Categorie
Tecnologie

Recensione Meta Quest 3, realtà virtuale ma non troppo

Nel mercato videoludico c’è un settore che aspetta di esplodere da ormai tantissimi anni: i visori per la realtà virtuale. Diverse aziende stanno provando ad aggiungere il proprio plus perché vedono nel VR un mercato ancora, stranamente, acerbo. Anche noi siamo tornati a esplorare questo mondo utilizzando un visore controverso, Meta Quest 3, tanto amato dalla critica, ma anche così duramente punito dalle vendite a causa di una contrazione prevista per questo trimestre fino al 70%.

Questo articolo è una recensione della mia esperienza con Meta Quest 3, snocciolando per dovere di cronaca anche qualche dato sul dispositivo così da comprendere cosa abbiamo tra le mani.

Design

A livello estetico risulta molto meno ingombrante del Meta Quest 2, quindi anche più leggero una volta indossato e comodo da usare, anche se sessioni prolungate, causa pressione delle stringhe sul capo, spesso fanno addormentare tutta la parte centrale della testa a partire dalla fronte. Fastidioso. Di gran lunga più comoda la fascia Premium che però costa un’occhio.

La parte anteriore curva del Quest 3 presenta quattro telecamere in due pile verticali, con un emettitore infrarosso tra di esse. Due telecamere sono usate principalmente per il tracking spaziale, per scansionare l’ambiente circostante per i contenuti AR e per determinare i confini della tua area di gioco. Le altre due sono telecamere RGB pass-through che permettono di vedere il proprio ambiente a colori. Due telecamere di tracking spaziale aggiuntive si trovano lungo il bordo inferiore del visore.

Una manopola di regolazione della distanza pupillare e un selettore del volume si trovano tra le telecamere inferiori, insieme a una connessione a tre contatti per la base di ricarica opzionale ( e a pagamento). Se non si usa la base, si può caricare il visore usando la porta USB-C sulla cerniera sinistra.

Un pulsante di accensione si trova appena sotto. I controller sono ottimi, molto maneggevoli e precisi durante le sessioni di gioco. Impugnare una spada in Assassin’s Creed ( Nexus) non è mai stato cosi divertente.

Recensione Meta Quest 3

Caratteristiche tecniche

Meta Quest 3 ha un display OLED da 2.064 per 2.208 pixel per occhio, con una frequenza di aggiornamento di 120 Hz. Questo significa che ha una risoluzione più alta e una frequenza di aggiornamento più veloce rispetto al Quest 2, che ha un display LCD da 1.832 per 1.920 pixel per occhio con una frequenza di aggiornamento di 90 Hz. Questo si traduce in immagini più nitide e fluide, con colori più vivaci e contrasti più elevati.

Il Quest 3 ha anche un processore più potente, lo Snapdragon XR2 Gen 2, che offre una potenza grafica 2,5 volte superiore rispetto al Quest 2. Questo si nota soprattutto nelle esperienze VR che hanno un aggiornamento visivo per il Quest 3, come Beat Saber, Superhot VR e The Walking Dead: Saints & Sinners. Gli effetti di luce sono di gran lunga migliorati, i dettagli sono più ricchi e il testo è più leggibile.

A completare la dotazione ci pensano 8 GB di RAM ed una batteria di 4000 mAH che garantisce circa due ore, due ore e mezza massimo di gioco ininterrotto.

Limitazioni e considerazioni

Il catalogo giochi è vasto e sempre in espansione con titoli anche di primissimo piano come Assassin’s Creed Nexus e Asgard’s Wrath 2, che meritano sicuramente di essere provati. Tutto rose e fiori quindi…più o meno si, se avete intenzione di acquistare un visore, il Meta Quest 3 è la scelta migliore. Ma attenzione ad alcuni “effetti collaterali”.

Questione spazio. Dovrete averne a disposizione parecchio per sfruttare a pieno tutta la funzionalità del visore. Vero è che il dispositivo vi chiederà di creare dei confini, in pratica un reticolato che vi indicherà i limiti su cui potersi muovere; purtroppo, giocare con titoli sportivi, come tennis o boxe, significa dover farsi in quattro per racimolare spazio in spazi più stretti.

L’accessibilità dei giochi è veramente molto ampia, anche in un gioco come Assassin’s Creed, dove correre e saltare con il parkour è la base; infatti, si potrà giocare, settando le giuste impostazioni, da seduti. E questa è l’altra personalissima nota dolente. Avevo cominciato ad abbandonare il visore proprio perché troppo pigro! O meglio, quando mi siedo e videogioco ho bisogno di rilassarmi. Giocare a tennis, combattere a suon di pugni, correre con Ezio, mi risultava pesante e finivo per accendere l’Xbox! Questo non significa però che utenti più attivi di me ne trovino giovamento, ma per me, passata l’euforia iniziale, il visore era stato accantonato.

Infine, e anche qui dipende da persona a persona, durante le sessioni ho sofferto di un frequente mal di testa che scaturiva dopo quasi tutte le sessioni di gioco. Del resto, noi possiamo essere consapevoli quanto vogliamo di essere seduti su un divano, ma se stai volando su di un aereo da guerra o stai saltando tra le cime dei palazzi settecenteschi o camminando su una tavola sospesa nel vuoto, il tuo cervello sentirà comunque che c’è qualcosa che non va per il verso giusto.

Conclusioni

Meta Quest 3 è il miglior visore di realtà virtuale per qualità-prezzo in circolazione, nonostante si parta da ben 549 euro per la versione 128 GB. Un ottimo visore alla luce delle caratteristiche e del prezzo, ma il cui acquisto va ponderato dopo averlo magari provato e dopo aver verificato che sia idoneo al proprio fisico e perché no, anche alle proprie fobie.

Categorie
Tecnologie

3 videogiochi con la migliore Intelligenza Artificiale

Il gaming sta sempre di più assumendo l’aspetto di esperienza di vita a tutto tondo, sia come mezzo capace di indurre una riflessione su ciò che ci circonda sia come specchio della realtà. Questo processo ha man mano scardinato il vecchio stereotipo del gioco come solo mezzo di divertimento fine a se stesso: la rappresentazione della realtà è il nodo cruciale di ogni videogioco di successo, quello che fa da spartiacque fra capolavoro e titolo mediocre. E l’elemento più influente nella rappresentazione della realtà è l’intelligenza artificiale: di conseguenza, conoscere i videogiochi con la migliore IA è d’obbligo.

Ecco dunque i tre videogiochi con la migliore intelligenza artificiale, dal nostro personalissimo punto di vista.

3. La Terra di Mezzo: L’ombra della guerra

L’ombra della guerra è un action RPG ispirato da Il Signore degli Anelli e sequel diretto di La Terra di Mezzo: L’ombra di Mordor. Il videogioco è stato sviluppato da Monolith Productions, casa nota agli appassionati di intelligenza artificiale per la serie F.E.A.R. La Terra di Mezzo: L’ombra della guerra uscì nel 2017 per PC, PS4 e Xbox One.

Il Nemesis System – già presente nel primo capitolo ma migliorato in quest’opera con la possibilità di prendere il controllo degli orchi – è il motivo per cui L’ombra della guerra è un baluardo dell’intelligenza artificiale nei videogiochi; infatti, il sistema Nemesis funziona su due contesti: il primo è garantire l’unicità di ogni nemico; il secondo è far agire gli avversari come una società all’interno della mappa.

Ogni singolo orco che popola la regione è quindi generato proceduralmente. Questo implica che tutti gli orchi hanno un aspetto unico, una classe, dei tratti con relativi punti di forza e debolezza.

Allo stesso tempo, gli orchi si muovono in un contesto sociale gerarchico diviso in Grunt, Capitan, Warchief e Overlord con la possibilità di salire di rango uccidendo i propri simili. Con queste regole, i nostri nemici sviluppano la propria società; infatti, ogni volta che moriremo sul campo di battaglia, la società nemica si evolverà: ogni Capitano ucciso sarà rimpiazzato e se tutti i posti sono occupati, alcuni orchi potranno decidere di farsi spazio tra i loro simili con la forza.

Infine, i nostri nemici tengono a mente quello che è avvenuto nel passato ricordandosi in particolare del nostro alter-ego. Per esempio, nel caso in cui un orco ci uccida sul campo di battaglia, quando lo inconteremo nuovamente, si prenderà gioco di noi ricordandoci come ci ha sconfitto.

2. Alien: Isolation

Alien: Isolation è stato un punto di rottura per il franchise. Dal punto di vista dell’IA in particolare, ha visto un salto qualitativo enorme. Questo non solo per l’innovatività dell’intelligenza realizzata, ma anche e soprattutto per il radicale cambio di gameplay. L’intera esperienza di gioco e la peculiarità horror del titolo è dovuta quasi in toto dal comportamento imprevedibile, sempre diverso, quasi per nulla scriptato dell’alieno. L’IA è infatti concepita con una struttura a due componenti: director-AI, una “macro” intelligenza che fa da coordinatore; alien-AI ,una “micro” specializzata nel dare comportamento all’alieno.

Il direttore sa sempre dove si trovano giocatore e alieno: il suo compito è guidare il mostro verso il giocatore tramite indicazioni di massima. Con l’ausilio di un indicatore sul livello di “tensione” percepito dal giocatore inoltre, l’IA può anche fuorviare l’alieno indicandogli una locazione errata. In questo modo il giocatore viene messo alla prova cercando però di non portarlo all’esasperazione, per evitare che smetta di giocare per l’eccessiva tensione.

L’intelligenza aliena invece è strutturata come una serie di “nodi”, in una struttura ad albero, in cui ogni sotto-nodo è accessibile al solo verificarsi di certe condizioni. I nodi determinano le azioni che il mostro può compiere mentre le condizioni sono rappresentate da ciò che esso percepisce. Le condizioni che determinano le azioni compiute dall’alieno sono verificate tramite l’ausilio di sensori, rappresentati in questo caso da udito e vista. I “sensi” vengono utilizzati dall’alieno per sentire eventuali rumori e per identificare il giocatore, nel caso in cui sia nel campo visivo. Ultimo ma non meno importante, con l’avanzare del gioco vengono sbloccate azioni disponibili per l’alieno. In questo modo si riesce a simulare una specie di “apprendimento” del mostro, rendendo l’esperienza interessante anche all’aumentare della bravura del giocatore.

Come si può dedurre il mix di direttore e alieno si rivela perfetto per un gioco horror. L’alieno si scoprirà essere difficilmente prevedibile (non essendo scriptato il comportamento) e sempre più capace, senza però raggiungere livelli insostenibili di difficoltà. Anche giocabilità e gameplay ne giovano, grazie al delicato equilibrio di tensione e capacità aliena stemperati tramite il direttore.

1. The Elder Scrolls IV: Oblivion

Oblivion non ha bisogno di presentazioni. Si tratta di uno dei GDR più influenti della storia, capace di imporre un nuovo standard per i videogiochi PC in generale. Sviluppato da Bethesda Game Studios e distribuito da Bethesda, entrambi ora parte di Microsoft, fu anche tra i pionieri di un nuovo modo di concepire l’intelligenza artificiale nei videogiochi.

Il sistema di IA sviluppato si chiama Radiant AI ed è stato alla base, seppur con miglioramenti ed estensioni, di titoli come Skyrim, Fallout 3 e Fallout 3: New Vegas. La sua peculiarità è quella di personalizzare l’esperienza del giocatore in base alle sue azioni e alle caratteristiche impresse al suo personaggio. Ciò permette di garantire un’esperienza unica ad ogni partita, grazie alle diverse reazione dei vari NPC e alla risposta dell’ambiente di gioco alla nostra presenza.

In particolare nei GDR il focus è sul personaggio, di cui scegliamo abilità, tratti ed affiliazioni a varie organizzazioni nel mondo di gioco. Questo consente a Radiant AI di essere il compagno ideale di ogni avventura. Ad esempio creando un personaggio di “dubbia moralità” come il ladro, non sorprendiamoci se le guardie ci trattano con diffidenza, intimandoci di girare alla larga. Altro esempio possono essere i dialoghi fra i personaggi non giocanti stessi, conseguenti ad azioni e scelte da noi fatte sul mondo di gioco.

Gli atteggiamenti di questo tipo e le reazioni “personalizzate” del mondo di gioco verso il nostro passaggio, elevano Oblivion fra i pionieri di questo tipo di approccio al gameplay, ancora attuale e moderno. Questo sistema ha aperto la via del successo ai titoli sopracitati, imponendosi come uno degli standard a cui puntare per il gameplay offerto.

Categorie
Tecnologie

OXO Noughts and Crosses: storia del primo videogioco

Ormai dai tempo i videogiochi sono entrati nel nostro mondo e ne abbiamo fatto la nostra passione. Quante ore passate davanti al monitor o al TV? Tante! Troppe secondo i nostri parenti di vario genere probabilmente. Però, ci sono stati tempi in cui le opere videoludiche erano disponibili solo a una piccola elite di universitari, tra professori e ricercatori. Nelle pagine di questo sito, abbiamo pubblicato diversi episodi della storia dei videogiochi – che potete trovare elencati in questa pagina – ma adesso parleremo più nello specifico del primo videogioco universalmente riconosciuto come tale: OXO, un semplice Tris il cui titolo deriva, neanche troppo velatamente, dai segni convenzionali utilizzati nel gioco anche se inizialmente, non a caso, venne chiamato Noughts and Crosses (zeri e croci); ma alla fine OXO sembrò più immediato e di impatto.

A pochi anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, tutti stavano cercando di ripartire da zero sfruttando le innovazioni, sulla scia di quelle belliche, inventando e sperimentando; infatti, oltre a OXO, abbiamo diversi esempi lampanti creati negli anni 50. Uno per tutti è Tennis for Two.

OXO o Noughts and Crosses

L’anno, dunque, era il 1952: un giovane Alexander S. Douglas stava ultimando la sua tesi per il dottorato a Cambridge sull’interazione uomo-macchina. Decise quindi di inventare qualcosa di innovativo, qualcosa che, fino a quel momento, ancora pochi avevano sperimentato, anzi, neanche osato immaginare. Un gioco comune, come quello del Tris, che vedeva come opponenti anzichè due umani, un umano e una macchina.

Il primo computer su cui girava OXO

OXO fu sviluppato per computer EDSAC, quello in dotazione all’università e lo consideriamo il primo titolo videoludico poiché, per la prima volta nella storia, uno schermo video rappresentava graficamente un qualcosa di ludico. Un’interazione in cui l’uomo, attraverso una macchina e anzi, competendo contro di essa, trascorreva del tempo, divertendosi, senza una controparte umana. Una rivoluzione epocale! Naturalmente, il fatto che  OXO girasse unicamente sul computer universitario, che all’epoca occupava una intera stanza, gli impedì di acquisire popolarità tra il pubblico. Ma tanto bastò per far aprire gli occhi ai programmatori in erba; infatti, come Douglas dimostrò, che il mondo dei videogiochi aveva potenziale, tanto potenziale.

La schermata di gioco di OXO era visualizzata su uno dei tre oscilloscopi a fosfori verdi presenti che erano collegati all’EDSAC per controllarne lo stato logico; in particolare ispezionavano i banchi di memoria, costituiti da grosse valvole termoioniche collegate ad un tubo di mercurio che fungeva da linea di ritardo. La mossa del giocatore era inserita con un normale disco telefonico direttamente nell’accumulatore del computer; selezionando un numero da 1 a 9 il giocatore sceglieva una delle caselle sul campo di gioco e il tutto veniva registrato su una telescrivente che costituiva, di fatto, la console di gioco, ovvero il principale strumento per il controllo del computer.

Perchè il Tris?

Il Tris è uno dei giochi più antichi del mondo, se ne hanno tracce sin dall’antica Roma dove veniva chiamato “Terni lapilli”. Il gioco è ancora oggi preso ad esempio come base per spiegare la teoria del gioco e le basi dell’intelligenza artificiale. Il Tris infatti è un gioco a “strategia perfetta” ed è diventata la base, per i neoprogrammatori, per la creazione di un’intelligenza artificiale incapace di perdere.

OXO fisico: il gioco del tris

Bertie the Brain

A questo punto, qualche purista della storia dei videogiochi, potrebbe obiettare che il primo videogioco potrebbe trattarsi sempre del Tris, nato due anni prima, nel 1950, grazie a Josef Kates, un ingegnere austriaco, naturalizzato canadese, con il suo Bertie the Brain. Appare iconico come Kates, fino a pochi anni prima ingegnere al servizio della Royal Canadian Navy, già nel 1950 avesse spostato il suo interesse su tutt’un altro tipo di tecnologia. I tempi stavano cambiando.

Famoso è l’anedotto in cui Bertie fu sconfitto in un match dal comico Danny Kaye, seppur a seguito di un graduale abbassamento della difficoltà. Kaye festeggiò ballando pieno di gioia dopo aver vinto il primo scontro arcade della storia contro una macchina.

Bertie the Brain non è per noi il primo videogioco perché rispetto a OXO, non mostrava l’esito del gioco su uno schermo video, che dà senso alla parola videogioco, bensì tramite lampadine che si accendevano e spegnevano in base alle scelte del computer o dell’uomo.

Conclusioni

Appare chiaro come il gioco in sé era alquanto insulso, tecnicamente intendo, se paragonato ai nostri giorni. Come abbiamo detto, non ebbe neanche questo gran successo poiché era una semplice tesi universitaria; infatti, se ne perse presto traccia, seppur solo a livello di hardware, poiché a livello culturale fu dirompente.

D’altro canto, OXO ha avuto la capacità di “far vedere la luce” a quei visionari e pionieri della tecnologia dell’epoca e degli anni 70, che hanno avuto come riferimento Noughts and Crosses, senza il quale, probabilmente oggi, non saremmo qui a parlare di videogiochi come li conosciamo.

Categorie
Tecnologie

Rollback netcode: cos’è e perché è così importante

Chiunque abbia una certa familiarità col genere dei picchiaduro – abbiamo approfondito i migliori in questo articolo – ( si sarà certamente imbattuto nel rollback netcode. Di che cosa si tratta? Ve lo spieghiamo passo dopo passo, mostrandovi perchè sia una caratteristica ormai praticamente obbligatoria per ogni nuovo picchiaduro in arrivo sul mercato videoludico.

In un picchiaduro qualsiasi ritardo negli input può risultare fatale.

Un genere votato all’online

La componente online riveste nei picchiaduro un ruolo davvero di primo piano, forse ancor più che in ogni altro genere. Con la progressiva sparizione delle sale giochi e la diffusione sempre più massiva del gioco online, anche la classica modalità multigiocatore in locale ha progressivamente perso importanza.

Risulta dunque chiaro come la modalità online sia divenuta il cuore pulsante di ogni picchiaduro che si rispetti. Ancor più con la recente pandemia da COVID-19 a causa della quale anche numerosi eventi competitivi hanno dovuto giocoforza svolgersi a distanza.

I ritardi sono da sempre la spina nel fianco dei giocatori online

La lentezza della trasmissione

All’interno di una partita online elementi come il lag, i ritardi nell’esecuzione dei comandi e la bassa qualità della connessione di uno dei due giocatori possono incidere in maniera significativa sull’esito degli scontri. Nei picchiaduro il tempismo e la pronta risposta dei comandi sono più che fondamentali e qualunque tipo di delay può compromettere completamente l’esperienza dei giocatori.

Nel gioco online intervengono numerosi fattori che spesso vanno a rallentare l’invio e la ricezione dei pacchetti di rete, i quali contengono tutte le informazioni necessarie per giocare. Le tecniche di connessione tradizionali, come per esempio il peer to peer, gestiscono proprio i tempi di trasmissione di questi pacchetti. Ciò va inevitabilmente a creare una sensazione di lentezza nel gioco, causata dai ritardi nella trasmissione degli input dei giocatori. Spesso questi ritardi sono infinitesimali, ma sommandosi tutti insieme vanno a creare una situazione generale di ritardo e mancanza di fluidità.

L’ intuizione del rollback netcode

La tecnologia del rollback netcode ha l’enorme pregio di rendere il gioco estremamente fluido e veloce, creando l’illusione di una partita a latenza zero. Questa tecnologia infatti ricorre alla previsione degli input e all’esecuzione speculativa, inviando immediatamente i comandi dei giocatori al gioco.

Il rollback netcode sfrutta incredibili tecnologie di previsione e calcolo delle azioni del giocatore.

Come funziona?

Per comprendere meglio, prendiamo come esempio i siti di streaming. Mentre si guarda una serie sarà capitato a tutti di osservare come a volte l’immagine si blocchi. In questi casi, talvolta l’audio continua a essere riprodotto. Nel momento in cui le immagini tornano a scorrere, il video accelera per andare a sincronizzarsi di nuovo con l’audio.

In maniera simile, il rollback netcode, in caso di rallentamenti, cercherà di prevedere le mosse effettuate dal giocatore e le mostrerà immediatamente sullo schermo, in modo da non andare fuori sincro. Questa operazione sfrutta una complessa serie di calcoli ed algoritmi per mettere in atto un mix tra sincronizzazione e congettura, che ricorda quasi una profilazione, e va a cancellare qualsiasi ritardo.

Quando però funziona correttamente, gli effetti sul gioco sono quasi miracolosi e danno davvero ai due contendenti l’illusione di trovarsi a giocare davanti alla stessa macchina.

Prospettive future

Samurai Shodown è uno dei principali titoli ad aver aggiunto il supporto al Rollback Netcode.

Durante l’edizione 2022 dell’EVO, la più importante competizione mondiale dedicata ai picchiaduro, uno degli annunci principali ha riguardato proprio il rollback netcode; infatti, ben tre videogiochi, coi loro più recenti updates, hanno implementato il rollback netcode nelle loro modalità online: Dragonball Fighterz, Persona 4 Arena Ultimax e Samurai Shodown.

L’annuncio è stato accolto con grande gioia dai giocatori e sembra proprio che sempre più case produttrici si stiano convertendo alla tecnologia rollback. Restano tuttavia diversi titoli, anche molto famosi, come ad esempio Super Smash Bros Ultimate, che non hanno ancora annunciato il passaggio a questa nuova tecnologia.

Tuttavia gli incredibili benefici portati da questa tecnologia fanno supporre che nel tempo saranno sempre di più le case produttrici sceglieranno di affidarsi a rollback netcode, che sembre essere realmente il futuro dei picchiaduro.

Categorie
Tecnologie

Cos’è stato Google Stadia: flop o precursore?

Il 29 settembre 2022, Google annuncia che Stadia chiuderà il 18 gennaio 2023, perché «non ha guadagnato la popolarità che ci aspettavamo». In questo articolo ripercorriamo la breve vita del cloud gaming secondo Google e spieghiamo cos’è stato Stadia per l’industria videoludica.

L’inizio

Nel 2018, con l’arrivo di Phil Harrison in Google, il progetto “Stadia” prende forma. Inizialmente con il nome di Project Stream (in collaborazione con Ubisoft) e successivamente Project Yeti; si esplorano le possibilità del Cloud Streaming. Stadia è il plurale di Stadium (in latino) e sta a significare luogo aperto dedito all’intrattenimento, lasciando intravedere, così facendo, la possibilità di usufruire di uno spazio dove una persona può sia “sedersi” e guardare che prendere parte attiva all’azione. Stadia nasce ufficialmente il 19 novembre 2019, con un alone di scetticismo ad avvolgerne l’attesa.

Personalmente ne preordino la Premium Edition (le Founder Edition che consentivano piccoli vantaggi in più erano già terminate): per quanto mi riguarda l’attesa era spasmodica. Google Stadia consta semplicemente di un Chromecast Ultra e di un controller, il quale, collegandosi via Wifi al Chromecast, apre un mondo videoludico davvero “magico”: quello del cloud streaming che con Stadia, forse per la prima volta, gli utenti toccano seriamente con mano.

Caratteristiche di Google Stadia

Quali sono i vantaggi di tale piattaforma? L’eliminazione in pratica dell’hardware, che lo mette Google: l’utente deve solo procurarsi, casomai decidesse di sfruttarne tutte le potenzialità, una connessione adeguata, per evitare il fastidioso lag (ritardo tra l’input e l’output). Consideriamo, infatti, che con Stadia non stiamo giocando online ma siamo connessi ad un server che sta facendo “girare” il gioco prescelto, una specie di “Netflix” dei videogiochi.

L’utente ha bisogno di una connessione veloce quindi che consenta almeno i 10 Mbps come riferimento minimo, per giocare ai massimi livelli. Google raccomanda invece una connessione che raggiunga i 35 Mbps. Consiglio personale: per verificare la propria velocità, utilizzate lo strumento messo a disposizione da Google stesso, invece delle classiche applicazioni che permettono di verificare la connessione.

Il punto nodale è sincronizzare il momento in cui l’utente preme un tasto sul controller con quello in cui l’azione si ripercuote su schermo. Qui, oltre l’affidabilità della connessione dell’utente, è dovuta entrare in gioco necessariamente l’intelligenza artificiale, che ha il compito di “predire” in una situazione di quale tasto sarebbe più conveniente premere “preparandosi” all’evento e minimizzando i tempi di risposta. Ovviamente è un sistema adattivo che impara gradualmente mentre l’utente gioca.

Dati tecnici

Ma snoccioliamo due dati sulle caratteristiche dell’architettura di Stadia: Cpu x86 personalizzata a 2,7 Ghz con hyper-threated, AVX2 SIMD e 9,5 Mb cache L2+L3, GPU AMD personalizzata con memoria HBM2 e 56 unità computazionali capaci di generare 10,7 teraflops (non “spalmati” tra tutti gli utenti ma ad effettiva disposizione di ogni singolo utente, conferma Google), 16 Gb RAM con prestazioni fino a 484 GB/s, archiviazione su SSD Cloud (dati Google).

L’azienda afferma comunque che questo è il suo sistema di prima generazione con l’idea che l’hardware col tempo sarebbe migliorato senza richiedere alcun tipo di aggiornamento da parte dell’utente. Appare chiaro come un sistema di questo tipo surclassi le console nextgen presenti sul mercato e, nelle idee di Google, anche quelle del futuro.

Altro vantaggio: normalmente in un gioco multiplayer, che si aggancia ad un server dedicato, il client gira sulla macchina in locale. Con Stadia invece il client è un’appendice del server che gira quindi sulla stessa rete, ad una velocità molto più elevata ovviamente, quindi anche per il multiplayer Stadia è un passo avanti

Libreria titoli e abbonamenti

Quali giochi, in soldoni, sono disponibili per Stadia? Una lista di prodotti è presente sul sito ufficiale; scorrendo il catalogo, si può notare come lo stesso sia piuttosto scarno, con pochi titoli tripla A a disposizione: Fifa 22, Assassin’s Creed: Valhalla – che abbiamo recensito – e Odyssey, Red Dead Redemption 2, Doom Eternal e poco altro.

Per il resto, l’abbonamento Pro (consente di accedere a giochi gratuiti e di usufruire della tecnologia più avanzata a 4K HDR e suono surround 5.1 al costo di 9,99 euro al mese) che dovrebbe competere con l’Xbox Game Pass e il Playstation Plus, non riesce nell’intento di mettere a disposizione degli abbonati dei titoli veramente validi. Microsoft ad esempio, che addirittura, per una manciata di euro in più, consente di mettere le mani su succosi titoli anche al Day One.

Competitor

C’è da dire anche che dal 2019 ad oggi, a parte i servizi in streaming di Sony e Microsoft, e l’appena arrivato in Italia SHADOW, si è imposto di prepotenza anche GeForce Now, piattaforma streaming di Nvidiache abbiamo messo a confronto con Google Stadia.

Quest’ultima prevede degli abbonamenti, tre per la precisione che consentono in modo scalare, di ricevere più o meno vantaggi. Quello top costa circa 17 euro al mese o 100 euro ogni sei mesi, per godere della massima tecnologia e dell’accesso prioritario ai server. Con il servizio di Google condivide un difetto: per giocare ai titoli più innovativi e recenti bisogna acquistarli.

Non giriamoci intorno: il più grande problema di Stadia è stato il costo, e le modalità d’acquisto, dei videogiochi. Benché siano previsti giochi gratuiti con l’abbonamento Pro, mi aspetto che se pago un abbonamento sia possibile giocare a tutto, o quasi, senza spendere più un euro, alla stregua di Netflix per le serie TV.

Considerazioni finali

Considerando che anche lo studio interno di Google, lo Stadia Games ed Entertainment, è stato chiuso ritenendo lo sviluppo dei videogiochi troppo oneroso e relegando, di fatto, Stadia a un contenitore di prodotti sviluppati da terze parti, ecco che si delineano le cause che, in un certo qual modo, hanno portato ad una sorta di “fallimento” Stadia.

Nell’ultimo periodo, la piattaforma ha ricevuto un “depotenziamento”, con l’utenza che, stando alle statistiche, privilegia gli abbonamenti Sony e Microsoft (che parimenti a Stadia consentono il Cloud Gaming) e che, per un prezzo simile a quello di Google, offrono più titoli senza l’obbligo di acquistarli e una più adeguata importanza dei giochi compresi nel Pass.

In definitiva, il cloud gaming è ancora oggi una grande incognita, ma Google Stadia è stata soprattutto vittima di una pessima scelta commerciale.

Categorie
Tecnologie

La Storia del Game Boy

Il 21 aprile 1989 esce in Giappone una nuova console portatile: il Nintendo Game Boy. L’hardware non è il più potente in circolazione e lo schermo LCD è in bianco e nero, o meglio in verde e nero. Nell’odierna folle corsa alle prestazioni, molti direbbero che il Game Boy meriterebbe di fallire, esattamente come gli stessi già dicono di Nintendo Switch. Questa parte della community evidentemente non ha imparato la lezione del Game Boy, la console portatile più iconica della storia videoludica.

La console war tascabile

Nella storia dei videogiochi, il 1989 e il 1990 sono ricordati come l’anno delle console portatili. Nintendo, SEGA e Atari si contendono il primato sul mercato, rispettivamente, con Game Boy, Game Gear e Lynx.

SEGA e Atari si concentrano sul fornire un prodotto potente e che possa garantire alte performance. Nintendo, invece prende una direzione diversa: Hiroshi Yamauchi, presidente dell’epoca e nipote di Fusajiro, fondatore di Nintendo, chiede che la nuova console debba essere accessibile a tutti: il suo costo non deve superare i 100 dollari.

Il progetto è affidato al team R&D1 diretto da Gunpei Yokoi, autorevole figura della compagnia grazie ai successi ottenuti con i Game & Watch e oggi ricordato come leggenda del mondo videoludico: ha inventato i controller con croce direzionale. Con Yokoi, Nintendo prende la scelta più naturale: la futura console portatile dovrà essere la naturale evoluzione dei Game & Watch.

Gunpei Yokoi
Gunpei Yokoi

Game & Watch

Nel 1980, Nintendo vende i primi Game & Watch, videogame portatili composti da uno schermo LCD e un microprocessore. Gunpei Yokoi ebbe l’intuizione dei Game & Watch guardando un annoiato business man giocare con la sua calcolatrice elettronica durante un viaggio in treno.

Cosa hanno in comune una calcolatrice elettronica e una console portatile? Uno schermo LCD. I Game & Watch permettono di giocare a un singolo titolo, solitamente molto semplice nel suo game design. In particolare, per abbassare i costi e necessità computazionali, i Game & Watch hanno uno sfondo di gioco statico disegnato sullo schermo LCD. L’idea di portare la tecnologia LCD nel mondo dei videogiochi è un vero successo: i Game & Watch vendono oltre 43 milioni di unità, più di Nintendo 64 e quasi il doppio rispetto alla prima Xbox e GameCube.

Game & Watch

L’evoluzione di un successo

Nel 1990, il Nintendo Research & Development No. 1 Department deve evolvere il concetto di Game & Watch lavorando su due punti: creare un’unica console che possa far giocare a più videogiochi e mantenere un basso prezzo di vendita.

Un progetto complicato, ma possibile grazie alle novità tecnologiche che rendono quell’anno il periodo perfetto per portare sul mercato nuove console portatili: il bassissimo costo dei display LCD, di cui il Giappone diviene il maggior fornitore grazie ad aziende come SHARP, che garantirà gli schermi alla nuova creatura di Nintendo.

Il Game Boy e il suo schermo LCD

Successo immediato

Dopo un travagliato sviluppo, non privo di veleni interni all’azienda, il Game Boy vede la luce con un obiettivo ben preciso: dare la possibilità ai videogiocatori di godersi i titoli del NES in portabilità; di conseguenza, il naturale candidato a primo gioco della storia del Game Boy sembra essere Super Mario. In realtà, i videogiochi disponibili all’uscita, in Giappone, sono quattro: Super Mario Land, Tetris, Alleyway e Yakuman. In Europa, invece i titoli disponibili al day one furono gli stessi a meno di Yakuman, che mai uscì dai confini nipponici.

Sorprendentemente, negli Stati Uniti il Game Boy esce con un titolo pre-installato: Tetris. La scelta è presa direttamente dal presidente di Nintendo America, Minoru Arakawa, che vede nel puzzle game per PC il titolo con maggior appeal per il pubblico statunitense. La sua intuizione è corretta: durante tutta la storia, il Game Boy venderà di più soprattutto in Nord America.

Purtroppo, Nintendo non ha mai fornito dati per ogni singola versione del Game Boy prodotta, ma possiamo comunque confermare che è stato un successo sin dal primo giorno. In tutta la sua storia, il Nintendo Game Boy (e Game Boy Color) ha venduto oltre 118 milioni di unità. Numeri straordinari che risultano ancora più sorprendenti se pensiamo che il Game Boy è la terza console più venduta di sempre (battuta solamente da PlayStation 2 e Nintendo DS), mentre i suoi rivali diretti, SEGA Game Gear e Atari Lynx, hanno venduto rispettivamente 10,5 e 3 milioni di unità.

Vendite del Game Boy per regione di vendita (in milioni)
Vendite del Game Boy per regione di vendita (in milioni)

Analisi di un successo tascabile

Come anticipato all’inizio di questo articolo sulla storia del Game Boy, la console portatile Nintendo era la peggiore in termini di prestazioni e qualità del suo schermo; di conseguenza, come ha fatto Nintendo a vincere la grande guerra del portable?

Il grande vantaggio di Game Gear e Atari Lynx rispetto al Game Boy era lo schermo LCD. I competitor Nintendo vantavano uno schermo LCD a colori, mentre la console Nintendo aveva un display in bianco e nero senza retroilluminazione. Questo malus garanti però al Game Boy tre plus che fecero la differenza: numero e durata delle batterie; dimensioni; prezzo di vendita.

Il Game Boy necessitava di 4 batterie per una durata di gioco di più di 10 ore; Game Gear e Lynx richiedeva 6 batterie e aveva una durata di meno di 5 ore.

Inoltre, il Game Boy entrava in una tasca dei jeans, poiché la dimensione della sua prima versione era 148 x 90 x 32 mm. Non si può dire lo stesso del Game Gear (209 x 111 x 37 mm) e soprattutto di Atari Lynx (273 × 108 × 38 mm). Questa feature ha reso il Game Boy una console tascabile, invece che portatile.

Game Boy, Game Gear e Atari Lynx: dimensioni a confronto
Game Boy, Game Gear e Atari Lynx: dimensioni a confronto

Lunga vita al Re

L’immediato successo della console garantì al Game Boy una vita lunga 14 anni con svariate versioni più o meno migliorate.

La prima è il Game Boy Play It Loud! (1995), che ottiene uno speaker, ma soprattutto aggiunge varie colorazioni alla scocca. La vera rivoluzione è il Game Boy Pocket (1996): le dimensioni sono ridotte, lo schermo migliorato, ma ancora in bianco e nero e soprattutto richiede solamente due batterie mini stilo. Inoltre, un’interessante versione denominata Game Boy Light (1997) viene resa disponibile nel solo Giappone: lo schermo è ora retroilluminato. Infine, la perfezione è raggiunta con il Game Boy Color (1998): lo schermo LCD è a colori e viene presentato in Occidente insieme al Re dei giochi tascabili: Pokémon Rosso/Blu.

Game Boy Color

I giochi più venduti su Game Boy

La grande forza di Nintendo sono sempre stati i titoli proprietari; in particolare, il Game Boy ha potuto attingere alla vasta libreria della storia Nintendo e in particolare di NES. Questo ha permesso alla tascabile di Nintendo di avere una libreria di oltre 1000 videogiochi.

La classifica dei giochi più venduti vede in testa sei nomi; in ordine di successo: Pokémon, Tetris, Super Mario, Donkey Kong, Kirby e The Legend of Zelda.

Videogiochi Game Boy
Videogiochi Game Boy

Pokémon su Game Boy

Tutto ebbe inizio il 27 febbraio 1996 con Pokémon Rosso e Verde. Il 15 ottobre dello stesso anno arriva, in Sol Levante, anche Pokémon Blu. Solo il 5 ottobre 1999 sarà il turno anche di noi europei.

Gli aneddoti sui Pokémon sono tantissimi così come il suo incredibile successo, che ha indubbiamente influenzato anche le vendite del Game Boy Color; del resto, Pokémon Blu, Giallo, Rosso e Verde hanno venduto oltre 46 milioni di copie in tutto il mondo.

Tra i grandi successi di mercato, vale la pena citare anche Pokémon Oro, Argento, Cristallo che hanno collezionato oltre 24 milioni di copie vendute, Pokémon Pinball con più di cinque e il mio spin-off preferito, Pokémon Trading Card Game con più di tre milioni di unità vendute.

Le versioni nipponiche di Pokémon Rosso e Verde

Il franchise, che su Game Boy ha totalizzato il numero record di 84.54 milioni di copie vendute tra tutti i titoli, deve molto del suo successo proprio alla console, piuttosto che il viceversa; infatti, quando uscirono Pokémon Rosso e Verde, il Game Boy era già entrato nella storia come la console più venduta di sempre e si era già affermata da quasi un decennio come un successo planetario. D’altro canto, il termine Pokémon è un’abbreviazione di Pocket Monsters, cioè mostri che sono potuti essere tascabili proprio grazie alla sua console nativa.

Tetris: dove tutto ha avuto inizio

Probabilmente il Game Boy sarebbe stata la miglior console tascabile del suo tempo e una delle migliori di tutti i tempi anche senza l’intuizione di Minoru Arakawa, ma non possiamo negare che Tetris abbia velocizzato il processo. Dopo Pokémon, Tetris è il videogioco con il maggior numero di copie vendute: 35 milioni! Numero mai raggiunto nemmeno dalla seconda generazione di Pokémon né dall’intera saga di Super Mario su Game Boy.

I successivi Tetris 2 e Tetris DX non hanno avuto i numeri assurdi del primo capitolo, ma insieme superano comunque le tre milioni di copie vendute.

Bundle Game Boy con Tetris
Bundle Game Boy con Tetris

Super Mario su Game Boy

Super Mario significa Nintendo e viceversa. Non stupisce dunque che l’idraulico italiano sia presente in questa speciale classifica. Inoltre, considerando che Super Mario non è mai stata soltanto una saga di platform, non deve nemmeno stupire che i giochi con milioni di vendite siano tanti e di diversa natura.

I titoli di Super Mario hanno collezionato nella storia di Game Boy vendite per 34.39 milioni di unità. Il più venduto è Super Mario Land, mentre il secondo è Super Mario Land 2: 6 Golden Coins con, rispettivamente, 18 e 11 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Tutti gli altri titoli che superano il milione di copie si assestano, ognuno, intorno alle 5 milioni di unità vendute: Dr. Mario; Wario Land: Super Mario Land 3 e Super Mario Bros. Deluxe. Fanalino di coda con poco meno di 2 milioni: Mario Tennis.

Super Mario Land

Donkey Kong di Rare

La storia di Donkey Kong è alquanto bizzarra e richiederebbe svariati articoli. La serie dello scimmione nipponico ha dato il via alle grandi IP di Nintendo, ma ha subito anche bruschi stop. Il Game Boy ha avuto il pregio di rilanciare la serie, anche grazie all’incredibile lavoro svolto da Rare tra il 1994 e il 1997.

Donkey Kong ha totalizzato vendite per 12.55 milioni di unità grazie a giochi di qualità eccelsa. Il più venduto con quasi 4 milioni di unità vendute è: Donkey Kong Land; segue il porting della versione arcade, denominato semplicemente Donkey Kong con 3 milioni. Inoltre, hanno superato il milione di copie vendute anche Donkey Kong Land 2 (2 milioni), la remastered del titolo per Super Nintendo: Donkey Kong Country (2 milioni) e Donkey Kong Land 3 (1 milione).

Donkey Kong Land nipponico

Kirby su Game Boy

Noi europei non abbiamo mai veramente capito la serie della palletta rosa. Del resto, gli oscuri nemici di Kirby sono tra le cose più inquietanti che io abbia mai visto. I giapponesi, invece lo adorano e i dati lo dimostrano: Kirby ha venduto complessivamente, su Game Boy, 10.91 milioni di copie superando anche l’iconica saga di The Legend of Zelda.

Kirby’s Dream Land ha ottenuto il record di 5 milioni di copie vendute, mentre il sequel si è fermato a poco più di 2 milioni di unità. Completano l’opera gli spin-off Kirby’s Pinball Land con 2 milioni e Kirby Tilt ‘n’ Tumble (mai arrivato in Europa) con un milione di unità vendute.

Kirby’s Dream Land

The Legend of Zelda su Game Boy

La saga di Link non ha ricevuto molte trasposizioni per Game Boy. Il motivo lo si può trovare nei due capolavori degli anni ’90 per Nintendo 64: Ocarina of Time e Majora’s Mask. Questi due titoli hanno oberato di lavoro i team di sviluppo, diminuendo la potenza di fuoco creativa per la versione tascabile. Nello specifico, The Legend of Zelda: Link’s Awakening è divenuto un videogioco con una propria trama solamente quando Takashi Tezuka prese la direzione del titolo; infatti, l’idea originale era di portare su Game Boy il capolavoro di SNES: A Link to the Past.

The Legend of Zelda: Oracle of Seasons

The Legend of Zelda: Link’s Awakening è ancora oggi un gioco molto apprezzato dagli utenti e dalla critica. Ha venduto 3.8 milioni di copie a cui bisogna aggiungere le ulteriori due milioni di unità vendute dalla sua versione a colori, The Legend of Zelda: Link’s Awakening DX del 1998.

Paradossalmente, i meno brillanti The Legend of Zelda: Oracle of Seasons e Oracle of Ages sono i videogiochi della saga di Link che hanno venduto più di tutti su Game Boy (Color): 3.9 milioni di copie.

Categorie
Tecnologie

Tennis For Two: milestone della storia del videogioco

Il 18 ottobre 1958 “usciva” Tennis For Two, considerato il primo videogioco mai sviluppato. In realtà ci sono molte discussioni a riguardo la storia del settore, un po’ perché negli anni ‘50 il videogioco era un concetto diffuso più in ambito accademico (senza considerare quei progetti scritti su carta e mai realizzati), un po’ perché quello che veniva definito “videogioco” all’epoca non era lontanamente paragonabile, per meccaniche e forme, ai prodotti moderni. Per questo motivo, in base a quali criteri vengono scelti, Tennis For Two non può essere indicato in maniera univoca e universalmente riconosciuta come il primo videogioco, ma senza ombra di dubbio è uno dei primissimi mai sviluppati.

Tutta la potenza di calcolo (e tutto lo spazio) che serviva a cavallo fra anni ’40 e ’50 per poter supportare lo sviluppo di un videogioco come OXO.

Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, a livello universitario, o comunque lontano dagli occhi del pubblico, c’erano molti esperimenti che miravano a mostrare come un computer potesse “giocare” a qualcosa, seppur di semplice. In questo senso, ancora prima di Tennis For Two, possiamo trovare interazioni fra uomo e macchina che riprendono giochi con dinamiche calcolabili a livello matematico: nim o tris, rispettivamente trasposti nel Nimrod e in OXO, che contendono a Tennis For Two il titolo di “primo videogioco”. La componente ludica era decisamente limitata, ma appunto lo scopo non era quello di essere divertenti né di intrattenere. 

Tennis For Two: 63 anni portati bene

Tennis For Two era invece un prodotto di per sé molto più moderno, almeno vagamente affiancabile a quelli che conosciamo tutt’oggi: c’era uno schermo, c’erano delle manopole che funzionavano come joystick, era multiplayer e, a differenza dei suoi “predecessori”, era stato concepito proprio per intrattenere. È stato sviluppato nel giro di pochi giorni da William Higinbotham, che di mestiere faceva il fisico e non il game designer: durante la sua carriera ha partecipato al progetto “Manhattan”, riferito agli studi sulla bomba atomica, e ha brevettato una serie di invenzioni legate al mondo della fisica. Nulla che facesse intendere a una carriera da game designer.

William Higinbotham aveva sfruttato un oscilloscopio, uno degli strumenti usati nel suo laboratorio, ricreando un campo da tennis visto di lato. Con delle manopole si poteva far rimbalzare la palla dall’altro lato della rete, e dopo una serie di aggiornamenti si poteva anche agire sui parametri che ne definivano la parabola. Non aveva quindi creato una console o un sistema ad hoc, ma si era limitato a prendere oggetti già a disposizione. Li ha ricombinandoti e ricontestualizzati, in modo da realizzare qualcosa di totalmente nuovo.

Tennis For Two: la linea orizzontale è il campo di gioco, quella verticale è la rete.

Da esperimento a mezzo di intrattenimento

Proprio in questo momento la storia del settore cambia, soprattutto a livello culturale. Se prima il videogioco era considerato alla stregua di un esperimento elettronico che esaltava l’interazione uomo-macchina, William Higinbotham gli ha dato una funzione di intrattenimento, accessibile a un pubblico più ampio: era infatti stato posizionato all’interno del Brookhaven National Laboratory di Long Island (New York), con lo scopo di intrattenere i visitatori. Dopotutto non esisteva un mercato del videogioco, non c’erano negozi o strutture specializzate in questo genere di prodotti, mentre nelle sale giochi dell’epoca spopolavano soprattutto flipper e altre attività meccaniche. Bisognava anche considerare un ulteriore elemento: a quei tempi un computer che supportava un semplice prodotto videoludico occupava un’intera stanza, di conseguenza una commercializzazione massiccia necessitava di spazi enormi.

Una volta iniziato a concepire il videogioco come intrattenimento, sono passati una decina d’anni prima di vedere una diffusione capillare sul territorio del nuovo medium. Con il progresso tecnologico, computer che prima occupavano una stanza adesso potevano essere inglobati all’interno dei primi cabinati, che approdavano in sala giochi fra anni ‘70 e ‘80. Oltre ai videogiochi in sé, che di anno in anno si perfezionavano sempre di più tecnologicamente e graficamente aggiungendo qualche elemento rivoluzionario per l’epoca, si lavorava anche sulle componenti con i quali l’utente interagiva: potevano essere joystick, home console e relative cartucce. La ricerca non si ferma nemmeno oggi, visto che assistiamo a una continua pubblicazione di nuove periferiche che risultano essere sempre più ergonomiche ed efficienti.

Sviluppare videogiochi quando non esistevano i videogiochi

Vista la diffusione e il successo crescente in sala giochi, e trattandosi ormai di un fenomeno aperto a tutti, è aumentato esponenzialmente il numero di titoli disponibili sul mercato, portando conseguentemente un incrementato della concorrenza. Molte aziende, che inizialmente si occupavano di altri business, hanno riconvertito l’attività e sono entrate nel settore videoludico intravedendone le future potenzialità di guadagno: tra queste c’era anche Nintendo, creata a fine ‘800 (ben prima del Nimrod, OXO e Tennis For Two), che prima di sviluppare videogames si occupava di carte da gioco hanafuda, ma anche di taxi, riso, aspirapolveri e love hotel.

William Higinbotham è scomparso nel 1994, un mese prima dell’uscita della PlayStation in Giappone, ma ha potuto vedere cosa è diventato il mercato del videogioco. In quei primi 36 anni che sono passati dal suo Tennis For Two, ne ha constatati molti di progressi: ha assistito a Pong, Pac-Man, Super Mario, e al Game Boy, vivendo quelle che sono le prime quattro generazioni di console e l’inizio della quinta. E pensare che tutto quanto è partito da un oscilloscopio modificato con lo scopo di intrattenere

Categorie
Tecnologie

Ogni anno è l’anno della VR

Ogni anno è l’anno della VR. Puntualmente, ogni dodici mesi, ripetiamo questa stessa frase, ma poi non lo è mai davvero. La realtà virtuale è indiscutibilmente il futuro (come lo sarà nel breve l’augmented reality), ma forse per ora siamo troppo in anticipo con i tempi, un po’ perché l’utente medio si vede ancora con un joystick in mano, un po’ perché per costi è qualcosa che difficilmente può essere alla portata di tutti i giocatori, in base a quello che offre al momento. 

Finora è mancata la killer app, quel videogioco che spinge ad acquistare la console, o il visore nel caso specifico. Non che il mondo della VR non abbia sviluppato prodotti di qualità nel frattempo, ma non c’è ancora stato nulla di così eclatante e mainstream da contribuire alla diffusione dei visori, né tantomeno spingere i grandi publisher a investire pesantemente nel settore: le maggiori IP ad oggi sono da giocare joystick alla mano. 

Half Life Alyx, e poi?

Half Life Alyx doveva in questo senso essere un apripista nel settore VR anche per altre grandi compagnie, ma un po’ per il lancio dei giochi su next-gen, un po’ perché in periodo di pandemia, forse è consigliabile andare sul sicuro piuttosto che sperimentare qualcosa di nuovo. In ogni caso, magari qualche big dell’industria è già al lavoro su qualcosa da portare in realtà virtuale, solo che ancora non lo sappiamo.

Al contempo è anche difficile a questo punto, con miliardi di gamer (PC, console e mobile) abituati al “classico” videogioco, diffondere un nuovo modo di vivere l’esperienza ludica dove si è parte integrante dell’opera, un po’ come un pilota di moto che, una volta in sella, è parte del veicolo e contribuisce con i propri movimenti all’aerodinamica. Si tratterebbe di una svolta epocale, ancora più di quando si è passati dalle sale giochi alle home console: all’epoca il fenomeno gaming era fin troppo poco diffuso e di nicchia. 

Giochi AAA solo per PlayStation, Xbox e Nintendo

Oltre al lato ludico dei videogiochi, bisogna anche parlare di costi: una PlayStation o una Xbox di ultima generazione costano 500 euro, una Nintendo Switch circa 300 euro. A fronte di una spesa del genere, abbiamo accesso a migliaia di videogiochi AAA (e anche indipendenti). Viceversa, se parliamo di realtà virtuale non abbiamo una libreria così vasta da fornirci la convinzione di acquistare un visore piuttosto che una console più mainstream.

Forse in futuro quando potremo avere tecnologie top a costi decisamente inferiori, sarà possibile avere una fruizione più facilitata ed economica della realtà virtuale. Oltre ai costi del visore parlo anche delle tute aptiche, che permettono di poter inserire le sensazioni tattili nel videogioco, o anche un tappeto omnidirezionale, per poter camminare e non essere più limitati alle misure di una stanza.

Qualche acuto della VR

Ci sono già le tecnologie adatte, e sul web è possibile vedere com’è effettivamente giocare correndo (sul posto) o sentirsi toccati da qualcuno, ma al momento hanno costi non accessibili al gamer medio. Quando però nel futuro sarà più facile mettere mano su visori, tute e tappetini, allora potremo avere un’evoluzione interessante della VR, con i (poveri) sviluppatori che dovranno tenere in considerazione ancora più elementi in ambito di game e level design. 

Ma non è solo una questione di costi, perché poi occorre proprio entrare nelmood VR”. Se con PlayStation, Microsoft e Nintendo basta prendere in mano un joystick, quando cerchiamo un’esperienza più immersiva allora dobbiamo sapere che è qualcosa di molto più impegnativo, fra “vestizione” ed eventualmente la ri-calibrazione (se lo usano più persone) dei vari sensori.

Cosa manca alla VR

Il principale scoglio della VR è ora quello di superare quella iniziale diffidenza dei giocatori e quell’indifferenza dei grandi publisher, che non hanno ancora seriamente puntato sulla realtà virtuale. Ho partecipato ad alcune fiere di settore come “addetto alla VR”, e quando proponevo alle persone di provare il visore c’era anche un buon numero di utenti terrorizzati. A livello di publisher, lo scorso anno Sony ha riferito di aver venduto circa 5 milioni di PSVR e 115 milioni di PlayStation 4: praticamente quattro giocatori su 100. Ancora troppo poco. 

Il secondo ostacolo invece è dato dai limiti tecnologici, perché un’esperienza veramente coinvolgente e “comprensibile a tutti” necessita di tanti soldi (qui un esempio di alcuni visori consigliati). Non parliamo di sviluppo, perché (teoricamente) è sempre possibile trovare dei finanziatori, ma di investimenti importanti che deve fare l’utente.

In futuro probabilmente sarà molto più normale vivere un videogioco dall’interno, ma anche un film o una serie tv. Potremo forse sentire fisicamente le sensazioni che i designer hanno pensato per noi ed essere indubbiamente più protagonisti dell’opera. Nel frattempo, in attesa di essere noi stessi parte del videogame, possiamo usare tutti i vantaggi della VR e dell’AR in combinazione, per arricchire quella che è l’esperienza ludica del momento: quanto sarebbe bello avere a portata di mano un visore e una pista di kart, e combinarli assieme?

Categorie
Tecnologie

Stadia vs GeForce Now, architetture e performance a confronto

Google Stadia e NVIDIA GeForce Now sono attualmente le uniche due piattaforme a disposizione degli italiani per poter giocare in cloud. Un utente statunitense ha messo a confronto queste due architetture profondamente diverse attraverso dei test sulla latenza e prove empiriche.

Ho trovato i risultati esattamente in linea con le mie esperienze di cloud gaming e quindi penso che questi risultati possano essere utili a tanti videogiocatori italiani che vogliano usare le piattaforme in cloud per le proprie sessioni di gioco.

Cos’è il cloud gaming

Il cloud gaming è la capacità di giocare a un videogioco con un hardware remoto. In altre parole, non sarà il tuo computer, o la tua console nel caso di Nintendo Switch, a dover installare e far partire il videogame, ma una macchina che riceviamo in “noleggio”.

Il gioco sarà installato ed eseguito dalla macchina remota e gli input provenienti dal nostro controller saranno inviati sulla piattaforma in cloud, che li eseguirà e ci restituirà come risultato il videogame sul nostro schermo, con l’azione appena eseguita.

Non servirà nient’altro che un device in cui installare l’applicazione, uno schermo e, soprattutto, una connessione da almeno 50 Mbps che permetta un trasferimento sufficientemente veloci dei dati.

Infografica del cloud gaming.

Ci sono molti vantaggi nell’usare una piattaforma in cloud:

  • non è necessario scaricare, installare o aggiornare un gioco.
  • nessun problema di spazio.
  • Non è necessario disporre di un computer potente. Si può giocare quasi ovunque: computer, telefono, tablet e TV.

Ovviamente, ci sono anche dei lati negativi, strettamente legati alla connessione:

  • è necessaria una buona connessione Internet.
  • Impossibile giocare offline.
  • Ritardo di input superiore a quello di un PC locale.

La tecnologia in cloud è nota da più di una decade ed è usata da svariati anni in ambito lavorativo. Tra i media, i servizi di streaming video come Netflix hanno permesso a molti di capire il concetto, ma solo da pochi anni si è vista la diffusione del cloud gaming, poiché ancora non ampiamente supportata da infrastrutture dignitose, soprattutto nel Bel Paese.

La differenza principale tra gli streaming video e il cloud gaming risiede nella latenza. Se questa non è un problema in servizi come Netflix e Amazon Prime Video, un’alta latenza può rendere totalmente ingiocabile un videogame. Solitamente conosciuto come input lag, questo tipo di latenza causa un ritardo tra l’invio del comando, la sua esecuzione e la ricezione a video dei comandi, rendendo di fatto impossibile proseguire la sessione di gioco.

Le previsioni di valore del cloud gaming.

Nvidia GeForce Now

Nvidia GeForce Now è il servizio di cloud gaming lanciato da Nvidia a febbraio 2020. Dopo più di sette anni di sviluppo e beta test, il servizio è ora disponibile per tutti.

A differenza di Stadia, GeForce Now non è una piattaforma a sé stante. È piuttosto un modo per riprodurre in streaming i giochi che già in possesso nella propria libreria personale come Steam, Uplay, Epic Games Store e si spera presto anche GOG. Per giocare basta collegare il proprio account a GeForce Now . Non tutti i giochi sono disponibili, ma la piattaforma offre più di 600 titoli ed è in costante aggiornamento.

Il servizio si basa su dei server speciali denominati datacenter, a cui bisogna collegarsi per ricevere in prestito una macchina. Per l’Europa, Nvidia ha attualmente previsto sei datacenter. Per quanto riguarda la connessione, è richiesto (ottimisticamente) almeno 15 Mbps per una risoluzione 720p a 60 fps e 25 Mbps per un Full HD a 1080p.

I datacenter di GeForce NOW

Come funziona GeForce NOW

Nvidia GeForce Now è in grado di riprodurre in streaming i giochi già in possesso. Per questo, la piattaforma ha una serie di server Windows con i maggiori store digitali già installati e i giochi già distribuiti. Se ad esempio, volete giocare ad Assassin’s Creed Valhalla, Nvidia utilizzerà un server Windows con Uplay installato e il gioco già scaricato. In altre parole, per giocare bisogna aspettare solo il normale caricamento del gioco.

Architettura di GeForce NOW

Una volta in game, ogni volta che si preme un pulsante sul controller, esso sarà inviato dal tuo computer verso il server nel datacenter Nvidia. L’azione verrà eseguita sul gioco remoto e sarà mostrata sullo schermo di casa.

Stadia

Stadia è stata annunciata da Google nel 2018. A differenza di Nvidia GeForce Now, Stadia è una nuova piattaforma a tutti gli effetti, perché i giochi sono progettati e sviluppati per il cloud gaming, con un vero e proprio porting. Anche per questo motivo, Stadia ha un proprio catalogo di giochi in cui si potranno i videogame per la sola piattaforma in cloud, esattamente come accade negli store digitali.

La buona notizia è che i giochi sono progettati per essere trasmessi in cloud. I publisher e gli sviluppatori devono integrare il gioco su Stadia e assicurarsi che tutto funzioni perfettamente sulla piattaforma. Proprio per questo motivo, ad esempio, Cyberpunk 2077 funziona così bene su Stadia, nonostante sia una versione molto simile a quelle per console.

Non esiste un elenco preciso di server Stadia, ma l’idea è di essere il più vicino possibile ai giocatori per ridurre al minimo la latenza e il numero di nodi. Come è facile aspettarsi, Google ha un numero spaventoso di nodi. Parliamo di più di 7500 edge node in tutto il mondo già utilizzati per memorizzare nella cache i contenuti per altri servizi come Youtube o Google Play, e di conseguenza anche Stadia.

Edge node di Stadia

Come funziona Stadia

Poiché Stadia è una nuova piattaforma, l’infrastruttura è completamente diversa da Nvidia. I giochi sono eseguiti su server Linux e sono sviluppati per funzionare solamente su Stadia. Quando si avvia un gioco, si ottiene un’istanza Linux con una build già disponibile e aggiornata.

Architettura di Google Stadia

Inoltre, il controller ufficiale di Google Stadia non è collegato al device di gioco, bensì direttamente al router. Di conseguenza, quando premete un pulsante sul joypad, l’input viene inviato direttamente al router wifi, rimuovendo un hop aggiuntivo. L’azione verrà eseguita sul server Stadia, quindi il video verrà riprodotto in streaming sul proprio device.

Per quanto riguarda la connessione, avrai bisogno, ottimisticamente, di almeno:

  • 10 Mbps per 720p a 60 fps.
  • 35 Mbps per il 4K a 60 fps.

Benchmark del cloud gaming

Per questo benchmark, è stato utilizzato:

  • Computer: MacBook Pro (13 pollici, 2016, configurazione di base).
  • Rete: Google Wifi a 5 Ghz e dispositivo prioritario assegnato all’MBP.
  • Internet speedtest (su fast.com): 400 Mbps in download, 30 Mbps in upload, latenza 6 ms.

Per Nvidia GeForce Now, è stata usata la seguente configurazione:

  • Controller Nvidia Shield in Bluetooth.
  • Abbonamento Founders.

E per Stadia:

  • Controller Stadia in Wifi.
  • Abbonamento Stadia Pro.

Tempo di avvio

Primo test, controlliamo quanto tempo occorre per avviare il gioco su entrambe le piattaforme. Il tester (di cui potete vedere il video sotto) ha registrato il suo schermo e ha avviato il cronometro nel momento in cui ha rilasciato il clic del mouse.

Come si può notare, il vincitore è Stadia con 21 secondi di attesa. Nvidia è molto indietro e ha bisogno del triplo del tempo per iniziare con il suo minuto di attesa.

Il motivo è abbastanza semplice: GeForce Now è solo un wrapper di streaming attorno a Steam. Utilizza un server Windows, deve avviare Steam e quindi lanciare il gioco. Su Stadia, il gioco si avvia direttamente su un server Linux.

Input Lag

Abbiamo capito che se l’input lag è troppo alto, l’esperienza di gioco è rovinata. Su entrambe le piattaforme, abbiamo un server che esegue i file di gioco. Di conseguenza, più il server è vicino, minore è l’input lag. Esattamente come avviene con qualsiasi server di gioco.

Wireshark è uno strumento per “ascoltare” e catturare il traffico che passa attraverso la scheda di rete. Durante il gioco, il tester ha analizzato i pacchetti di rete per trovare l’indirizzo IP del server remoto. Il cloud gaming ha un enorme consumo di larghezza di banda. Non è troppo difficile trovare l’indirizzo del server nell’elenco dei pacchetti.

Per Nvidia, l’indirizzo IP del server remoto è 24.51.19.228 e la sua porta remota utilizzata per inviare il flusso video è 18671. Per Stadia l’indirizzo IP remoto è 136.112.42.157 e la porta remota è 44700.

Conoscendo sia gli indirizzi IP che le porte remote, è possibile verificare qual è la latenza tra il computer e il server remoto. Per farlo, è stato utilizzato il comando traceroute sui pacchetti UDP. Come mostra l’output, ci sono 10 salti tra il device e il server Nvidia. Il tempo necessario per inviare il comando di input, cioè l’azione sul controller, e ricevere la risposta dal server, cioè il risultati video, è di 30 ms. Per Stadia, il server è più vicino, solo 8 hop e un tempo di 15 ms.

Ancora una volta, Stadia vince con 2 salti in meno. La latenza di Nvidia è 2 volte superiore a quella di Stadia.

Importanza della latenza

Ma in che modo questa latenza influisce sul gioco? Per verificarlo nel gioco, sono state registrate due piccole sequenze, in cui si vede il personaggio saltare. Per sapere quando è stato premuto il pulsante del controller, è stato registrato il suono della stanza.

Ovviamente non è il metodo più accurato e il lo schermo è stato registrato a 60 fps (16,67 ms per fotogramma). Però, l’ambiente è lo stesso per entrambe le piattaforme, quindi dovrebbe mostrare alcuni risultati interessanti.

Il primo picco indica che il pulsante è stato premuto e il secondo è quando il pulsante viene rilasciato. Poiché l’azione inizia quando si preme il pulsante del controller, è stato avviato il cronometro in quel momento.

Ancora una volta, vince Google Stadia. Solo 119 ms tra il momento in cui è stato premuto il pulsante e quando il personaggio ha iniziato a muoversi. Per Nvidia, questo lasso di tempo è il 50% in più, 182 ms. Essendo maggiormente vicino al server Stadia, il risultato era abbastanza scontato. Inoltre, per Stadia il controller è connesso al router in Wifi, mentre per Nvidia il controller è connesso al computer tramite Bluetooth, quindi un ulteriore salto in più.

Risultati

I risultati tecnici sembrano favorire nettamente Google Stadia rispetto a Nvidia GeForce Now, ma bisogna tenere conto dell’enorme differenza tra i titoli disponibili dai due servizi.

Giochi disponibili

Attualmente, GeForce NOW possiede oltre 700 titoli nel suo store, mentre Stadia permette di giocare a circa 160 videogiochi. Nonostante Nvidia abbia avuto alcune divergenze con i publisher in merito alla presenza dei loro titoli sul servizio in cloud, la quantità di videogame a disposizione è di gran lunga superiore a qualsiasi piattaforma esistente.

Di conseguenza, la scelta del servizio passa sicuramente dai videogiochi che volete provare ed è molto più probabile trovarli su GeForce Now piuttosto che Stadia.

Game Quality

Stadia supporta il 4K, mentre GeForce NOW si ferma a 1080p. Però, GeForce NOW permette l’attivazione della tecnologia proprietaria Ray-Tracing (RTX) su molti più titoli rispetto a Stadia, che comunque non è escluso possa riceverla su alcuni titoli.

Tempo di avvio

Stadia è tre volte più veloce di Nvidia nella fase di avvio.

Tempo di avvio

Input Lag

Per quanto riguarda l’input lag, Stadia si comporta meglio di GeForce NOW grazie a una progettazione del ccontroller direttamente connesso al router in Wifi e un’infrastruttura che si basa sulla potenza di fuoco di Google. Stadia ha valori migliori di circa il 30% rispetto a GeForce NOW, anche se non sempre ve ne accorgerete perché la qualità del servizio Nvidia è comunque alto.

Latenza e input lag

Conclusione

Esattamente come abbiamo già visto per il focus su Cyberpunk 2077 in cloud, la decisione finale spetta a voi in base alle vostre esigenze. Se avete una connessione di alto profilo con valori in download a tre cifre, non avrete praticamente mai problemi tecnici. Di conseguenza, la scelta dipenderà da:

  • disponibilità del titolo sulla piattaforma.
  • Qualità video, cioè 4K vs 1080p con RTX. Non sempre una scelta scontata e che dipende molto dallo schermo in cui giocate.
  • Costo. Attualmente Stadia ha un prezzo di 10 euro mensili per i servizi Pro (che supporta il 4K), mentre GeForce NOW offre attualmente un abbonamento Founders (che supporta l’RTX) da 27,45 euro ogni sei mesi (poco meno di 5 euro al mese).

Nel caso in cui la vostra connessione sia vicina ai requisiti minimi, mi sento di consigliarvi Google Stadia che offre una capacità tecnica superiore, soprattutto per quanto riguarda l’input lag grazie a un controller innovativo.

Il joypad di Stadia ha un costo di 70 euro (o poco meno con le numerose offerte), ma il servizio Google rimane comunque tecnicamente superiore a quello Nvidia anche senza controller proprietario, perché il colosso americano ha una maggiore potenza di fuoco e un’architettura in cloud unica.

In attesa della nuova generazione, sto provando entrambi i servizi e posso dirvi che non sono per nulla mutuamente esclusivi. Infatti, tra offerte di Steam e possibilità di giocare in 4K, uso in egual misura sia Stadia che GeForce NOW.

E voi, invece quale servizio in cloud vi convince di più? Fatecelo sapere nei commenti.

Categorie
Tecnologie

L’importanza dell’Intelligenza Artificiale nel gameplay dei videogiochi

L’Intelligenza Artificiale, comunemente chiamata IA, è una delle componenti fondamentali nei videogiochi ed è capace di fare la differenza fra un titolo eccezionale e uno solamente mediocre. Qualunque videogioco, che sia un GDR piuttosto che un gioco di calcio, un action game oppure un FPS, necessita di un’IA di alto livello per poter essere considerato un valido titolo e garantire immersività al mondo di gioco. L’apporto dell’Intelligenza Artificiale nel gameplay è dunque fondamentale.

Di seguito elencherò due titoli in cui l’intelligenza artificiale svolge un ruolo importante. Il primo ha fortemente giovato di un’ottima IA, mentre l’altro ne ha fatto un problema rilevante del proprio gameplay. Inoltre, spiegherò tramite quali elementi i giochi in questione hanno patito di una pessima IA, subendone disastrose conseguenze in termini di successo e giocabilità, o goduto di una sua ottima implementazione.

Gothic 3: Il lato oscuro dell’Intelligenza Artificiale nel gameplay

In quanto a spettacolarità grafica, Gothic 3 (2006) ha poco da invidiare ai titoli dell’epoca.

Gothic 3 è uno degli esempi, più lampanti, di quanto un gioco con dinamiche all’avanguardia e con enormi potenzialità possa essere rovinato da una pessima IA.

Il gioco, realizzato da Piranha Bytes e distribuito da JoWooD, è stato uno di quelli che ho maggiormente apprezzato fra i GDR dell’epoca per la sua innovativa capacità di rendere il giocatore fautore del proprio destino e di quello degli altri. Infatti, nei giochi dell’epoca era comune essere “schiavi” di missioni principali pre-impostate e la libertà di scelta era praticamente inesistente.

Gli ingredienti per un gioco di successo c’erano tutti ed esso si poneva come principale concorrente di The Elder Scrolls: Oblivion, quest’ultimo poi divenuto pietra miliare del genere GDR . Purtroppo, Gothic 3 ben presto invece si rivelò una catastrofe.

Gothic 3 e l’IA nel gameplay

L’imbarazzante livello di “Intelligenza” dei personaggi non giocanti era già sufficiente a fare innervosire il più paziente dei gamer. A questo è necessario aggiungere:

  • Sistema di combattimento fra i meno stimolanti e più semplicistici del panorama videoludico;
  • Elevatissima difficoltà nell’affrontare anche il più debole dei lupi;
  • Poca coerenza nel livello della sfida (era spesso più semplice sconfiggere un Troll rispetto ad un comune Lupo);
  • Inutilità degli alleati (ad esempio, armando anche al meglio gli schiavi per liberare un villaggio, ci si ritrovava a dover combattere da soli a causa della loro rapida morte);
  • Mancanza di coinvolgimento degli alleati. Anche diventando il capo di una fazione, non c’era alcuna possibilità di farsi aiutare ad attaccare un gruppo di nemici o un villaggio;
  • Scarso livellamento del giocatore rispetto gli avversari. Da massimo esperto di una disciplina, si può essere sconfitti da un qualunque lupo (sì, ancora lui…) come ai primi livelli.

Peccato, perché il titolo era davvero intrigante, con una gran varietà di missioni principali e secondarie davvero ampia, oltre che un mondo di gioco vasto e variegato, caratterizzato da un’ampia diversità di clima metereologico, flora e fauna.

Mostriamo adesso anche il lato “buono” dell’IA, quando ben realizzata.

La Terra di Mezzo: L’ombra della guerra: il lato Lucente dell’IA

Middle-earth: Shadow of War (da qui in poi solo Shadow of War) è un titolo sviluppato da Monolith e distribuito da Warner Bros.

Al contrario di Gothic 3, questo titolo è uno degli esempi di realizzazione esemplare dell’IA e del suo apporto determinante al gameplay grazie al sistema messo in piedi dall’evocativo nome Nemesis.

Tipico Nemico Stile Nemesi
Un esempio di “simpatico” nemico stile Nemesi (riconoscibile dal nome unico).

Il sistema Nemesi può essere considerato, a tutti gli effetti, la colonna portante e il principale elemento di innovazione in Shadow of War. Tutto il gampelay ruota intorno al complesso sistema di relazioni fra Uruk, Olog-Hai e bestie, fra di loro e rispetto al giocatore stesso.

Impressionante come le relazioni degli avversari non siano solo verso il giocatore ma anche fra loro stessi, dove non è raro vedere Uruk tradirsi a vicenda per il comando e il potere, rendendo il gioco dinamico e in parte indipendente dal solo giocatore.

Questo fa sembrare “vivente” il mondo di gioco, lo rende maggiormente realistico aumentandone di molto l’attrattiva, a differenza del classico gioco in cui la storia si dipana solo nei luoghi che il giocatore visita, rendendo sia gli Open World, sia i giochi divisi in aree ugualmente statici e poco credibili. Infatti, nell’Ombra della Guerra il quotidiano e le relazioni evolvono e la vita va avanti anche dove noi non siamo presenti.

Gli Orchi e le Tribù nel Sistema Nemesi

Tribù degli Orchi in SIstema Nemesi
Le tribù e le relative “sembianze” fisiche degli orchi.

Esistono sette tribù di base nel gioco, ognuna con le proprie caratteristiche. Alle sette principali dell’immagine se ne aggiungono altre due, introdotte successivamente con due specifici DLC. Le tribù sono:

  • Terrore;
  • Macchine;
  • Predoni;
  • Oscuri;
  • Selvaggi;
  • Mistici;
  • Guerrafondai;
  • Fuorilegge (aggiunta successivamente tramite DLC);
  • Massacro (aggiunta successivamente tramite DLC).

Ogni tribù ha la propria serie di debolezze e punti di forza, che andranno a sommarsi a quelle già presenti e determinate dalle Classi di appartenenza di ogni avversario (elencate in seguito).

Insieme alle mere caratteristiche da combattimento, ogni classe porta con sé anche dei tratti comportamentali e modi di agire ben definiti, che ogni avversario erediterà. Lo stile di combattimento sarà influenzato anche dalla Tribù, oltre che dalla classe, determinando mix imprevedibili di scontri in base ai cocktail di caratteristiche uniche di ogni avversario.

Quanto detto implica ad esempio che un Uruk appartenente alla Tribù degli Oscuri tenderà a farci imboscate e attaccarci nei momenti meno opportuni, come durante uno scontro con un altro Capitano mentre magari abbiamo la salute bassa e siamo in difficoltà.

Le Classi nel Sistema Nemesi

Esempio di Classe con punti di forza e debolezza (i secondi assenti in quanto è necessario reperire info per conoscerli).

Tassello importante dell’IA di Middle-earth: Shadow of War sono le Classi Base e le Classi Avanzate.

Ogni Classe Base porta con sé, così come le Tribù, determinati punti di forza e di debolezza, insieme ad altri tratti comportamentali e stili di combattimento, che si sommeranno a quelli determinati dalla Tribù.

Può essere comune ad esempio vedere gli Arcieri piazzati in posizioni sopraelevate vantaggiose per gli attacchi a distanza, soprattutto nei forti o negli avamposti. Al contrario un Difensore sarà la prima unità che troverete a difesa dei cancelli (essendo dotati di scudo e più grandi e forti della media).

Inoltre, salendo di grado, i nemici acquisiranno una Classe Avanzata, ottenendo ulteriori bonus. La Classe Avanzata dovrà essere fra quelle compatibili alla Classe Base. Infatti, non potrete mai vedere un Orco dotato di scudo acquisire caratteristiche associate a un Assassino.

A questo punto comincia a delinearsi come l’IA dia un contributo essenziale a definire un gameplay fresco, di successo, tecnicamente eccelso e credibile, definendo un’esperienza di gioco ad altissimi livelli.

Descritta per ultima, ma non meno importante, è la componente relazionale di Uruk e Olog-Hai nei confronti del personaggio. Per semplicità chiamerò questa componente “Relazionale”.

La componente Relazionale nel Sistema Nemesi

Ecco un Uruk sopravvissuto a ben tre incontri (con evidenti conseguenze fisiche).

La componente “Relazionale” determina in modo impredicibile come reagiscono Uruk Capitani e Comandanti nei nostri confronti.

Sia che siano alleati o nemici, in seguito all’incontro con il nostro personaggio, gli Uruk “importanti” (Capitani o Comandanti) possono reagire in modo inaspettato. Questo può significare principalmente che verremo traditi o che il nemico in questione “sconfigga la morte”, ripresentandosi anche se apparentemente sconfitto e ucciso.

Ogni reazione è rara e non può presentarsi più di tre volte per nemico. Ogni volta che si viene traditi o che un Uruk torna dalla morte, diminuisce la probabilità che la volta successiva possa ricapitare. Inoltre, per ogni “reazione” il nemico in questione assume delle caratteristiche particolari, a livello di abilità ed aspetto fisico, sviluppando spesso vere e proprie ossessioni verso il personaggio principale.

L’aspetto “Relazionale” è senz’altro la famosa ciliegina sulla torta a livello di gameplay, in quanto introduce ulteriore incertezza e realismo al mondo di gioco in cui si è immersi.

Immaginate un Capitano come vostra guardia del corpo. Lo fate salire di livello, lo potenziate magari con un’arma infuocata e gli fate acquisire caratteristiche epiche come il lanciare bombe e piazzare trappole. A un certo punto, potrebbe tradirvi nel momento meno opportuno, magari mentre state affrontando altri due Capitani o Comandanti, e con le stesse armi ed abilità che voi gli avete fornito!

Conclusione

Dopo questo lungo e spero entusiasmante giro sulla giostra dell’Intelligenza Artificiale, auspico di aver reso l’idea di quanto penso sia importante questo aspetto sul gameplay.

Di esempi da fare ce ne sarebbero tanti, in positivo e negativo. Sono convinto che ognuno di noi, pensando a qualche gioco, riuscirebbe a trovare decine di titoli che hanno fortemente giovato o risentito dell’IA. Pensateci! Quel titolo dove il vostro “supporto” o “alleato”, fatti i primi tre passi, veniva brutalmente massacrato dagli avversari. Piuttosto che quel titolo dove il vostro “alleato” si incastrava in una roccia, uccideva voi “per sbaglio”, si faceva scoprire dal nemico rovinandovi l’imboscata (sì, anche qui finiva la missione con la vostra morte).

D’altra parte, pensate a quel titolo in cui l’alleato vi copriva le spalle e vi salvava dall’imboscata, o dove vi forniva fuoco di copertura permettendovi di avanzare. Ne basta solamente uno per capire quanto sia importante l’intelligenza artificiale nel gameplay di un videogame.

È dunque innegabile l’importante ruolo che l’IA possiede in un videogame, seppur questo non significa che sia l’unico rilevante o da considerare. Per questo, mi piacerebbe vedere un “Rinascimento” nel campo dell’IA, in particolare nei videogame, dove il settore è rimasto in stasi per decenni ormai. Infatti, le innovazioni scarseggiano nonostante a livello puramente tecnologico il campo, in senso più vasto, abbia avuto un’esplosione non indifferente (vedasi Reti Neurali, Machine Learning e similari).

In conclusione ritengo fondamentale riportare il focus, da parte del mondo videoludico, su questo troppo spesso sottovalutato ma cruciale elemento.