultava godibile sotto tutti i punti di vista, grazie alle missioni ben congegnate, alla fluidità dei movimenti e all’arsenale a disposizione. Infine, la longevità era un altro punto forte, con quasi 50 missioni da completare. Il gioco fu pubblicato nel luglio del 97 in Giappone per poi arrivare in Europa nel giugno dell’anno successivo.

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Approccio a Fires of Rubicon

L’università, la ricerca del lavoro e tante altre vicissitudini – naturali nella crescita di ogni individuo – mi hanno portato ad allontanarmi dal mondo videoludico (ma sono rientrato alla grande negli ultimi anni). Dopo 25 anni, in una calda giornata di fine agosto, mi imbatto in Armored Core VI Fires of Rubicon. Dopo una rapida ricerca mi rendo conto di essermi perso ben quindici capitoli (spin off inclusi), ma i ricordi suscitati dal gioco sono più forti del tempo perso. Così lo ordino senza troppo pensarci.

Il giorno dopo, al day one, Armored Core VI è nelle mie mani. Emozionato inserisco il gioco nella mia Xbox Serie X, ed eccomi di nuovo ai comandi di un mech, dopo tanto, tanto tempo. Quello che non avevo messo in conto è che si ha a che fare con From Software (Dark Souls, Elden Ring): la difficoltà di gioco è elevatissima e non “settabile”; inoltre, gli sviluppatori sono noti per gettare letteralmente il videogiocatore nel mezzo del gioco senza alcun preambolo. Complice la mia età avanzata e i riflessi non più pronti come una volta, mi sono ritrovato ad impiegare due giorni per sconfiggere il boss alla fine del tutorial, maledetta From Software!

Addentrandosi più nel gioco, comprendo che la struttura portante del gameplay è immutata, ma ovviamente abbiamo una storia che fa da contorno alle battaglie.

Caratteristiche narrative e tecniche

Sul pianeta Rubicon 3 è stata trovata una nuova fonte di energia che le varie corporazioni tentano con ogni mezzo di accaparrarsi. Il giocatore interpreta un mercenario che, combattendo ora per una ora per l’altra di queste fazioni, cambierà il destino della guerra e del pianeta. Niente di trascendentale o innovativo dunque. Forse però è proprio questa la forza di Fires of Rubicon.

Giocarci è sempre e maledettamente divertente. Le mappe sono credibili e varie, forse eccessivamente post apocalittiche, ma è la storia che lo impone. Peccato non aver implementato una specie di open world. Infatti, gli scenari sono delimitati da una banda rossa laterale che il mech non può oltrepassare. Una scelta che sicuramente limita la strategia di combattimento.

Voci confermate dicono che avremo ben tre finali diversi, quindi sarà obbligatorio effettuare almeno tre distinte run e fare scelte diverse per completare pienamente il gioco. Le missioni hanno alti e bassi, alcune sono troppo facili altre ai limiti dell’impossibile, con boss finali veramente duri a morire. Fortunatamente ci viene in soccorso la modularità dei mech e il loro collaudo, che è possibile effettuare prima di iniziare ogni battaglia. In questo modo è possibile rendersi conto della efficacia della configurazione adottata.

I combattimenti, infine, sono davvero spettacolari, con un arsenale molto vario da utilizzare che rende piacevole sparare missili di vario genere nei denti degli avversari!

Conclusioni

Armored Core VI è il videogioco che From Software avrebbe voluto sin dall’inizio, ma che i limiti tecnici della tecnologia a disposizione impedivano di creare a suo tempo. Fires of Rubicon è un titolo maturo con bellissimi modelli poligonali dei robot, un ambiente vivo e dinamico, una IA non eccelsa ma percepibile, una storia convincente e una personalizzazione del robot ancora maggiore.

La longevità è di circa 25 ore: si snoda tra 5 capitoli, 41 missioni e la possibilità di scegliere tra finali alternativi. Il gameplay di Armored Core VI – rispetto al primissimo del 97 – mantiene inalterato il divertimento introducendo, grazie a mappe ben strutturate, un’importante componente strategica che costringe il videogiocatore a sfruttare le caratteristiche ambientali per cercare di sorprendere i nemici e procurarsi un vantaggio su di loro.

In definitiva, Armored Core VI è un gran gioco, sia che siate fan della serie sia se non abbiate mai pilotato un mech prima d’ora. L’opera di From Software merita la vostra attenzione, poiché la soddisfazione ed il divertimento che può dare non è inferiore a qualsiasi soulslike di Hidetaka Miyazaki.

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Giocare a Starfield senza alcuna aspettativa, un’esperienza da 10 e lode

Io, su Starfield, non avevo aspettative, nel senso che non lo attendevo proprio. Forse per distrazione sono rimasto fuori da tutto quel susseguirsi di news e rumors che, come succede da anni, ogni titolo Bethesda si porta dietro in attesa del lancio ufficiale, generando quel mix di hype per un nuovo gioco che si sa, avrà tantissimo da offrire, e di critiche preventive da parte di chi si aspetta una marea di bug che probabilmente rimarranno irrisolti nei secoli.

Ecco, io da tutto questo ne sono rimasto fuori, oltretutto involontariamente, finché navigando nel negozio di Steam mi è arrivata la notifica (tardiva): “Ehi, è uscito Starfield, compralo”. Quel poco che avevo sentito a riguardo era estremamente negativo (e per alcune cose, a ragion veduta, ma ne parliamo tra un po’), eppure ho deciso di comprare lo stesso il gioco. Il risultato? L’ho trovato strabiliante.

Ora, di cose che non vanno ce ne stanno parecchie. Dalla grafica distante anni luce dagli standard odierni alla gestione dell’inventario rimasta immutata nel corso dei diversi Elder Scrolls e Fallout, caotica e poco intuitiva, così come accade per il quest tracker che accorpa tutto lasciando giusto la possibilità di raggruppare le missioni per tipologia o fazione (ma con oltre mille pianeti, non era forse il caso di aggiungere un organizer per località?).

Queste, in sintesi, sono le principali cose che non vanno, di cui probabilmente si è discusso ovunque e di cui ha parlato anche qualche Nostradamus prima di poter mettere le mani sul gioco. Eppure, come dicevo, sto trovando Starfield un gioco eccezionale. Mi sono chiesto perché, e questa volta il mio incarnare l’autentico spirito della contraddizione non c’entra nulla: Starfield mi piace come pochi altri giochi perché puoi fare una miriade di cose e io da questo titolo non mi aspettavo proprio nulla.

L’ultimo lancio di Bethesda prosegue a modo suo la piccola rivoluzione avviata da Baldur’s Gate 3: si tratta di un gioco completo, senza microtransazioni o dlc (al netto di future possibili espansioni, ovviamente) e una libertà di movimento infinita. Mi sono ritrovato subito a vivere le stesse vibes che mi hanno regalato i diversi Fallout, di cui ho un bellissimo ricordo e mi sono trovato bene nonostante l’assenza V.A.T.S. (ossia della mira assistita introdotta nel terzo capitolo, poi utilizzata anche in New Vegas, Fallout 4 e Fallout 76), essenziale per chi non è proprio un campione negli sparatutto.

La cosa che più mi piace in questo gioco sono le quest. Sono tantissime, così tante da mettere all’angolo un maniaco del completismo come me. Infatti, se Baldur’s Gate 3 (ormai metro di paragone di ogni titolo videludico) mi ha stordito per la vastità delle mappe, tanto da infastidirmi perché sapevo che mi sarei perso qualcosa, lo stesso non è successo con Starfield: i pianeti, gli avamposti e gli npc sono così tanti che mi sono felicemente arreso all’idea di non poter materialmente esplorare tutto in una sola run (e neanche in due, tre, forse dieci).  

Poi c’è la bella novità della personalizzazione della navicella spaziale: se ne può avere una o un’intera flotta e per ognuna di queste si può modificare ogni singolo pezzo. A questo si aggiunge la possibilità di costruire avamposti negli oltre 1.000 pianeti dislocati nei 100 sistemi solari della mappa. Insomma, una figata pazzesca.

Certo, non è tutto oro quello che luccica: c’è più di qualche elemento che ha fatto storcere la bocca anche ad un outsider come me. La cosa che più mi da fastidio è la gestione dei dialoghi: avviando una conversazione, l’inquadratura passa ad un primo piano dell’npc di riferimento, il quale non si muoverà più di tanto dalla posizione originale. Per farla breve, se avete interagito con un personaggio che era di spalle, è capace che questo vi parlerà senza guardarvi in faccia, che non è il massimo.

Stessa cosa vale per le interazioni dei seguaci, i quali ogni tanto proveranno ad inserirsi nei discorsi avviati dal personaggio con i vari npc, ma il 90% delle volte sono commenti a sé stanti e che non provocano alcuna reazione. Insomma, è come quando l’amico poco simpatico si mette in mezzo e fa una battuta che nessuno capisce e quindi tutti stanno in silenzio facendo finta di nulla. Il gelo.

Male anche la realizzazione degli npc privi di interazioni che popolano il mondo: sembra che sia stato fatto copia e incolla su una decina di modelli e che le varie città siano abitate da un’infinità di fratelli gemelli, oltretutto vestiti uguali. Su questo bisogna chiudere un occhio o si rischia di spegnere il pc o la console.

Pecche inaccettabili da un gioco così tanto atteso, ma se non ci si aspetta nulla non è un problema passarci sopra. Anche la tanto citata “ripetitività” dei pianeti è stata criticata forse ingiustamente: non è vero che gli ambienti sono tutti uguali. Anche le lune, prive di vegetazione e fauna, presentano differenze tra loro (e ho girato già parecchi sistemi). Sulla presenza di insediamenti nemici estranei a quest (ossia i mini dungeons) è vero, vige ancora la ricetta Bethesda che abbiamo tutti quanti sperimentato per anni sia negli Elder Scrolls che nei Fallout: si trova la base nemica dove ci sono pirati spaziali, contrabbandieri o un’invasione di insettoidi alieni, la si ripulisce e si torna a casa con il bottino generato casualmente. E che male c’è, soprattutto vista l’enorme mole di quest che ci si trova a dover affrontare, già alle prime ore di gioco?

In conclusione, Starfield è un titolo da consigliare assolutamente a tutti gli amanti del genere che hanno voglia di esplorare, di immergersi in un viaggio planetario in cui le scelte contano, in cui l’azione frenetica si alterna con meritati momenti di pausa ad esplorare pianeti nascosti o a modificare e migliorare la propria nave, oppure a riposarsi nel proprio rifugio costruito con tanto sudore.

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Immortals of Aveum – Recensione

L’uscita di Immortals of Aveum, verso la fine di agosto, è indubbiamente passata un po’ in sordina. Il gioco, infatti, non ha goduto di una campagna pubblicitaria particolarmente efficace. Inoltre l’essere uscito in concomitanza con giochi davvero di primo piano, come Baldur’s Gate 3 (di cui abbiamo già parlato sul blog) non ha certamente giovato alla causa di Immortals of Aveum.

Tuttavia, fin dalle prime immagini mostrate, lo sparatutto targato Ascendant Studios e Electronics Arts è riuscito a catturare la nostra attenzione. Questo soprattutto in virtù della sua natura ibrida, a metà strada tra uno sparatutto ed un’avventura.

In questa recensione passeremo al microscopio Immortals per mettere in mostra pregi e difetti di questo particolarissimo titolo. Recuperiamo il nostro equipaggiamento magico e lanciamoci all’esplorazione del mondo di Aveum!

Nelle terre di Aveum

Immortals of Aveum: magia rossa

Come facilmente intuibile dal titolo, Immortals è ambientato nel mondo magico di Aveum. Quest’ultimo è formato da cinque regni distinti, con al centro un’enorme voragine magica chiamata Lo Squarcio. Da millenni i cinque regni sono falcidiati da un conflitto per il controllo della magia, denominata Sempiguerra, che ha di fatto ridotto le forze in gioco ai soli regni di Lucium e Rasharn.

Protagonista assoluto di Immortals of Aveum è Jak, giovane abitante della periferia di Seren, nell’enorme città di Lucium. In seguito all’uccisione dei suoi cari a causa di un attacco del regno di Rasharn, ora guidato dal tiranno Sandrakk, Jak scoprirà di essere un Advenuto, ovvero un essere umano in cui si manifestano poteri magici. Questo porterà il nostro protagonista a venire arruolato dalla Gran Magus Kirkan, leader degli Immortali, l’esercito magico protettore di Lucium. Inizia così la missione di Jak per risolvere una volta per tutte i conflitti che devastano Aveum e comprendere fino in fondo i suoi poteri.

La trama di Immortals, pur non brillando per originalità, si presenta interessante e abbastanza coinvolgente. il mondo di Aveum è ben caratterizzato e ricco di dettagli e i personaggi che incontriamo godono quasi sempre di una buona caratterizzazione. Mi limito a citare Zendara, una delle comandanti degli immortali, davvero carismatica e a tratti spassosa con le sue battute.

La trama di Immortals ci terrà compagnia per circa 13 ore, che potranno essere almeno raddoppiate qualora il giocatore decidesse di dedicarsi a tutte le prove secondarie e all’esplorazione di ogni area di Aveum. Non si tratta di una longevità particolarmente elevata, ma l’abbiamo trovata adeguata ad un titolo di questo tipo.

Uno sparatutto avventuroso

Immortals of Aveum: magia blu

L’aspetto di Immortals of Aveum che maggiormente colpisce è costituito proprio dal suo gameplay. Il titolo di Ascendant infatti si presenta come un mix piuttosto ben riuscito tra un FPS ed una classica avventura action. Il gioco si svolge in prima persona ed ha il suo fulcro, oltre che nell’esplorazione, nei numerosi combattimenti che affronteremo. Naturalmente, nel corso di queste battaglie, non abbiamo a disposizione armi da fuoco o da lancio, ma tutta una serie di artefatti magici, coi quali scatenare una serie di devastanti attacchi contro i malcapitati nemici.

Tuttavia, in Immortals rivestono un ruolo molto importante anche l’esplorazione dell’ambiente e gli enigmi. Per progredire nell’avventura, infatti, occorre guardarsi sempre attorno con attenzione, dal momento che spesso e volentieri la chiave per aprire la strada consiste nell’interagire con l’ambiente utilizzando uno degli incantesimi a nostra disposizione. Per esempio, alcuni degli elementi dell’ambientazione possono essere modificati dalla magia verde, mentre alcuni trabocchetti vengono rallentati dalle nostre fide ampolle temporali.

A differenza della miriade di sparatutto presenti sul mercato, Immortals of Aveum è completamente dedicato single player (ad oggi è completamente assente una modalità multiplayer nel gioco), proprio per valorizzare al massimo la sua doppia natura di shooter e avventura.

Tre colori per domarli tutti

Immortals of Aveum: magia verde

Nel mondo di Aveum, la magia si manifesta attraverso tre colori principali. Il rosso, che rappresenta entropia e violenza, il blu, che incarna forza e manipolazione fisica della materia ed infine il verde, legato a crescita morte e transizione. Jak durante la trama, scopre di essere un Triarca Magnus, ovvero un mago in grado di utilizzare la magia di tutti e tre i colori.

Attraverso il bracciale di Jak, il giocatore ha la possibilità di passare da un colore all’altro con la semplice pressione del tasto triangolo. Ognuno dei tre colori si adatta meglio ad una determinata situazione; nello specifico: il rosso è pensato per il combattimento ravvicinato, il blu per la distanza e il verde per il fuoco ripetuto. Sebbene spesso i nemici presentino debolezze specifiche per un colore, il giocatore ha la possibilità di privilegiare l’uno o l’altro in base al suo stile di gioco.

Gli scontri in Immortals sono davvero frenetici e spettacolari e ricordano molto le dinamiche dei cari vecchi sparatutto arena. Il giocatore deve restare sempre in movimento, fare attenzione a dove si trova e contemporaneamente gestire al meglio le sue risorse offensive per riuscire ad aver ragione della miriade di avversari che si trova via via ad affrontare.

Il tutto risulta davvero piacevole e divertente e gli scontri raramente diventano troppo punitivi e frustranti. Unica nota un po’ stonata sono le boss battle, un po’ troppo sempliciotte e ripetitive.

Incantesimi per tutte le occasioni

Oltre agli incantesimi di attacco, Jak dispone anche di varie abilità magiche di supporto. Queste abilità sono davvero molte e hanno un’ottima varietà di effetti. Abbiamo anzitutto a disposizione quattro artefatti magici, il primo dei quali è una frusta magica, utile sia per attirare i nemici che per arpionare alcuni specifici punti dello scenario. Abbiamo poi uno scudo di energia, capace di proteggerci da un numero limitato di attacchi nemici, una sorta di lente magica, utile per paralizzare alcuni nemici e soprattutto risolvere alcuni enigmi a base di raggi luminosi ed infine le pietre verdi, capaci di rallentare nemici e trappole.

Jak apprenderà inoltre una serie di abilità automatiche, tra cui la possibilità di levitare per brevi tratti, di appendersi ai flussi magici che attraversano Aveum e di generare un potentissimo raggio in grado di convogliare l’energia di tutti e tre i colori. Le varie abilità possono essere potenziate tramite una sorta di diagramma, che andrà a riempirsi attraverso una serie di pietre magiche. Queste pietre vengono raccolte da Jak dopo ogni battaglia.

In Immortals non esistono punti esperienza e level up. Il potenziamento di Jak avviene unicamente attraverso il suo equipaggiamento. Oltre ai tre bracciali, che possono essere creati e potenziati attraverso una serie di fucine, il nostro protagonista potrà essere equipaggiato anche con diversi anelli e potenziamenti magici. Ognuno di questi oggetti andrà a migliorare un diverso parametro di Jak.

Quindi, pur senza mostrare la profondità e ricchezza di uno strategico o di un gioco di ruolo, Immortals of Aveum presenta anche alcuni elementi tipici di un gestionale, che rendono l’esperienza più varia ed interessante.

Una festa per gli occhi

L’aspetto di Immortals of Aveum che maggiormente colpisce è senza dubbio il comparto grafico. L’Unreal Engine 5 fa davvero un ottimo lavoro e regala al giocatore ambientazioni davvero meravigliose, ben caratterizzate e ricche di particolari.

Anche i personaggi ed i nemici risultano ottimamente realizzati e dotati di un set di animazioni davvero fluide e credibili. Il gioco mostra il meglio di se durante i filmati di intermezzo, che su PS5 sfoggiano una risoluzione davvero altissima, anche se abbiamo notato un evidente calo di frame in alcune sequenze più brevi. Piuttosto anonima invece la colonna sonora, che presenta una serie di tracce non troppo ispirate ed anche un tantino ripetitive.

Conclusione

Immortals of Aveum si è rivelato davvero una gradevole sorpresa. Intendiamoci, non si tratta certamente di un capolavoro, ma il comparto grafico di primo piano, l’immediatezza dei controlli e la particolare natura del suo gameplay rendono lo sparatutto di Ascendant Studios un’esperienza davvero divertente e coinvolgente.

Unico vero difetto di Immortals è la sua longevità un po’ limitata, che tuttavia non va a intaccareil divertimento offerto da questa particolare avventura.

Consigliato sia agli amanti degli FPS che a tutti coloro che cercano un avventura immediata e non troppo lunga.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, Xbox Series S/X, PC
  • Data uscita: 22/08/2023
  • Prezzo: 79,99 €

Ho provato il gioco a partire dal day one su PlayStation 5 grazie a un codice fornito dal publisher.

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Editoriali

Bethesda: i migliori videogiochi di Todd Howard

Così come i libri, i film, le serie TV e tutte le altre forme d’arte, anche il mondo dei videogiochi è fatto da artisti: professionisti che con il proprio ingegno creano opere che saranno ricordate nella storia. Uno di questi, classe 1970, è Todd Andrew Howard, attualmente executive producer di Bethesda Game Studios.

Howard da quasi trent’anni crea videogiochi che hanno formato generazioni di gamer e cambiato il concetto stesso di videogame. Fino ad oggi, la sua carriera è stata monolotica: ha mosso i primi passi nel 1994 proprio presso Bethesda Softworks scalando tutta la catena di comando fino a diventare, nel 2001, il capo dello studio interno della compagnia.

Ritengo che valga la pena raccontare la sua vita lavorativa e penso che raccontare le sue opere migliori sia il modo migliore per farlo.

The Terminator: Future Shock

Videogiochi di Todd Howard: The Terminatore Future Shock

Howard inizia la sua avventura in Bethesda Softworks come videogame producer – figura che si occupa di visionare il lavoro svolto da tutti gli sviluppatori – con The Terminator: Future Shock, first-person shooter uscito nel 1995 su PC.

Future Shock è ricordato come uno dei primi veri giochi con un mondo realmente a tre dimensioni e nemici poligonali. Nello specifico, la prima opera di Howard accompagnava a un’ottima grafica anche un comparto sonoro incalzante e un mondo di gioco di elevata qualità, ma òa più grande rivoluzione fu nel gameplay: The Terminator Future Shock è uno primissimi FPS in cui ci si spostava con la tastiera e ci si guardava intorno con il mouse.

Le migliori riviste del settore lo hanno recensito con voti decisamente alti (Gamespot: 84; PC Gamer UK: 92%).

The Elder Scrolls II: Daggerfall

Videogiochi di Todd Howard: Daggerfall

Nell’eterna lotta per il titolo di miglior Elder Scroll tra Morrowind e Skyrim, c’è ancora qualche veterano che aggiunge questo outsider, che per Todd Howard sarà l’ultima esperienza come producer.

Daggerfall ebbe un enorme successo sin dal 1996, anno di rilascio, sia in termini di vendite che di critica. Oggi è facile pensare la serie di Elder Scrolls come la massima espressione di libertà in un gioco di ruolo, ma fu proprio il secondo capitolo della serie che permise di ottenere questa etichetta grazie alla possibilità di viaggiare tra due province composte da 15.000 tra città, villagi e dungeon (libertà mai superata).

The Elder Scrolls II: Daggerfall vendette per anni: dalla sua uscita fino al 2000, Bethesda ha dichiarato che Daggerfall abbia venduto oltre 700.000 copie.

The Elder Scrolls IV: Oblivion

Videogiochi di Todd Howard: Oblivion

Tra Morrowind e Skyrim vi è una gemma del 2006 che è stata (parzialmente) dimenticata nonostante abbia una delle caratteristiche più rare in assoluto: un’intelligenza arficiale fantastica.

Oblivion ebbe voti altissimi da parte della critica, ma paga lo scotto di essere stato poco memorabile. La community videoludica ha sempre dato più peso alle troppe similarità con Morrowind e troppa poca importanza a Radiant AI, l’intelligenza artificiale usata successivamente anche su Skyrim e Fallout 3.

Personalmente ritengo Oblivion un’opera fondamentale: avvincente, ricco e pieno di libertà, ma anche punto di partenza per opere ancora più ambiziose come Fallout 3 e Skyrim.

The Elder Scrolls III: Morrowind

Nel 2002, Todd Howard diventa project leader del nuovo capitolo di Elder Scrolls, uno dei più amati di sempre soprattutto se si pensa che per molti aspetti vi fu un passo indietro rispetto al suo predecessore.

Morrowind è sempre stato definito come un gioco imperfetto: Daggerfall ha maggiori aree da visitare; il sistema di combattimento è peggiore di altri videogame dell’epoca (per esempio: Star Wars Jedi Knight II: Jedi Outcast). Nonostante questo però nessun videogioco dell’epoca è stato in grado di fornire un’atmosfera così intensa, unita a una libertà così elevata da rendere quasi superflua la quest principale.

In Morrowind puoi fare qualunque cosa e quindi anche vivere in un mondo fantastico senza fare assolutamente nulla, nemmeno portare avanti la trama principale se lo desideri.

Fallout 3

Nel 2008, dieci anni dopo il secondo capitolo e quattro anni dopo che Bethesda ottenesse i diritti della serie, Fallout 3 vede la luce e Todd Howard diventa per la prima volta game director di un’opera videoludica.

Il terzo capitolo di Fallout è totalmente diverso dai suoi predecessori, ma ha saputo evolvere la saga verso la giusta direzione trasformando un gioco di ruolo isometrico in un open world in cui funziona bene sia la parte FPS che quella da Action RPG.

The Elder Scrolls V: Skyrim

Uno dei motivi per cui Starfield è così atteso prende il nome di Skyrim. Del resto, ci sono videogiochi che definiscono un anno e videogame che definisco decadi. The Elder Scrolls V: Skyrim ha rivoluzionato il concetto di open world e di senso di libertà all’interno di un gioco di ruolo.

Personalmente trovo i bug molto snervanti perché rovinano il senso di immersione, ma ho comunque passato centinaia di ore su quella che ritengo l’opera magna di Todd Howard e Bethesda Game Studios. Ci sarebbe molto altro da dire? Sì, ma stiamo parlando di un’opera così importante che non saprei da dove iniziare.

E Starfield?

Videogiochi di Todd Howard: Starfield

Non ho ricevuto una copia anticipata del gioco per poter collocare Starfield all’interno di questa classifica, ma sono molto fiducioso che questo articolo possa essere presto aggiornato anche con l’open world sci-fi di Bethesda. Fino ad ora, Starfield ha avuto il pregio di far dimenticare quel trailer del 2018 di The Elder Scrolls VI, ma sono certo che le sue ambizioni siano di gran lunga maggiori.

L’ambientazione spaziale è sempre stata ben rappresentata nei videogiochi, soprattutto dal genere horror (Alien Isolation, Dead Space, Soma, Scorn tra i più recenti) ma anche tra i cult (Star Wars ha tantissimi giochi validi). Qualcuno si è spinto anche nel campo dei giochi di ruolo (The Outer World) ma nessuno ha mai avuto l’ambizione di creare qualcosa di veramente enorme come l’universo: Starfield potrebbe essere tutto questo e mi auguro che possa anche essere la consacrazione definitiva di Todd Howard come geniale autore di videogiochi.

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Lies of P: provato del promettente soulslike ispirato a Pinocchio

La demo di Lies of P ci regala uno sguardo affascinante su un avvincente soulslike in arrivo quest’anno. Rilasciato a seguito dell’ultima conferenza Xbox, il gioco sembra prendere ispirazione dai capolavori di From Software e Hidetaka Miyazaki. In quest’analisi esploreremo i punti salienti della demo, analizzandone grafica, gameplay e le reminiscenze dei giochi “souls-like”.

L’uscita del gioco, dopo un primo rinvio, è prevista per il 19 settembre 2023. Lies of P uscirà su tutte le piattaforme, ma arriverà al day one su Xbox game pass.

Life of P: presentazione

Come si presenta alla vista

Sul fronte grafico, l’ultima fatica di Round 8 Studio delizia lo sguardo con texture curate e modelli poligonali tutto sommato dettagliati. Tuttavia, vale la pena notare che i nemici sembrano rifarsi in modo eccessivo all’immaginario burattinesco di Pinocchio. Questo porta a perdere un po’ di originalità, poichè i nostri avversari sono troppo spesso legati ad un’estetica sì mostruosa, ma sempre di natura antropomorfa. È importante sottolineare che si tratta ancora di una demo. Dunque è possibile che, nella versione definitiva, i nemici risultino essere più variegati e originali.

Le animazioni sembrano essere uno degli elementi più critici dell’esperienza. Sebbene esse svolgano bene il loro compito nell’immortalare l’azione, mancano della leggibilità che caratterizza i giochi di Hidetaka Miyazaki. I colpi dei nemici tendono ad andare a segno ora troppo presto, ora troppo tardi, mancando dell’ ottima prevedibilità che contraddistingue gli scontri delle esperienze From Software. Questo penalizza l’intero combat system, che in questo modo, si lega più al riconoscere gli attacchi in arrivo piuttosto che all’abilità del saperli leggere.

Anche le ombre, che dovrebbero essere dinamiche, spesso interagiscono in modo goffo con l’ambiente, compromettendo in parte l’esperienza. Dal punto di vista tecnico, bisogna applaudire l’efficacia del DLSS, che sembra migliorare le performance anche su hardware meno potenti.

Pad alla mano

Il gameplay di “Lies of P” attinge con intelligenza da meccaniche consolidate dei giochi “souls-like. Le statistiche potenziabili richiamano le esperienze puramente souls e sono Vitalità, Vigore, Forza Motrice, Tecnica e Sviluppo. Questi parametri consentono una buona personalizzazione del proprio personaggio, che al primo sguardo sembra possedere un’alta “build variety“.

La scelta della classe include le vie del Grillo (equilibrio), del Bastardo (destrezza) e dello Spazzino (forza). Questa scelta offre diverse opzioni di gioco, senza però costringere il giocatore verso un percorso predefinito già dalle prime battute. Scegliere una qualsiasi di queste classi, infatti, non preclude il livellamento di statistiche agli antipodi rispetto alla classe di origine.

Gli amanti dei souls si sentiranno come a casa: il combat system ricorda molto da vicino quanto già visto nelle scorse esperienze di casa From Software, in particolare in Bloodborne. I nemici, sebbene ostici, non sembrano impossibili da battere, anche se la già discussa imprevedibilità delle animazioni costringe ad un combattimento più legato alla pura memoria, ovvero al sapere riconoscere quale colpo stia per sopraggiungere, piuttosto che alla capacità di reazione del videogiocatore.

Il sistema di cure di lies of P è equivalente a quello tipico dei soulslike, con le “celle” che si ricaricano dopo ogni morte, o dopo esserci riposati ad uno “stargazer” (letteralmente osservatori di stelle), che qui svolgono la medesima funzione dei falò. Tuttavia, Lies of P offre un’aggiunta interessante: una volta esaurite le celle, sarà possibile recuperarne una danneggiando i nemici.

Tra i vari elementi carpiti al genere, Lies of p decide (consapevolmente, ma non colpevolmente) di assorbirne anche alcuni degli aspetti negativi (o quantomeno più controversi). Tra essi l’assoluta la mancanza della possibilità di mettere in pausa o il comando di salto, che è disponibile solo a seguito di una corsa e comunque capace di raggiungere solo le superficie più prossime.

Reminiscenze dei souls

Proprio a proposito degli elementi comuni alle creazioni partorite dalla mente di Hidetaka Miyazaki, Lies of P eredita molte delle caratteristiche distintive dei giochi dell’artista. Tra essi un level design meticoloso e ricco di strade secondarie da esplorare, nemici pericolosi da affrontare e segreti da scoprire. Frequenti anche le classiche porte con l’ormai iconico messaggio: “non si apre da questo lato“, che suggeriscono un ambiente di gioco ricco di shortcuts che collegano le singole aree.

Anche il piazzamento degli stargazer è interessante. Essi infatti sono disseminati in maniera davvero intelligente e trovarne uno risulta davvero appagante. Uno volta raggiunto lo stargazer l’utente vive la consapevolezza di un ambiente sicuro in cui dare frutto degli sforzi finora compiuti, spendendo l’esperienza in livelli, o viaggiando rapidamente all’hub centrale: l’hotel.

Il gioco abbraccia uno stile di combattimento frenetico e violento, fortemente ispirato a quanto visto in “Bloodborne“. Proprio come in quest’ultimo titolo, infatti, è possibile curarsi attaccando l’avversario. Questo crea un combat system che premia iniziativa ed aggressività, nel quale è fondamentale non concedere respiro ai nostri avversari. Tuttavia, la cura è possibile solo qualora il danno subito sia stato ridotto dalla parata, comando non presente nel capolavoro del 2015. Questo aggiunge un altro strato di complessità che potrebbe intrigare qualcuno.

Anche se la meccanica del parry è presente, è importante sottolineare che questa richiede un po’ più di impegno rispetto ad altri titoli. Anche il “danno-premio” finale raramente appaga appieno l’impegno profuso. Molto discutibile risulta la vibrazione del controller, che trema dall’inizio alla fine dell’animazione in maniera decisamente troppo violenta, conferendo una spiacevole sensazione al tatto.

Conclusioni

Lies of P si presenta come un’avventura promettente che attinge con sagacia dall’eredità dei giochi “souls-like”. Nonostante alcuni aspetti da rifinire, come la poca originalità nel design dei nemici e le animazioni, che potrebbero essere più fluide, la demo offre un’esperienza coinvolgente e intrigante.

Notevole anche la durata della demo stessa, che delizia il palato degli utenti con circa due ore di gameplay, sintomo della consapevolezza del team sull’ottimo lavoro svolto finora.

L’ambientazione e la trama misteriosa catturano l’attenzione, mentre il gameplay solido e le scelte strategiche che si presentano al giocatore rendono “Lies of P” una promettente aggiunta al genere soulslike.

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Diablo 4 – Recensione: dall’inferno all’infinito

Per alcuni sono passati undici anni; per molti altri ben ventitré. La serie Diablo è finalmente tornata con il suo nuovo, moderno e – a tratti controverso – capitolo. Sono tra quelli che non sono mai stati pienamente soddisfatti da Diablo 3 e so che Blizzard è cosciente che esistono videogiocatori come me. Anche per questo motivo la casa di Irvine è tornata all’origine del male con un’opera cruda, violenta e moderna. Scopriamo insieme, in questa recensione di Diablo 4, se Blizzard Entertainment sia riuscita a tornare ai vecchi fasti riesumando il peccato originale, e anche se stessa, da un recente passato poco memorabile.

La figlia dell’odio

Ho iniziato la mia avventura su Diablo 4 nei panni di un nuovo viandante perso tra le desolate lande di Vette Frantumate, una fredda area in cui faccio subito conoscenza del bene e del male che dovrò affrontare nel corso dei sei atti che compongono la campagna principale. Le due facce della stessa medaglia prendono la forma di un lupo nero, l’horadrim Lorath e i petali di sangue di Lilith.

Così come Link è l’eroe prescelto che continuamente si risveglia in The Legend of Zelda, il Viandante di Diablo è una figura senza passato che diventa eroe di un mondo in eterna lotta: Sanctuarium. In Diablo 4, Blizzard ha aggiunto diversi particolari che rendono il videogiocatore maggiormente legato all’intera trama rispetto al passato. Uno su tutti: i petali di sangue, che sono stati casualmente – o così sembra – ingeriti dal nostro alter ego diventandone il legame tra me e la Figlia dell’Odio.

Il titolo di Lilith nasce da suo padre, Mephisto, Signore dell’Odio e uno dei tre Primi Maligni dell’universo di gioco insieme a Baal e lo stesso Diablo. Ma non solo: Lilith è anche la creatrice di Sanctuarium, che ormai libera dalla sue catene vuole tornare a regnare nel proprio mondo. Come di consueto per la saga, questa volontà ha generato nuovi scontri con le forze angeliche capitanate da Inarius, ma anche con gli altri maligni che temono il potere della nuova pretendente al trono. Non voglio essere causa di spoiler e quindi arriverò subito al punto: la trama di Diablo 4 è una piacevole scala di grigi, ricca di intrecci e personaggi che risaltano per la propria costruzione. Blizzard ha fatto un ottimo lavoro sui principali amici, gli horadrim, e i principali nemici, ma anche il tempo dedicato ai personaggi secondari è più che adeguato.

La campagna principale di Diablo 4 mi ha portato per mano alla ricerca di Lilith ed Elias, il vassalo della Figlia dell’Odio. Seguendo i petali di sangue, ho incontrato – in un mondo di gioco enorme – angeli e demoni in una trama che ritengo la migliore dell’intera serie.

Recensione Diablo 4: Lilith

Un mondo in eterna lotta

Sanctuarium è un mondo ricco di attività, poiché pieno di sofferenza, malvagità e figure ambigue, in entrambe le fazioni. In Diablo 4, questo concetto viene mostrato e dimostrato passo dopo passo: per esempio, tutti i maligni hanno antipatie tra i loro ranghi e simpatie tra gli umani. Le logiche di Lilith non sono banalmente spietate, ma hanno quasi un senso di ragionevolezza che mi hanno fatto chiedere se fosse veramente lei il male che devo combattere. E dopo la fine della campagna principale, una vera risposta non l’ho ancora trovata, poiché Diablo 4 termina con un cliffhanger tutto da completare, stagione dopo stagione.

Nello specifico, ho portato a termine la campagna principale di Diablo 4 nel giro di una decina di ore. Un tempo leggermente superiore a quello necessario per completare gli atti di Diablo II – di cui abbiamo recensito la nuova edizione Resurrected – e Diablo III. Ma come avete già intuito, Lilith è solo un pretesto per vagare all’interno di una mappa – divisa in cinque regioni – ricca di nemici e grinding. Per lo scopo, gli sviluppatori hanno deciso di applicare l’auto leveling: tutte le creature di Sanctuarium hanno sempre il nostro stesso livello, con qualche eccezione per alcune attività endgame come le Spedizioni principali e le Fortezze.

Gameplay

Naturalismo ai massimi livelli

Sanctuarium è un’enorme opera di Caravaggio in cui l’oscurità è data da sfondi neri su cui un barlume di luce spicca al fine di concentrare lo sguardo del videogiocatore verso i volti scarnificati e sofferenti delle persone e dei mostri che popolano questa landa disperata. Lo stile artistico di Diablo 4 mi ha riportato indietro ai primi due capitoli; in particolare a quell’opera magna che conosciamo con il nome di Diablo II, con l’importante differenza che i cinematic e la qualità generale sono strettamente contemporanee: il disagio dei villaggi è reale, palpabile. Affrontare una quest secondaria è quasi un dovere perché si può percepire una vera necessità tanto nell’ambientazione quanto nelle parole grazie a una scrittura e a un doppiaggio di ottima fattura.

La maggior parte delle creature che popolano Sanctuarium provengono da un bestiario consolidato da 27 anni di storia, ma non sono comunque tantissime e alla lunga gli incontri risultano ripetitivi. D’altro canto, tutti i nemici sono posizionati in modo coerente tra le cinque regioni, seguendo la storia dei luoghi e le caratteristiche ambientali – per esempio, gli scorpioni giganti e i predatori si trovano nelle zone desertiche mentre serpenti e relativi adepti tra le paludi. Ogni avversario ha inoltre le proprie caratteristiche con peculiarità crescenti in base al suo livello di importanza. I mostri comuni hanno il loro pattern, gli elité possiedono i consueti tratti caratteristici, mentre i boss hanno dei modi unici di attaccare: per batterli è necessario leggere i loro movimenti guardando le hit box che compaiono subito primo dell’attacco.

Recensione Diablo 4: Boss Fight

Endgame

Diablo 4 mi ha fornito diversi motivi per vagare nel mondo di gioco: il vero divertimento inizia una volta terminata la storia principale. Diablo è farming, gli hack and slash sono un genere in cui bisogna giocare ancora e ancora fino a trovare quell’oggetto che porta il personaggio a un altro livello, che in realtà è solo un nuovo punto di partenza per nuove build e nuovo grinding. Così, una volta terminata la campagna principale, il gioco ci sblocca la prima Spedizione Principale, un dungeon più lungo del solito che una volta completato ci permette di cambiare il Livello del Mondo.

Inizialmente si può scegliere tra due livelli, Avventuriero e Veterano: ho scelto il secondo e più difficile. Una volta completata la prima Spedizione Principale ho sbloccato il livello Incubo, che si consiglia di giocare dal livello 50, anche se è possibile affrontare la spedizione quando si vuole, esattamente come è possibile fare con i successivi: Inferno e Tormento.

Ogni Livello del Mondo ci mette contro sfide maggiori, ma anche ricompense maggiori. L’endgame è costituito sempre dalla solita struttura: uccidi, raccogli gli oggetti e potenzia il viandante. Ci sono diversi mondi per ripetere la sequenza: i dungeon, le quest secondarie e gli eventi a tempo.

Città

I dungeon si dividono in Cantine, cioè mini-dungeon e i Dungeon veri e propri. Su quest’ultimi vale la pena soffermarci un attimo perché ho notato una rilevante sbavatura: il level design è eccessivamente banale. In praticamente tutte le mappe dei dungeon, ho visto lo stesso pattern: scegli se andare a nord (o sud) oppure a est (oppure ovest); a un certo punto le due strade si uniscono, e dando uno sguardo veloce alla mappa, si capisce subito da che parte proseguire senza essere costretti a percorrere zone “morte”.

Le quest secondarie sono invece uno dei principali motivi – se non il primo – per cui si parla di Diablo 4 come di un MMORPG alla stregua di World of Warcraft. L’ultima fatica di Blizzard è ricca di missioni secondarie volte a ripulire il male da Sanctuarium in perfetto stile “videogioco online”: liberare un’area da aberrazioni; raccogliere oggetti droppati dai mostri; scortare qualcuno; portare a termine un dungeon vicino a un villaggio e molto altro che ho già visto nel multiplayer online dedicato a Warcraft e non solo.

Nonostante il senso di déjà-vu, le quest secondarie di Diablo 4 si distinguono per la profondità con cui vengono presentate: anche ripulire una zona è raccontata come un’esigenza dei personaggi non giocanti. Una coerenza che ho apprezzato e che è in linea con lo stile della saga, come si evince dai Tetri Favori, quest perpetua che ci rende, di fatto, un cacciatore di taglie.

Completano infine il quadro gli eventi a tempo, attività simili a quelle già citate, ma concentrate ciclicamente in determinate zone della mappa per un determinato periodo temporale: Maree Infernali, Fortezze, Boss mondiali e tutto quello che serve per sentirsi parte di una comunità con cui ho potuto parzialmente interagire durante questa recensione di Diablo 4 grazie all’always online, che non mi ha mai fatto sentire solo (nonostante non abbia dedicato ancora abbastanza tempo alla modalità PvP), tranne quando volevo esserlo all’interno di un dungeon o una spedizione.

Recensione Diablo 4: Maree Infernali

Il viandante

Sono cinque le classi attualmente disponibili su Diablo 4: Barbaro, Druido, Incantatrice, Negromante e Tagliagole. La mia scelta è ricaduta sul negromante, buildato come un tank grazie alle abilità di Sangue affiancato da un Golem a menare come un fabbro. Probabilmente la mia velocità di esecuzione è stata minore rispetto ad altre build, ma le volte in cui sono morto durante i primi 50 livelli si possono contare sulle dita di una mano.

Cambiare build è abbastanza veloce ed economico, ma è un po’ seccante dover rivalutare ogni singolo oggetto dell’inventario per farla rendere al meglio. Come tutti i Diablo, l’equipaggiamento fa la differenza a causa degli effetti speciali dei singoli oggetti sulle abilità di classe; di conseguenza, sopratutto durante l’endgame in cui i dettagli fanno la differenza, il videogiocatore è obbligato a riprogrammare la propria build in base ai loot che trova, soprattutto se questi sono core per quelle più in voga (anche perché spostare gli effetti da un oggetto all’altro è un crafting abbastanza costoso).

Le abilità invece possono essere gestite agevolmente dal relativo albero. Così come nel terzo capitolo, in Diablo 4 bisogna concentrarsi su quattro abilità specifiche. Lo skill tree funziona esattamente seguendo questo ragionamento: l’ideale è massimizzare le abilità attive che vogliamo usare e poi investire tutto sulle passive; infatti, dal livello 50 in poi, il viandante accede al Tabellone d’Eccellenza in cui può limare le caratteristiche del personaggio verso la build che preferisce, con una certa dose di pazienza ed eccesso di zelo.

Inventario

In aggiunta a quanto detto fino ad ora, il gameplay di Diablo 4 si basa su una matematica minuziosa. Ogni statistica è stata valutata con estrema cura, anche se Blizzard dovrà dedicare ancora tanto tempo al bilanciamento delle classi, e probabilmente non riuscirà comunque nell’impresa data la natura degli hack’n’slash. In aggiunta, le nuove meccaniche e i nuovi parametri sono tutto fuorché banali: per esempio, il Colpo Fortunato non è un semplice critico, mentre Sopraffazione – meccanica basata sul subire pochi danni – permette di giocare diversamente rispetto ad altri videogiocatori che preferiscono buttarsi nella mischia.

Aggiornamento perpetuo

Diablo 4 può essere giocato in solitaria, ma rimane un live service. Non è solo una questione di always online, già presente in Diablo 3: ci sono tante feature che mi hanno continuamente ricordato che stavo visitando un mondo vivo. Girovagando per l’open world Blizzard in sella al mio cavallo, sono spesso finito dentro un evento a tempo nel quale partecipavano altri giocatori; quando ho deciso di evitarli, magari per dedicarmi a una quest secondaria, il mio viandante è finito col ritrovarsi in una zona martoriata da altri personaggi amici che mi hanno aiutato a portare a termine una missione che potevo tranquillamente completare da solo. E quando proprio volevo nascondermi finendo nei meandri di Sanctuarium, sono incappato in un Altare di Lilith che ha attivato un bonus +2 alle statistiche non solo del mio viandante, ma anche di tutti i personaggi che ho creato (live service per l’appunto).

Recensione Diablo 4: Giudizio

Diablo 4 su Xbox Series X

Il lungo lavoro per portare Diablo 3 su console è servito. Diablo 4 sull’ammiraglia Xbox ha dei comandi pressoché ottimi. Ho giocato tutti i videogiochi della saga su PC e Diablo 4 non mi ha fatto sentire minimamente la mancanza di mouse e tastiera, nemmeno durante la navigazione dei menù, solitamente la parte più tediosa da gestire con un controller, anche se qualche lieve sbavutura nel muoversi all’interno dell’inventario è presente.

Per quanto concerne la parte tecnica, il comparto audio è da oscar al miglior sonoro: giocare Diablo 4 senza volume è altamente sconsigliato: musiche, doppiaggio e suoni ambientali sono assolutamente imprescindibili. L’immersione è totale.

D’altro canto, nonostante abbia molto apprezzato il lato artistico, la grafica di Diablo 4 su Xbox Series X non è ai livelli delle produzioni next-gen. Questo non mina assolutamente la bontà del gioco, ma le limitazioni che gli sviluppatori hanno dovuto imporre a causa del cross-gen si vedono largamente.

Conclusione

Sì, Diablo 4 ha una fortissima contaminazione da MMO, con diverse ispirazioni prese direttamente da World of Warcraft. La parte positiva è che queste caratteristiche si mescolano benissimo con l’intera saga, del resto Diablo 2 è stato uno dei videogiochi più giocati online nei primi anni duemila.

La scelta di rendere Diablo 4 un live service è azzeccata perché rende l’ultima fatica di Blizzard coerente con il suo passato e assolutamente al passo con i tempi. Nonostante le influenze esterne, Diablo 4 è il miglior hack and slash in circolazione mentre le Stagioni già annunciate ci diranno se sarà il migliore di tutti i tempi.

Un’ottima notizia per i fan di nicchia, un po’ meno per tutti gli altri: gli hack’n’slash sono videogiochi pensati per un numero esiguo di persone che hanno voglia e tempo per grindare. Diablo 4 è l’eccellenza del genere: artisticamente meraviglioso nella sua crudezza e violenza e tecnicamente al passo con l’Anno Domini 2023.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, Xbox Series S|X, PC, PS4, Xbox One
  • Data uscita: 06/06/2023
  • Prezzo: 79,99 €

Ho provato il gioco a partire dal day one su Xbox Series X grazie a un codice fornito dal publisher.

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Editoriali

Perché Tomb Raider ha fatto la storia dei videogiochi

Se si guarda all’attualità del mondo dei videogiochi, il nome di Lara Croft non figura certamente tra quelli dei personaggi più popolari. La stessa saga di Tomb Raider, nonostante la buona qualità degli ultimi episodi usciti, non è certamente tra le IP più “forti” e rilevanti del momento. Tuttavia, tutti coloro che, come il sottoscritto, hanno vissuto la fine degli ormai mitici anni novanta, ricorderanno che la bella archeologa era diventata uno dei volti più famosi e riconoscibili dell’intera industria del videogioco.

Pubblicità, apparizioni su numerose riviste, merchandising, serie a fumetti, cartoni animati e persino varie apparizioni durante i concerti degli U2 del PopMart Tour del 97. Il nome di Lara sembrava davvero sulla bocca di tutti e non era esagerato definire la bella eroina una vera e propria icona pop. Questo successo, oltre che al carisma e al fascino di Lara, fu senz’altro dovuto all’incredibile qualità del gioco di cui l’archeologa era protagonista. Il primo Tomb Raider, infatti, fu un titolo davvero sorprendente, sia per la sua altissima qualità che per le innovazioni che seppe portare nel panorama dei giochi di avventura.

In questo articolo andremo a riscoprire questa piccola gemma e cercheremo di spiegare perché il primo Tomb Raider è stato tanto amato, come abbia saputo lasciare ricordi così indelebili nei cuori di numerosi giocatori, compreso il sottoscritto, e perché ha fatto la storia dei videogiochi. Recuperiamo le nostre pistole e lanciamoci alla riscoperta di questo classico!

Un fulmine a ciel sereno

Al momento della sua uscita ben pochi avrebbero potuto prevedere il successo di Tomb Raider

Quando Tomb Raider uscì, tra il 1996 e il 1997, lo fece in punta di piedi. Il gioco, sviluppato dalla veterana Core Design e prodotto da Eidos per Saturn, Playstation e PC, non fu infatti accompagnato da una campagna pubblicitaria particolarmente forte. Tuttavia, non appena i giocatori misero le mani su Tomb Raider, compresero subito di essere di fronte a qualcosa di davvero speciale.

Tomb Raider ricevette un’accoglienza estremamente positiva da parte delle riviste del settore, cosa che rese il gioco estremamente popolare tra gli appassionati. Anche le vendite iniziarono ben presto a lievitare, al punto che l’avventura di Lara divenne uno dei giochi più venduti in assoluto per la prima Playstation.

La strada per il successo

Tomb Raider propose un mix di elementi vincenti che decretarono il suo successo

Le ragioni del successo di Tomb Raider furono molteplici. Anzitutto, il setting e le ambientazioni. La trama del gioco vede l’avventuriera e archeologa Lara Croft venire assoldata dall’infida Natla per rintracciare lo Scion, un misterioso artefatto dalle origini ignote. La ricerca dello Scion porterà Lara a visitare antiche rovine sudamericane, un tempio sotterraneo di ispirazione greco-romana, l’antico Egitto e una misteriosa piramide, legata all’antica Atlantide.

Il gioco si sviluppa attraverso quindici immensi livelli, ambientati all’interno delle macro-aree nominate in precedenza. La trama viene sviluppata attraverso una serie di filmati, che si sbloccano all’inizio o al termine di determinati livelli.

Pur senza far gridare al miracolo, la storia di Tomb Raider era interessante e coinvolgente, soprattutto grazie all’incredibile carisma di Lara, che seppe subito conquistare i cuori dei videogiocatori.

Il gioco inoltre seppe subito catturare l’attenzione dei giocatori grazie al suo comparto grafico. Certo, ai giorni nostri la grafica di Tomb Raider appare molto datata e “cubettosa”. Negli anni in cui il gioco uscì, tuttavia, le ambientazioni completamente tridimensionali e le eccellenti animazioni fecero letteralmente gridare al miracolo.

Una vera avventura tridimensionale

I livelli di Tomb Raider rappresentano il principale punto di forza del gioco

Il più grande punto di forza di Tomb Raider, tuttavia, si rivelò essere la natura stessa del gioco. Intendiamoci, non stiamo certamente parlando della prima avventura 3D ad uscire sul mercato (basti citare giochi come Alone in the Dark o Myst, usciti ben prima di Tomb Raider). Ma nessun gioco fino a quel momento aveva saputo creare quella sensazione di assoluta libertà di movimento che l’avventura di Lara sapeva regalare.

Fin dal primo livello di gioco, il giocatore non avvertiva mai la sensazione di trovarsi su un binario, ma veniva letteralmente immerso in un enorme e realistico ambiente tridimensionale. Stava a lui e alle sue capacità di orientamento e osservazione trovare la soluzione per raggiungere l’uscita del livello.

Altro punto di forza del gioco era il gran numero di azioni a disposizione di Lara. La nostra archeologa infatti era in grado di camminare, correre, saltare in ogni direzione (sia da ferma che in corsa), spostarsi lateralmente e persino nuotare in profondità. Oltre a questo, naturalmente, Lara poteva utilizzare le sue fide pistole, alle quali si sarebbero affiancate altre tre armi.

Nel corso dei livelli, infatti, Lara era chiamata ad affrontare un gran numero di combattimenti. Si trattava principalmente di animali feroci, ma non sarebbero mancate le sorprese (qualcuno ha detto dinosauri?). Durante gli scontri Lara puntava automaticamente i nemici nelle vicinanze, in modo che il giocatore potesse concentrarsi solo sul movimento e le schivate. Le munizioni delle pistole di Lara non si esauriscono mai, mentre le armi aggiuntive andranno ricaricate tramite apposite munizioni sparse per i livelli.

Questa scelta, apparentemente molto semplicistica, rendeva gli scontri estremamente dinamici e divertenti, evitando un sistema di combattimento troppo complesso e macchinoso.

Livelli per tutti i gusti

Ogni livello di Tomb Raider proponeva sfide davvero varie ed originali
Ogni livello di Tomb Raider proponeva sfide davvero varie ed originali

L’altro aspetto che sancì il successo di Tomb Raider fu sicuramente la struttura dei livelli. Questi ultimi, con pochissime eccezioni, erano infatti stati pensati e progettati alla perfezione. Attraverso l’uso di blocchi da scalare, gallerie, porte segrete e passaggi acquatici, gli stage di Tomb Raider si sviluppano in ogni direzione, sia in altezza che in profondità.

Quasi mai il giocatore doveva affrontare un percorso lineare, ma si trovava all’interno di enormi ambienti aperti, che andavano visitati in ogni angolo per poter essere superati. Questo rendeva l’esplorazione davvero varia, coinvolgente e divertente.

Oltre a questo, i livelli erano estremamente diversificati tra loro. Le ambientazioni di ognuno di essi, infatti, risultavano quasi sempre molto differenti l’una dall’altra, riuscendo a risultare ogni volta fresche ed interessanti.

Il brivido della scoperta

Alcuni momenti dei livelli di Tomb Raider sono divenuti davvero iconici
Alcuni momenti dei livelli di Tomb Raider sono divenuti davvero iconici

Per rendere le cose ancora più interessanti, ogni livello, per essere superato, proponeva una sfida particolare. In St. Francis Folly, per esempio, Lara ad un certo punto raggiungeva un’enorme stanza con un pilastro centrale. Nelle varie estremità dello stanzone erano posizionati quattro templi, dedicati ad altrettante divinità antiche. Per superare il livello occorreva esplorare tutti i templi, superare le prove al loro interno e raccogliere quattro chiavi nascoste all’interno del tempio.

Nelle miniere di Natla, invece, Lara iniziava il livello priva delle sue armi. L’obiettivo primario del giocatore era rintracciare tre fusibili sparsi per la miniera che davano a Lara l’accesso ad una stanza in cui erano custodite le sue fide pistole.

Questa varietà di situazioni, unita ai numerosi combattimenti, rese Tomb Raider un’esperienza di gioco davvero ricchissima, in grado di accontentare sia i fan dei giochi di azioni che gli amanti degli enigmi e dell’esplorazione ragionata.

Come ciliegina sulla torta, i livelli di Tomb Raider proponevano spesso momenti davvero forti ed iconici, in grado di lasciare i giocatori a bocca aperta o di farli letteralmente saltare dalla sedia.

Senza dare troppi spoiler a chi non ha mai giocato a questo gioco, mi limito a citare il raggiungimento dell’enorme sfinge nel santuario dello Scion o la scoperta della mano del re Mida, ma potrei fare davvero decine di altri esempi.

L’eredità di Tomb Raider

Il numero dei sequel di Tomb Raider è davvero impressionante
Il numero dei sequel di Tomb Raider è davvero impressionante

Visto il successo ottenuto, era inevitabile che le avventure di Lara proseguissero. Eidos tuttavia fece la scelta di spremere la sua gallina dalle uova d’oro oltre l’inverosimile. Tra il 1997 e il 2001 uscirono addirittura quattro nuovi Tomb Raider, tutti su Playstation e PC.

Sebbene la qualità di questi titoli fosse generalmente molto buona (Tomb Raider 2 in particolare venne molto ben accolto), questi giochi risultarono davvero troppo simili tra loro e aggiunsero davvero troppo poco alla formula vincente del primo gioco. Questo causò, a lungo andare, un certo disinteresse per la saga.

Dopo il terribile Angel of Darkness, del 2003, Eidos realizzò due nuove trilogie dedicate a Tomb Raider. La prima fu inaugurata da Tomb Raider: Legend del 2006 e terminò nel 2008 con Tomb Raider: Underworld. Nel 2013 uscì Tomb Raider, vero e proprio reboot della saga, che ebbe a sua volta due sequels, Rise of the Tomb Raider e Shadow of the Tomb Raider. Per il 2023 è prevista l’uscita di un nuovo capitolo della serie, su cui sembra che Crystal Dynamics e Amazon stiano puntando davvero forte.

Finora però tutti questi seguiti, pur ottenendo sempre buoni risultati in termini di vendite e ricevendo vari apprezzamenti dal pubblico, non sono stati in grado di replicare l’incredibile successo dell’avventura originale. Chissà, probabilmente Tomb Raider è stato l’equivalente di una cometa, un fenomeno tanto bello ed emozionante da vedere quanto difficile da replicare. Quello che è certo, però, è il fatto che la prima avventura di Lara ha regalato ore ed ore di divertimento a migliaia di giocatori, che ancora oggi la ricordano con piacere e nostalgia. Ed è stato un piacere anche per il sottoscritto condividere con tutti voi i ricordi e le emozioni che Tomb Raider ha saputo regalarmi. Alla prossima avventura!

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Star Wars Jedi: Survivor – Recensione

Recensione in BREVE

Star Wars Jedi: Survivor può considerarsi una versione aggiornata e migliorata del suo predecessore. Le meccaniche souls-like non stancano, come non stancano i meravigliosi scorci e ambientazioni creati dagli abili artisti di Respawn Entertainment. Salvo difetti di ottimizzazione, questo titolo risulta godibile e intrattenente. Consigliato a tutti gli appassionati dell’universo di Star Wars, persino a coloro che non hanno giocato il primo capitolo.

8.5


Star Wars Jedi: Survivor si presenta come successore di Star Wars Jedi: Fallen Order, calcando la mano sulle caratteristiche che hanno reso il capitolo precedente un ottimo gioco. Ma si sa, talvolta mettere un “2” alla fine del titolo non basta ad accertarne la qualità. Essendo quindi in una posizione così rischiosa, Star Wars Jedi: Survivor sarà riuscito ad alzare l’asticella della qualità? Andiamo a scoprirlo.

La forza non è nella trama

In questo secondo capitolo vestiamo nuovamente i panni di Cal Kestis – uno dei pochi jedi a essere sopravvissuto all’Epurazione – il quale continua strenuamente la sua lotta contro l’Impero, con la speranza di rifondare il perduto Ordine Jedi.

Sono passati 5 anni dagli eventi di Star Wars Jedi: Fallen Order e le strade dei nostri protagonisti si sono divise. Cal Kestis, durante tutto questo tempo, è diventato un vero e proprio Cavaliere Jedi. Di lavoro in lavoro, aiutato dal suo fido droide BD-1, Cal cerca nuovi modi per sfidare e abbattere il famigerato Impero Galattico; nel fare ciò, Cal risveglia un antico jedi del tempo delle guerre dei cloni, il quale potrebbe non essere troppo grato della nostra gentilezza.

Nuove esperienze e nuovo look! Questo nuovo Cal ci piace davvero molto, un vero e proprio miglioramento estetico rispetto al passato.

Nel corso della nostra avventura, oltre a incontrare personaggi creati appositamente per il gioco – come per esempio Bode Akuna, mercenario che formerà un legame speciale con il nostro protagonista – ritroviamo anche volti noti della serie. Scopriremo cosa è successo a Greeze Dritus, ex-pilota della Mantis, vedremo come si evolverà il rapporto tra Cal e Merrin, la quale potrà essere utilizzata come compagna in combattimento, e incontreremo Cere Junda, nostra mentore durante il primo gioco.

In generale la trama è solida, ma alquanto lineare e tremendamente simile a quella del primo capitolo. Probabilmente gli appassionati ameranno perdersi nella galassia, incontrando facce nuove e vecchie, unendo i puntini temporali delle vicende dell’universo di Star Wars. Ma per chi è estraneo a tutto ciò, potrebbe risultare faticoso legarsi a una narrazione così poco avvincente, preferendo concentrarsi unicamente sul gameplay.

More of the same

Chi ha giocato il primo capitolo si troverà subito a casa. La maggior parte delle abilità acquisite in precedenza sono infatti disponibili sin da subito e il combattimento non sarà affatto dissimile dal precedente titolo. Sono ancora presenti gli elementi Souls-like e Metroidvania che hanno caratterizzato la saga (anche se forse sarebbe meglio dire Sekiro-like, visto che condivide molte più similarità con quest’ultimo che con un Souls).

Persino le interfacce sono state migliorate, rese più accessibili e intuitive.

Ma allora cosa cambia? Questa domanda potrebbero farla in molti, stizziti del fatto che non sia cambiato nulla a livello di gameplay. Ed effettivamente la formula principale rimane la stessa: esplorazione, combattimento e caccia ai collezionabili; tutto sembra prendere a piene mani da un modus operandi già visto e rivisto. Star Wars Jedi: Survivor è quindi un more of the same?

Pur non cambiando il nucleo principale della serie, Star Wars Jedi: Survivor implementa moltissimi cambiamenti e miglioramenti all’intera struttura di gioco. Molte meccaniche fastidiose sono state velocizzate o reinventate. Sono state aggiunte diverse nuove modalità di movimento, come per esempio il rampino o lo scatto aereo. Per non parlare delle miriadi di nuove personalizzazioni disponibili. Un’evoluzione insomma, di ciò che già funzionava. In definitiva, sì, Star Wars Jedi: Survivor è un more of the same.

Esplorazione: meravigliosa e faticosa

Le mappe di Star Wars Jedi: Survivor sono davvero gigantesche e talvolta questo non è un bene. In questo caso invece, la grandezza delle mappe non sarà affatto un problema. Ogni luogo pullula di flora e fauna, insenature nascoste, luoghi inaccessibili e collezionabili segreti. Per non parlare dei meravigliosi paesaggi che non ci stancheremo mai di guardare a bocca aperta.

I mondi esplorabili sono cinque e ognuno di loro ha un suo differente ecosistema: un mondo desertico; una stazione spaziale segreta; una luna infranta. Questi sono solo alcune delle meravigliose ambientazioni che potremmo esplorare. Tutto ciò anche grazie all’implementazione di un richiestissimo viaggio rapido, che renderà il viaggio decisamente più piacevole.

Non si può non lodare il lavoro di tutti gli artisti che hanno lavorato a questo titolo.

Purtroppo, anche se ogni location ha caratteristiche diverse, la sensazione è che in fondo sono estremamente simili tra loro. Sia chiaro: le ambientazioni sono molte, basti solo pensare alla palude di Koboh, al deserto rosso di Jedha o alle luci al neon di Coruscant, ma sembrano tutte mischiarsi in una grigia macchia di colore desaturato. Probabilmente questa scelta è stata fatta per incentivare il realismo, ma tale decisione rende sicuramente più difficile far imprimere questi stupendi scenari nella memoria a lungo termine dei videogiocatori.

Come se non bastasse, la nostra voglia di esplorare sarà presto recisa dalla componente Metroidvania, la quale limiterà molto i luoghi esplorabili, almeno a inizio gioco. E anche quando otterremo le abilità richieste, sarà comunque difficile ricordarsi i luoghi lasciati indietro, perché le mappe sono talmente intricate da risultare quasi dispersive. La mini-mappa 3D proverà a venirci incontro, ma non sempre è facile orientarsi.

L’affascinante Lato Oscuro

I nemici sono il cuore pulsante di Star Wars Jedi: Survivor e fortunatamente il loro numero è aumentato rispetto a Fallen Order: sono infatti tre le fazioni principali con cui andiamo a scontrarci. Partiamo con delle facce già viste: l’Impero. I nemici con la testa a secchio sono leggermente aumentati in numero: tra le loro fila troviamo i classici Storm Trooper, ma anche i temibili Purge Trooper e i micidiali droidi da combattimento. Il loro pattern di combattimento è molto semplice e sono tra gli avversari più prevedibili per chi ha già giocato il primo capitolo.

La novità risiede nei Predoni del Caos. La loro peculiarità è l’utilizzo di droidi della vecchia repubblica per combattere; di conseguenza, fanno la loro comparsa Droideka, Droidi da Battaglia B-1 e B-2, Droni Sentinella, e persino Droidi Separatisti da Battaglia. Un piacevole tuffo nel passato per tutti gli appassionati, anche se il loro sistema di combattimento non è troppo dissimile da quello imperiale, rendendoli quasi mere skin alternative.

Far dialogare i nemici tra di loro è una scelta molto apprezzata: rendono il mondo più vivo e regalano quel tocco di umanità in più.

Ovviamente, abbiamo anche la fauna galattica. Creature da ogni pianeta che non esiteranno ad attaccarci a prima vista. Ognuna di loro ci obbliga a differenziare il nostro approccio rispetto ai nemici umanoidi. Anche qui però non troveremo troppa varietà nel gameplay, potendo riassumere il tutto in un para e attacca. Fortunatamente non tutti gli animali ci vorranno fare la pelle, anzi alcuni potremo anche cavalcarli grazie al nuovo sistema di cavalcatura, che ci permette di viaggiare in groppa ad alcune creature così da muoverci più velocemente negli estesi spazi aperti.

Infine, fanno il loro ritorno i mercenari. Nemici speciali che potremo rintracciare nei vari mondi di gioco e sconfiggere per intascare la loro taglia. Completare una taglia ci ricompensa con crediti speciali che possiamo scambiare per nuovi pezzi di arma e abilità uniche per il blaster. Il combat system dei mercenari è sicuramente il più caratteristico della norma: mercenari focalizzati sull’uso dei blaster o magari rintanati dietro a un fastidiosissimo scudo ci hanno messo alla prova.

Souls-like o quasi

Parlando del combattimento non si può fare a meno di trovare somiglianze con i titoli From Software: sono infatti molte le meccaniche prese in prestito da quest’ultimi. Star Wars Jedi: Survivor riesce però ad essere unico nel suo stile e non può essere accusato di plagio o pigrizia, poiché ci regala un sistema di combattimento semplice e soddisfacente, anche se non privo di difetti. Purtroppo, bisogna far notare che gli input non risultano molto reattivi. Non è raro venir colpiti in combattimento per colpa di un tasto premuto, ma non registrato.

In questo secondo capitolo il sistema di combattimento è stato aggiornato con nuove abilità e stili disponibili; nello specifico sono tre i nuovi stili di combattimento implementati: doppia spada, blaster, e guardia incrociata. Gli stili non sono altro che le modalità d’uso della nostra spada laser: cambiarli nel bel mezzo del combattimento sarà fondamentale per adattarsi a ogni tipo di situazione.

Lo stile doppia spada non è in realtà così nuovo: era già presente nel capitolo precedente, ma ora gode di uno stile e di un albero delle abilità tutto suo. Stile poco difensivo, incentrato sull’aggressività, utile per i duelli in solitaria, dotato persino di un sistema di parry. Lo stile blaster, invece, è uno dei migliori, poiché ci permette di utilizzare in coppia sia la spada laser che appunto un blaster che si ricaricherà a ogni fendente della nostra lama. Stile elegante ed equilibrato, incentrato sul combattimento a distanza. Infine, lo stile guardia incrociata, il quale avvera il sogno di molti fan della saga. Permette infatti di aggiungere una guardia laser all’impugnatura, proprio come quella di Kylo Ren nella nuova trilogia. Tale modifica aumenta il danno dei colpi, a discapito della loro velocità. Adatta ai duelli, ma difficile da maneggiare. Praticamente la modalità berserk di Cal.

Saper scegliere lo stile giusto al momento giusto è la chiave per vincere ogni scontro. Per esempio, potremmo decidere di equipaggiare uno stile aggressivo, avendo la meglio su bersagli singoli, ma potremmo trovare difficoltà con gruppi di nemici o avversari volanti. Il tutto si riassume in un sistema equilibrato, che si adatta allo stile favorito dal giocatore. Peccato non si possano equipaggiare più di due stili di combattimento alla volta, tale decisione avrebbe giovato la libertà di gameplay e sarebbe stato più divertente sperimentare.

Gameplay a parte, i combattimenti sono un vero piacere per gli occhi.

Alti Livelli di Personalizzazione

Se non saremo impegnati ad eliminare nemici, staremo probabilmente andando a caccia di collezionabili. È inutile farlo? No, infatti racimolare oggetti opzionali ci ricompensa con maggiori informazioni sulle creature e sul luogo intorno a noi, ma non solo. Il comparto di personalizzazione si è veramente allargato, dando massiccia libertà di azione a tutti gli appassionati.

Se nel precedente titolo potevamo solo cambiare i colori del poncho, in Star Wars Jedi: Survivor avremo la possibilità di modificare completamente il look del nostro Cal.

Menzione d’onore va anche alla personalizzazione delle armi in nostro possesso, avanti anni luce rispetto al suo predecessore. In questo modo l’esplorazione è incentivata, poiché le modifiche alla spada laser (e non solo) sono sparse dappertutto. È però un gran peccato che nessuna di queste modifiche influenzi il combattimento, rimanendo stanziata al mero lato estetico.

Tecnicamente accettabile

Sono tristemente note le gravi problematiche di ottimizzazione per PC e Xbox, problematiche che potrebbero impattare negativamente molti giocatori. Star Wars Jedi: Survivor permette a inizio gioco di scegliere tra due modalità: “prestazioni” e “qualità“. Quindi, in un certo senso, avevano già previsto che il titolo non sarebbe stato alla portata di tutti. Ma un lancio del genere è a dir poco imbarazzante.

Su Playstation 5 – la versione da noi provata – invece la situazione cambia: il numero di cali di frame è di gran lunga minore. Sono presenti dei momenti di indecisione ma nulla che rovini l’esperienza di gioco in modo significativo. Al momento della recensione sono già state messe in atto patch risolutive che ammorbidiscono il problema, speriamo in una totale equità delle console in un futuro prossimo.

Modelli, texture, illuminazione… non c’è da stupirsi che l’esperienza di gioco venga intaccata.

Conclusione

Star Wars Jedi: Survivor prende tutto quello che era presente nel capitolo precedente e lo migliora nettamente, talvolta a discapito della fluidità e dell’ottimizzazione. Il titolo non presenta ammirabili innovazioni, ma potrebbe comunque essere una buonissima esperienza per qualsiasi appassionato del genere.

Gli sforzi degli artisti si sentono parecchio: soltanto il loro lavoro vale il costo del biglietto. Se si fossero concentrati anche sul lato tecnico e di game design probabilmente il titolo avrebbe raggiunto vette altissime. Riponiamo grande speranza nel prossimo capitolo (perché ci sarà un terzo capitolo… vero?).

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: Action, Adventure
  • Lingua: Italiano
  • Multiplayer: No
  • Prezzo79,99€
  • Piattaforme: Playstation 5, Xbox X/S, PC
  • Versione provata: Playstation 5

Abbiamo viaggiato la galassia sconfiggendo feccia imperiale per circa 16 ore grazie a un codice fornito dal publisher

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Editoriali

God of War: origine e ascesa dell’epopea di Kratos

Spoiler Alert
Questo articolo contiene dettagli rilevanti sulla trama di God of War

Quella di God of War è indubbiamente una delle saghe videoludiche più importanti e di successo dell’intera industria del videogioco. Fin dall’uscita del primo episodio sulla ormai leggendaria Playstation 2, le avventure di Kratos hanno saputo conquistare l’interesse e l’apprezzamento di un enorme numero di giocatori. Basti pensare che l’episodio più recente, God of War Ragnarok, è riuscito in breve tempo a raggiungere la ragguardevole cifra di ben 11 milioni di copie vendute.

In questo articolo andremo a ripercorrere le tappe fondamentali della saga di GoW, cercando di mettere in luce le principali ragioni del successo del franchise.

Le origini di God of War

Il primo God of War venne subito riconosciuto come uno dei migliori giochi d’azione in 3d disponibili.

Il primo God of War vide la luce nel 2005 in esclusiva per Playstation 2. Si trattava del secondo gioco prodotto da Santa Monica Studio. Nonostante la poca esperienza della software house, il gioco si rivelò un enorme successo di pubblico e critica.

Il motivo principale di questo apprezzamento fu un mix vincente di numerosi elementi. Anzitutto la realizzazione tecnica, davvero di ottimo livello per i tempi e la console su cui girava. Anche il gameplay propose una combinazione vincente tra azione, combattimenti, esplorazione ed enigmi. GoW attingeva a piene mani da titoli come Devil May Cry e Prince of Persia, riuscendo a mettere insieme il meglio da ognuno di essi.

Infine, furono molto apprezzati sia l’ambientazione del titolo, collocata nella Grecia mitologica, sia la scelta del protagonista. Kratos, il tenebroso personaggio principale, è infatti ben lungi dallo stereotipo dell’eroe senza macchia e senza paura. Si tratta invece di una sorta di anti-eroe tormentato, violento e mosso solo da un disperato desiderio di redenzione.

Una redenzione che sembra arrivare al termine del gioco, quando, dopo essersi liberato dal giogo di Ares, Kratos riesce ad uccidere la malvagia divinità e si sostituisce a lui come nuovo dio della guerra. Come scopriremo, però, questa redenzione sarà solo apparente.

Un sequel all’altezza

God of War 2 riuscì addirittura a superare il successo del primo titolo.

Se il successo del primo GoW fu per molti una sorpresa, ancor più sorprendenti furono i risultati ottenuti da God of War II. Uscito nel 2007, sempre su Playstation 2, il seguito delle avventure di Kratos riuscì nel difficile compito di migliorare praticamente ogni aspetto del gioco originale.

God of War 2 spinse le capacità di Playstation 2 fino al limite regalando una grafica, un sonoro e un set di animazioni mai viste prima, che raggiungevano il culmine della spettacolarità nelle incredibili battaglie coi boss. Anche il gameplay risultò potenziato: i controlli erano più fluidi e precisi; i combattimenti godevano di un maggior equilibri; le sezioni erano più esplorative e riflessive.

La trama risultava molto più interessante e ricca di colpi di scena, mettendo in scena il sorprendente tradimento degli dei dell’Olimpo ai danni di Kratos. Il successivo percorso di vendetta del nostro spartano lo porta prima a scoprire le verità nascoste sulle sue origini fino a un epico scontro contro lo Zeus.

Tutti questi elementi resero GoW 2 un successo enorme, sia di critica che di pubblico, con milioni di copie vendute, voti altissimi e numerosi premi e riconoscimenti nel settore. I programmatori, tuttavia compirono la scelta ardita di interrompere il gioco con un gigantesco cliffhanger, lasciando il giocatore proprio un attimo prima dell’inizio dell’assalto finale di Kratos e dei titani all’Olimpo.

Una lunga attesa

La scelta di Santa Monica fu ancora più difficile da digerire dai fan a causa della lunga attesa che dovettero sopportare prima di potersi godere il proseguo delle avventure del loro spartano preferito; infatti, il terzo episodio della saga uscì direttamente su Playstation 3 per sfruttare le maggiori potenzialità offerte dalla macchina e allo stesso tempo regalare alla nuova console Sony una potenziale killer application.

Betrayal: un God of War alternativo

Betrayal fu un gioco mobile di ottima qualità.

Per addolcire l’attesa ai fan, Sony nel 2007 realizzò un simpatico spin off di GoW dedicato alle piattaforme mobile, intitolato God of War: Betrayal. Ambientato poco prima dell’inizio di God of War 2, Betrayal narra una serie di eventi che portano Kratos a commettere il suo secondo deicidio dopo quello di Ares.

Betrayal, nonostante le enormi limitazioni tecniche, cerca di riproporre in salsa 2d lo stesso mix di combattimenti ed enigmi presente nei due titoli della saga principale. L’esperimento ha dato vita ad un titolo simpatico e divertente, in grado di regalare ai fan di Kratos un nuovo tassello del mosaico di GoW

Il primo God of War per PSP

La prima avventura di Kratos per PSP si rivelò all’altezza del suo nome.

Nel marzo 2008 fu la volta di God of War: Chain of Olympus, primo God of War uscito su PSP. Ambientato poco prima degli eventi dell’originale, CoO narra il viaggio di Kratos nel profondo degli inferi, nel tentativo di sventare un perfido piano ordito dalla dea Persefone e dal Titano Atlante per gettare il mondo nel caos e vendicarsi degli dei dell’Olimpo.

La trama del gioco offre varie occasioni per approfondire il passato di Kratos e comprendere ancora di più il suo legame con la moglie e la figlia, da lui uccise involontariamente a causa di un inganno di Ares. Dal punto di vista tecnico, CoO fu un vero e proprio miracolo: il gameplay e la fluidità tanto del comparto grafico che di quello sonoro risultavano indistinguibili dai capitoli per PS2. La cura nella realizzazione del gioco e l’ottima trama resero CoO l’ennesimo successo del brand e regalarono ai fan un’altra grandiosa avventura.

Ciò che i fan volevano davvero però era solo e soltanto God of War 3 e nel marzo 2010 i loro desideri vennero finalmente accolti.

God Of War 3: l’ascesa

God of War 3 fu la consacrazione definitiva di Kratos.

Il terzo episodio di GoW riuscì a rispettare tutte le attese dei fan e forse persino a superarle. God of War 3 era più bello da vedere, più spettacolare, più vario, più giocabile e più epico di entrambi i suoi predecessori. Inoltre era molto, molto più violento. In questo gioco la furia di Kratos si abbatte sull’Olimpo come un fiume in piena e niente e nessuno è in grado di fermarlo o placarlo. Abbattendo una divinità dopo l’altra, il nostro eroe si farà strada fino alla resa dei conti con Zeus.

Oltre alle ormai mitiche lame con catena, Kratos usufruirà di un ottimo set di armi divine, ognuna con le sue caratteristiche e magie specifiche. Questo, insieme alla frenesia e alla spettacolarità delle battaglie (in particolare quelle coi boss) e alla già citata realizzazione tecnica davvero sopraffina, contribuì a rendere GoW III la consacrazione definitiva per santa Monica e la sua saga.

Nell’epilogo di God of War 3 Kratos, dopo aver fatto piazza pulita degli dei dell’Olimpo, decide di sacrificarsi per donare la speranza, confinata dentro di lui, agli esseri umani. Sembrava dunque che l’epopea di GoW fosse giunta alla sua conclusione. Eppure, l’ultima scena dopo i titoli di coda mostra una scia di sangue allontanarsi nel luogo in cui era disteso lo spartano!

Le storie mai narrate

Ghost of Sparta fu l’ennesimo successo per la serie GoW.

Come prevedibile, il marchio God of War era una fonte di guadagni troppo sicura perché Santa Monica potesse rinunciarvi del tutto. Ecco dunque uscire, già nel novembre 2010, God of War: Ghost of Sparta, secondo episodio della serie dedicato alla portatile Sony.

In questo gioco, ennesimo prequel della saga principale, collocabile tra Betrayal e GOW2, Kratos partirà alla volta della leggendaria Atlantide alla ricerca del fratello scomparso, Deimos, lasciandosi dietro la consueta scia di morte e distruzione.

Il gioco, pur ricevendo numerosi apprezzamenti e recensioni positive, risultava essere molto simile ai predecessori. Riuscì comunque a ritagliarsi un posto nei cuori dei fan grazie alla sua trama e alle rivelazioni sul passato di Kratos, che aggiungevano molti particolari interessanti.

Ascension fu l’ultimo titolo di God of War ambientato nella mitologia Greca.

Nel marzo 2013 è la volta di God of War Ascension, questa volta per Playstation 3, primo episodio in assoluto della saga dal punto di vista cronologico. Ascension narra infatti la dura lotta tra Kratos e le furie, che si rivelerà essere alla base dell’odio che lo spartano nutre per Ares.

Ascension ripropone tutti gli elementi vincenti dei precedenti giochi di GoW, aggiungendo tutta una serie di elementi gestionali nella personalizzazione di armi e armature, e soprattutto un’inedita modalità online. Sarà infatti possibile giocare in multiplayer sia in modalità competitiva sia cooperativa. Questa modalità ricevette reazioni miste dal momento che i giocatori lamentarono un bilanciamento non perfetto dei vari stili di combattimento.

In generale, Ascension ricevette un’accoglienza più tiepida rispetto ai predecessori, sia per la trama meno interessante che per la mancanza di novità degne di nota. Era chiaro che, se voleva tener vivo l’interesse per la sua serie, Santa Monica doveva progettare con attenzione i prossimi passi.

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God of War Ragnarök: guida alla leggenda

Un nuovo inizio per GoW

Il soft reboot del 2018 lasciò i fan davvero a bocca aperta.

L’attesa che i fan dovettero sopportare questa volta fu davvero lunghissima. Per quasi cinque anni infatti Santa Monica si limitò a produrre una serie di collection dedicate ai primi giochi della serie, che per l’occasione vennero anche rimasterizzati in alta definizione. Lo stesso God of War, 3 nel 2015, venne rimasterizzato per PS4, in una versione ancor più spettacolare e graficamente al passo coi tempi.

Le attese dei fan ebbero finalmente fine il 20 aprile del 2018, quando il nuovo episodio della saga di Kratos sbarcò su Playstation 4. Intitolato semplicemente God of War, questo gioco segnò davvero un nuovo inizio per la saga. Le innovazioni furono molteplici. Anzitutto l’ambientazione: dalle lande della Grecia il nostro eroe si stabilisce nei ghiacci del nord, in un ambientazione legata ai nove regni e alla mitologia norrena.

Anche il gameplay risulta profondamente cambiato, grazie ad una nuova visuale dinamica posta alle spalle di Kratos e a uno stile di gioco che sembra puntare più sull’esplorazione e sulla profondità della trama che sui combattimenti; quest’ultimi restano comunque estremamente spettacolari e bilanciati, e continuano a rivestire un ruolo di primissimo piano nell’economia dell’avventura.

Nel nuovo God of War viene implementato anche l’aspetto gestionale, dal momento che il giocatore ha la possibilità di forgiare e potenziare un gran numero di rune magiche e armature. Kratos inoltre sfoggia una nuova arma: l’ascia Leviatano alla quale, senza fare spoiler, andrà ad aggiungersi una seconda arma. Kratos non sarà più solo nelle sue peregrinazioni. Il nostro spartano infatti è inaspettatamente diventato papà. Il figlio di Kratos, di nome Atreus, fungerà da personaggio di supporto e disporrà di una serie di abilità utili sia in battaglia sia per sbloccare tesori o vie precedentemente nascoste.

Tutte queste innovazioni, unite ad una realizzazione tecnica inceccepibile e a una trama ancora più profonda e innovativa rispetto ai titoli precedenti hanno reso il nuovo God of War un successo assoluto, con oltre 23 milioni di copie vendute e la vittoria ai Game Awards come gioco dell’anno.

Il presente di God of War

Ragnarok rappresenta l’apoteosi di tutte le potenzialità di God of War.

Arriviamo ai giorni nostri e a quel God of War Ragnarok che, fin dalla sua uscita, avvenuta nel novembre 2022 su PS5, ha saputo ancora una volta mietere un numero enorme di consensi e riconoscimenti.

Il gioco ripropone tutti gli elementi del titolo precedente, potenziandoli all’inverosimile. Nuove armi, ambientazioni enormemente più vaste, nuove possibilità di personalizzazione grazie all’amuleto runico e l’inedita possibilità di controllare Atreus.

Completano il quadro un comparto grafico e sonoro a dir poco sontuosi e una trama risulta estremamente ben scritta e curata; nello specifico, Kratos e Atreus si trovano sull’orlo dell’inizio del Ragnarok, il colossale scontro tra i nove regni che secondo le leggende segnerà la distruzione e la successiva restaurazione di essi. Tra profezie, inganni e continui pericoli, i nostri due protagonisti dovranno compiere un’ardua scelta tra il desiderio di evitare conflitti e la volontà di fare quello che è giusto.

Anche in questo caso il finale di Ragnarok (su cui non diremo assolutamente nulla) sembra dare una netta conclusione alla vicenda. Tuttavia, abbiamo già imparato come sia difficile per Santa Monica rinunciare alla sua IP più redditizia.

Non vediamo davvero l’ora di scoprire quale sarà il futuro della saga. Il setting verrà di nuovo spostato verso un nuovo Pantheon mitologico? Assisteremo al ritorno nell’Antica Grecia? O forse i programmatori hanno in mente qualcosa di ancora diverso? Possiamo solo aspettare.

Ora come sempre la parola passa a voi lettori! Conoscevate tutta la saga di God of War? Quali sono i vostri giochi preferiti? Fatecelo sapere nei commenti!

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Editoriali

Diablo 4: uno sguardo a Druido e Negromante

Ed eccoci a parlare ancora una volta di Diablo 4, una delle release più importanti dell’anno. La scorsa settimana, grazie all’Accesso Anticipato, abbiamo potuto avere un assaggio del mondo di Sanctuary e di tutti gli orrori che ci offrirà. Oggi invece sono qui per darvi le mie impressioni sulle ulteriori due classi disponibili durante l’Open Beta, ovvero il Negromante ed il Druido.

Chiarisco subito che questa vuole essere una semplice panoramica delle due classi sopra citate, del feeling che restituiscono giocando. Ritengo superfluo analizzarne minuziosamente i vari aspetti basandomi su una open beta con level cap al 25. Se invece volete un’opinione generale sul gioco qui trovate il nostro articolo sull’accesso anticipato. Ora, fatta questa doverosa premessa, vediamo un po’ come se la cavano i due nuovi eroi di Sanctuarium.

L’erede di Rathma

Il Negromante è una delle classi più iconiche dell’ intera saga. Un incantatore che ha votato la sua intera vita allo studio delle arti più oscure, quali la magia delle ossa, delle ombre o, banalmente, la negromanzia.

Se adorate lo stile di gioco da “summoner” allora questa è la classe che fa per voi. Evocazione di scheletri combattenti, scheletri maghi e golem, questo è quello che da sempre contraddistingue il Negromante, e la sua iterazione di Diablo 4 non fa eccezione. Il poter contare su di un piccolo esercito di ossa ambulanti ha sempre il suo fascino, ma il necro non si limita a questo.

Il caro vecchio skilltree.

Questa volta possiamo contare su vari incantesimi del sangue, dell’ombra e delle ossa. Ovviamente non mancano i grandi classici che contraddistinguono questa classe da sempre, principalmente la Lancia d’ossa, la mitica Esplosione Cadaverica e le immancabili maledizioni, come la Vergine di Ferro. Peccato notare la mancanza delle spell basate sul veleno, che sembra esser diventato affare del Druido. Ma andiamo a quel che realmente ci interessa. Che feeling restituisce questa nuova(vecchia)classe su Diablo 4?

Si finisce sempre qui.

Il Negromante è, a mani basse, la star di questa open beta. O quantomeno lo è per me. Se dovessi descriverlo in una sola parola direi devastante. Un mix letale di minions, magie AoE, capacità difensive, debuff e danni altissimi, questo è il necro di Diablo 4, quantomeno durante i primi 25 livelli. Lanciarsi nel bel mezzo dei nemici per scaricare una nova di sangue e vedere lo schermo che fa “boom”? Lo potrete fare. Stare in disparte indebolendo gli avversari, a suon di maledizioni, mentre il vostro esercito ambulante fa piazza pulita? Potete fare anche questo.

Entrambi gli stili funzionano, già dai primissimi livelli. Ovviamente nulla vieta di esporsi in prima linea, assieme ai propri minions – cosa fatta dal sottoscritto – ed adottare uno stile ibrido caster/summoner, che ritengo anche essere il più divertente.

Sangue, scheletri e tante botte.

Una aggiunta degna di nota è la nuova meccanica del Libro dei Morti. Da questa schermata è possibile “personalizzare” le proprie summons, scegliendo il tipo di scheletro – ad esempio scheletri combattenti, difensori o mietitori – ed uno tra due effetti passivi. Interessante anche la possibilità di scegliere di non utilizzare affatto l’evocazione, garantendo ulteriori bonus passivi al Negromante.

Il Libro dei Morti. Io ad esempio utilizzo i mietitori.

Come premesso non starò qui ad elencarvi ogni singola abilità della classe, anche perché qualsiasi cosa nel kit del Negromante è efficace. Già da ora si intravedono diverse possibilità di building, e sembrano tutte valide. Di fatto non ho riscontrato alcun difetto nel necro, ed anzi, a tratti mi è sembrato che fosse anche troppo forte, visti gli innumerevoli strumenti offensivi e difensivi in suo possesso.

Insomma, se avete giocato la medesima classe nei precedenti capitoli vi sentirete subito a casa. E massacrerete orde di demoni senza alcuna difficoltà.

La furia della Natura

Ed ecco il secondo ritorno, un ritorno che si attendeva da ben 22 anni. Torna il Druido, ibrido incantatore/mutaforma introdotto nella saga nel lontano 2001, con l’ espansione di Diablo 2, Lord of Destruction. Che dire del Druido di Diablo 4? Se avete giocato il secondo capitolo della saga saprete già cosa aspettarvi.

Il Druido si può giocare principalmente in due modi, ovvero da guerriero con abilità di mutaforma, o da incantatore grazie ad i suoi incantesimi elementali di roccia, fulmine ed aria. Durante l’open beta io ho potuto provare a fondo solo il primo archetipo, vuoi per i pochi livelli disponibili, vuoi perché di aspetti leggendari che potenziassero l’altro banalmente non ne ho trovati.

Impersonare un lupo mannaro ha sempre il suo fascino.

Faccio subito una premessa, il Druido può funzionare, con i dovuti accorgimenti. Ma se con il Negromante la sensazione di poter sbaragliare tutto e tutti è lampante, con il Druido bisognerà invece sudare parecchio per portare la pelle a casa.

L’idea alla base del Druido è di utilizzare le skill primarie – i cosiddetti generatori – per accumulare Spirito (la risorsa principale della classe)per poi spenderli in pochi ma potenti attacchi. Un’idea semplice, che però a conti fatti non funziona, perché banalmente mancano i danni ed i generatori avrebbero bisogno di un buff.

Investire tutto nel Lupo Mannaro non è stata una grande idea.

Anche la gestione dello Spirito è macchinosa, poiché non si rigenera mai passivamente. Questo porta ad uno stile di gioco lento, dove dopo 3-4 cast delle skill da danno siamo costretti ad autoattaccare per rigenerarlo. Il Negromante e l’Incantatore ad esempio fanno più danni e gestire la loro risorsa primaria è più semplice ed intuitivo.

Carina l’idea di dare al Druido gli attacchi velenosi, ma anche lì, il veleno fa poco male, e soprattutto non viene accumulato nel bersaglio, rendendolo di fatto un debole DoT. L’unico modo di renderlo efficace è tramite svariati aspetti leggendari fondamentalmente.

Danni bassini, AoE decente ma davvero poca mobilità, questo è quello che ho notato durante la mia run. Aggiungiamoci che le capacità difensive del Druido al momento non sono poi così entusiasmanti, ed abbiamo una classe seriamente in difficoltà in molti scontri, soprattutto quelli con i boss. Menzione d’onore per l’odiosissima Den’s Mother, che mi ha davvero fatto penare.

Perché la meccanica degli Aspetti Animali sia stata bloccata rimane un mistero.

Per correttezza aggiungo anche che la meccanica unica della classe, gli Aspetti animali, non era disponibile durante l’open beta, inspiegabilmente aggiungerei. Di fatto il Druido era l’unica classe a non avere accesso a questa peculiarità, che sarebbe il corrispettivo dell’ Arsenale del Barbaro o il Libro dei Morti del Negromante.

Quello che ho detto fino ad ora non implica però che la classe sia da buttare. Io stesso ho sperimentato due build soddisfacenti. Una basata esclusivamente sul veleno e sul poterlo spargere tra i nemici grazie alla skill Rabies ed all’evocazione di due piccoli lupi mannari, anch’essi velenosi. Un’altra che andava ad utilizzare la meccanica dell’ Overpower assieme alla skill Pulverize. Entrambe però richiedevano la combo di aspetti leggendari, cosa di cui non necessitavo con Negromante o Incantatore ad esempio.

Per concludere vi dirò la verità, paradossalmente la classe che più mi ha divertito è proprio il Druido, pur con tutte le sue mancanze. Affinare la build, decidere se puntare sul veleno o sul danno puro e riuscire finalmente a concludere la beta è stato soddisfacente. Il Negromante, di contro, l’ho trovato fin troppo forte, qualsiasi specializzazione seguissi.