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Società

Storia dei videogiochi: dalla nascita agli anni 70

I videogiochi sono un medium recente, che nel giro di pochi decenni ha subìto un cambiamento radicale. Oggi l’industria videoludica segue di pari passo le novità e i miglioramenti informatici della nostra era. Agli albori però i videogiochi erano molto più simili a degli esperimenti di elettronica. Per questo motivo, è difficile collocare un vero e proprio punto d’inizio per la nascita dei videogiochi. In questo primo articolo sulla storia dei videogiochi, collochiamo l’inizio di tutto tra la fine degli anni 40 e l’inizio degli anni 50 e proseguiremo raccontandovi gli eventi principali dell’industria videoludica fino alla fine degli anni 70, poco prima dell’età dell’oro dei videogiochi.

I videogiochi dagli anni 40 ai 60

Sembra incredibile ma i primi tentativi di utilizzare la tecnologia a scopo ludico affonda le radici tra gli anni 40 e 50. La nascita del primo prototipo di videogioco può essere collocata nel 1947, quando Goldsmith e Mann progettarono un gioco utilizzando valvole termoelettriche ispirandosi ai radar della Seconda Guerra Mondiale che simulava il lancio di un missile verso un bersaglio. Il giocatore, ruotando delle manopole impostava traiettoria e coordinate. L’idea era geniale, simulare un evento, quale il lancio di un missile, che fino a pochissimi anni prima era una cruda e tremenda realtà, trasposto su una macchina “da gioco” aveva un qualcosa di rivoluzionario.

Per gli elevati costi di produzione e gestione il progetto non andò mai oltre la fase di prototipo. Goldsmith e Mann non lo sapevano ma avevano posto le basi per una lunga e duratura esistenza dell’utilizzo della tecnologia, con il tempo di tipo elettronico, a scopo ludico.

Il primo “video”-gioco

Già nel 1952 un certo Douglas sviluppò quello che si ritiene essere il primo vero e proprio videogioco poiché lo stesso era trasposto su schermo a tubo catodico, il gioco si chiamava OXO ed era praticamente l’equivalente del Tris. Il rilascio avvenne per sistemi EDSAC.

La nascita dei videogiochi: OXO
OXO, il primo Tris elettronico

Nel 1958 lo statunitense William Higinbotham ebbe la geniale idea di creare, con pochi componenti quali un computer Donner 30, un oscilloscopio e alcuni relè un campo da tennis (visto lateralmente).

I giocatori, due quindi, utilizzavano altrettante plance su cui erano poste una manopola per orientare la palla e un pulsante per farla partire; il gioco sbancò tanto che nel 1959 ci fu una riedizione, chiamato Tennis for Twoche abbiamo approfondito in questo articolo in cui furono aggiunti degli ulteriori pulsanti che consentivano di modificare la gravità della palla, rallentandone o accelerandone i movimenti.

Addirittura, nel 1997, per i 50 anni del Brookhaven National Laboratory (laboratorio dove per la prima volta fu esposto il gioco), venne ricreato il Tennis for Two originale, utilizzando gli schemi dell’epoca ma con componenti ovviamente di un’altra era.

I videogiochi dagli anni 60 ai 70

La nascita dei videogiochi: Spacewar!
Spacewar!

Arriviamo dunque negli anni 60, 1962 esattamente, quando un gruppo di studenti del Massachussets programmò Spacewar! Il gioco girava su computer PDP-1, era privo di intelligenza artificiale e per questo motivo erano necessari due giocatori.

Giocatori che muovevano due astronavi che potevano accelerare e ruotare in senso orario e antiorario, vince il round il primo che con un missile riesce a colpire l’avversario. Elementi di disturbo come meteoriti, erano inseriti durante il gioco. Spacewar! viene presto distribuito su tutti i computer tipo DEC-PDP, diventando il primo gioco in larga scala. Per agevolare i giocatori, con dei pezzi di scarto, fu creato quello che oggi possiamo definire un primo joystick!

C’è da dire che, in quegli anni, i giochi erano programmati perlopiù da studenti universitari, su macchine in dotazione alle stesse Università, costosissime, e appare chiaro come tutti i progetti avessero vita davvero breve. Altri titoli degni di nota di quell’anno, sulla stessa piattaforma, furono Hamurabi, un manageriale a turni di tipo testuale e il simulatore Lunar Landing Game.

La prima console

Magnavox Odyssey

Nel 1966 vide la luce, grazie all’ingegno di Ralph Baer, un ingegnere statunitense, il prototipo della prima console. Creò un semplice videogioco, Chase, riprodotto, per la prima volta, su una normale televisione. Il sistema inizialmente molto genericamente chiamato Brown Box, vide la sua evoluzione in Magnavox Odissey, la prima vera console, nella quale erano inclusi un gioco di tennis e un tiro al bersaglio, uno dei primi dispositivi che furono disponibili per tale piattaforma fu una pistola ottica.

I videogiochi dagli anni 70 agli 80

Computer Space

Gli anni Settanta cominciarono alla grande! Già nel 1971 all’Università di Stanford si progettò un videogioco, Galaxy Game, che per funzionare aveva bisogno di una monetina.  Due mesi dopo Bushnell e Dabney ultimarono Computer Space, primo videogioco arcade non meccanico costruito su larga scala (circa 1.500 esemplari). Inizia l’era dei videogiochi arcade. Il gioco in sé non riscuote molto successo perché particolarmente ostico, ma sicuramente questo è un tassello che significherà molto per la storia videoludica. Oggi magari sono sconosciute ai più ma come dimenticare le giornate intere passate in Sala Giochi quando si marinava la scuola o la sera con gli amici? Iconica.

La nascita di Atari

La nascita dei videogiochi: PONG
PONG

Appena l’anno dopo, nel 1972, ritroviamo un Bushnell che non si arrende, insiste con i videogiochi, producendoli, stavolta, in proprio e fonda Atari. Il primo grande successo di Atari e dell’industria videoludica in generale fu PONG, gioco in cui si doveva servire una pallina verso il campo del secondo giocatore, il quale doveva controbattere alla mossa dell’avversario…furono venduti 19.000 cabinati. Si erano poste le basi per il periodo che gli addetti ai lavori definiscono l’età dell’oro dei videogiochi.

La prima controversia pubblica

Ma prima di parlare della nascita di questo periodo fortunato, periodo che possiamo far partire dal 1978, torniamo un attimo indietro nel 1976. Nel 1976 vede la luce Death Race, un gioco di auto il cui scopo era quello di investire dei gremlins, simili a dei pedoni, da ciò scaturì la prima controversia pubblica sulla violenza gratuita nei videogiochi.

Un po’ come avvenne anni più tardi, quando l’opinione pubblica si scagliò contro Carmageddon per lo stesso motivo…in questo caso la casa produttrice fece marcia indietro e modificò il colore del sangue dei poveri investiti da rosso a verde, facendoli sembrare una sorta di alieni.

Space Invaders e Asteroids: l’età d’oro dei videogiochi

L'età dell'oro: Asteroids
Copertina di Asteroids

Ed eccoci al 1978, anno di Space Invaders della Taito e Asteroids di Atari, i giochi che hanno fatto fiorire le sale giochi portandole all’apice del successo e mantenendolo fino alla metà degli anni ’80, la cosiddetta età dell’oro appunto.

Il primo, molto semplice ovviamente rispetto a quello a cui siamo abituati oggigiorno, vede un cannone mobile sullo sfondo dello schermo, che il giocatore può muovere orizzontalmente e con il quale può sparare a una serie di alieni che scendono giù dall’alto dello schermo, in un movimento predefinito a zig zag.

Il secondo, Asteroids invece fa uso di grafica vettoriale e vede una navicella al centro dello schermo, schermo attraversato da asteroidi appunto e dischi volanti: obiettivo del gioco è evitare gli asteroidi e i colpi delle navicelle aliene.

I primi videogiochi a colori vedranno la luce solo l’anno dopo, nel 1979 in cui il più famoso è Pac-Man…ma questa è un’altra storia e vi diamo appuntamento alla prossima puntata!

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Recensioni

Call of Duty Modern Warfare 2 – Recensione

Recensione in BREVE

Call of Duty Modern Warfare 2 è il degno erede della saga. La campagna singlye player è divertente e anche impegnative grazie alla nuova intelligenza artificiale, che rende i nemici veramente duri a morire già dalla difficoltà base. L’immersione negli specchi d’acqua fornisce un’ulteriore tattica da sfruttare per sorprendere i nemici e il feeling con le oltre 50 armi disponibili è tra i più realistici visti finora. Un acquisto obbligato per i fan del franchise, ma anche per qualsiasi amante degli FPS.

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Scrivere di Call of Duty risulta sempre essere titanico e complesso. É uno dei franchise con la comunità più vasta e attiva da anni a questa parte. Il titolo affonda le radici nei primi anni 2000 – 2003 per la precisione. Ironia della sorte, Infinity Ward era composta interamente da persone di un’altra software house, che nello stesso anno aveva pubblicato Medal of Honor: Allied Assault per conto di Electronic Arts. Il resto è storia: CoD scalzò Medal of Honor dal trono del miglior FPS a stampo bellico grazie agli stessi autori di Medal of Honor! E oggi ne continuiamo a parlare in questa recensione di Call of Duty Modern Warfare 2.

Rispetto all’opera di Electronic Arts, il titolo Activision ha sempre cercato di differenziarsi, passando dall’eroismo del singolo alla collaborazione di squadra. In tutti i capitoli di Call Of Duty è un continuo interfacciarsi con la squadra per andare avanti nel gioco; rispetto al suo antagonista (e non solo), il realismo è predominante. Caratteristiche queste mantenute in quasi tutti i CoD usciti fino all’ultimo capitolo, datato 2019, al netto di Vanguard – che abbiamo anche recensito.

Call of Duty Modern Warfare è una delle saghe più complete e solide che io abbia mai visto, con una campagna single player molto avvincente. Il gioco attinge a piene mani da film a tema, inserendo nella trama terrorismo, doppiogiochismo e infiltrazioni rendendo il titolo altamente scenografico e spettacolare (come dimenticare la missione multi-stage dell’Ambasciata o quella dove bisogna resistere ad un attacco terroristico nel pieno centro di Londra). La saga riuscirà a ripetersi anche in Modern Warfare 2?

Lotta al terrorismo

Modern Warfare 2 è il sequel del Call Of Duty del 2019, anche se la trama è slegata dalle sue vicende.

Ritroviamo riferimenti alle cellule di Al-Qatala, al capitano Price, al sergente Garrick, al tenente “Ghost” Riley. Tutti ancora mobilitati e comandati dalla Laswell fino al “nuovo arrivo”, il colonnello Alejandro Vargas, comandante delle forze speciali messicane. Ed il ritorno della Shadow Company. Tutti personaggi che daranno il loro contributo decisivo alla trama. Stavolta Al-Qatala è entrata in possesso di missili balistici statunitensi, e nel corso del gioco capirete in che modo. I nostri eroi del team 141 (o meglio, una versione alternativa dello stesso) dovranno fare di tutto per recuperarli. La cellula terroristica, che risulta alleata con un cartello della droga di Las Almas, è comandata da un certo Hassan Zyani, successore del generale Ghorbrani, uno dei primi obiettivi eliminati all’inizio del gioco.

Il soldato perfetto

Call of Duty Modern Warfare 2 inizia letteralmente col botto: si dovrà teleguidare un missile attraverso dei canyon fino all’obiettivo. Una sequenza breve che però lascia intendere, sin dall’inizio, che i ragazzi di Infinity Ward hanno provato a implementare qualcosa di nuovo nel gameplay, sensazione confermata nel prosieguo del gioco. Non ci illudiamo: le missioni di Call of Duty per quanto ottimamente realizzate, sono sempre quelle che qualsiasi appassionato della serie si aspetta da un  CoD.

Quindi farsi strada con la forza, irrompere in una fabbrica, assaltare una scuola occupata… ma anche missioni un pelo diverse, come infiltrarsi in un porticciolo sbucando dall’acqua, fornire copertura aerea al team che assalta un complesso edilizio. Oppure quando, privati di tutta la tecnologia e dell’arsenale, bisogna proseguire nella missione con armi di fortuna trovate lungo la strada, riportando, forse per la prima volta in un titolo della saga, il concetto di crafting (cioè quello di ricercare e combinare tra loro materiali). Questa grande varietà rende il ritmo serrato, incollando il giocatore allo schermo.

Personalmente la missione che più mi ha deluso è quella dove si guida un autoveicolo con l’obiettivo di risalire una colonna di mezzi militari, sinceramente troppo lunga e alla fine noiosa. Adrenalinica invece quella in cui bisogna salvare un prigioniero da una base militare armata fino ai denti.

Tecnologia innovativa

L’intelligenza artificiale dei nemici stavolta, come promette Infinity Ward, è davvero migliorata. I nemici sanno attaccare, sanno difendere e sanno fare squadra: è difficile trovare un nemico da solo ed indifeso, facile preda. Inoltre, l’introduzione delle immersioni – in acqua – giova alle dinamiche di gioco sia nella campagna, offrendo all’utenza un qualcosa di diverso nel corso del gioco, sia a livello di multiplayer, garantendo al videogiocatore una variante tattica da utilizzare anche in caso di difficoltà. Purtroppo non in tutte le mappe sono presenti specchi d’acqua utilizzabili.

Discorso a parte meritano le numerose armi che Modern Warfare 2 mette a disposizione dall’inizio alla fine della campagna: mitragliatori; fucili da cecchini; armi a rilevazione di calore; ma anche ottiche notturne e dispositivi quali rilevatori di battito cardiaco e microspie. In altre parole, un arsenale con i controfiocchi. Il feeling di queste armi poi risulta molto realistico ed appagante, risultando a conti fatti in un gunplay leggermente migliorato rispetto al precedente capitolo.

Conflitto ad alta risoluzione

Come da tradizione nella serie, verremo inviati in giro per il mondo. Amsterdam, Messico, Spagna, Medio Oriente, seguendo una trama all’altezza di autori di libri come Ken Follett! Altro piccolo aspetto migliorato nel gameplay è stato quello dei dialoghi. Seppur ininfluente ai fini della trama, si amalgama perfettamente nel contesto risultando godibilissimo. Graficamente Call Of Duty Modern Warfare II è bellissimo, Infinity Ward ha creato un’opera d’arte a livello visivo, anche nella versione testata: Xbox Serie S.

Con estrema bravura, il team di sviluppo è riuscito a mantenere un alto frame rate anche su console meno performanti, facendo addiritura meglio rispetto all’opera del 2019, che sulla stessa console aveva dei cali di framerate molto frequenti nelle scene di intermezzo. Problema fortunatamente risolto in Modern Warfare 2: il risultato è un piacere per gli occhi, sembra di assistere ad un film. Piccola nota dolente: non mancano piccoli glitch e lievi difetti, che però non intaccano assolutamente l’esperienza globale di gioco.

Multiplayer

Call of Duty non è e non può essere solo campagna single player. E infatti il multiplayer è davvero corposo. Oltre alle classiche modalità che i fan della serie conoscono, cioè Deathmatch e Deathmatch a squadre, Modern Warfare 2 contiene anche:

  • Soccorso Prigionieri, la novità introdotta in questo capitolo, dove i team, a turno, dovranno individuare e trarre in salvo ostaggi oppure difenderli.
  • Dominio, in cui si compete per il controllo di tre zone marcate da bandiere, A,B e C; la modalità Postazione in cui bisogna conquistare una postazione, che cambia ogni minuto, e difenderla dagli attacchi nemici.
  • Quartier Generale, in cui bisogna catturare e difendere un QG.
  • Controllo, in cui i team si alternano nell’attacco o nella difesa di due obiettivi.
  • Knock-out, in cui i team si contendono il possesso di una borsa piena di danaro.
  • Cerca e distruggi, ovvero difendere o distruggere un obiettivo.
  • Guerra Terrestre e Guerra terrestre- Invasione, in queste mappe, veramente ma veramente vaste, c’è spazio fino a 64 giocatori. La prima è una sorta di versione extra-large di Dominio, impreziosita dall’utilizzo di veicoli; la seconda è una vasta e caotica battaglia dove bisogna avere semplicemente la meglio sui nemici, ad ogni costo.

Infine, non manca la modalità armaiolo, con la quale avremo a disposizione un intero arsenale da combinare per ottenere armi sempre più potenti. Insomma: di carne al fuoco ce n’è e ce n’è tanta.

Conclusione

Call of Duty Modern Warfare II è, in definitiva, un grandissimo gioco. Una campagna single player appassionante, coinvolgente e con un livello di difficoltà secondo me giusto, seppur con qualche riserva (alcune sequenze possono risultare frustranti, morirete parecchie volte!). Un multiplayer sontuoso che vi regalerà ore e ore di divertimento, anche in locale con lo schermo condiviso ovviamente. L’unica domanda è: chi ha giocato al primo Modern Warfare, sente davvero la necessità di questo seguito, considerando anche il notevole esborso economico?

La risposta può e deve essere molto soggettiva. È vero che molte missioni sanno di già visto, ma la trama, l’aura di eroicità dei personaggi e alcune modifiche al gameplay rendono il titolo uno dei migliori FPS del 2022.

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: Sparatutto
  • Lingua: Italiano
  • Multiplayer: Si
  • Prezzo79,99€
  • Piattaforme: Xbox Series X|S, PlayStation 5, Xbox One, PlayStation 4, PC
  • Versione provata: Xbox Series S

Ho fatto la battaglia globale al terrorismo grazie ad un codice gentilmente fornito dal publisher.

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Editoriali

Return to Monkey Island è un’anacronistica necessità

“Salve, sono Guybrush Threepwood, temibile pirata”: quanti di noi sono cresciuti con questo tormentone nella testa, agli inizi degli anni ’90, quando le avventure grafiche spopolavano tra i videogiocatori di Amiga? Era il 1990 e la Lucasfilm, poi Lucasarts, nota casa di produzione cinematografica già autrice di pietre miliari nel genere videoludico come Zak McKraken, Indiana Jones e Loom, tirò fuori dal cilindro The Secret of Monkey Island, avventura grafica che innumerevoli notti insonni regalò ai giovani dell’epoca, almeno nel mio caso). Il recentissimo Return to Monkey Island riprendere esattamente da dove eravamo rimasti, con l’obiettivo di chiudere la trama.

La storia

Protagonista della serie è Guybrush Threepwood, temibile pirata o quasi, che in realtà di temibile il personaggio ha ben poco: lo si può definire tranquillamente un farfallone, ironico e rubacuori, un molto ma molto fortunato piratucolo trovatosi nel momento giusto e al posto giusto. Ed è su questa linea che Ron Gilbert, geniale creatore della serie, fa proseguire il suo “vero” terzo capitolo dopo ben 31 anni dall’ultimo episodio. Return to Monkey Island (sviluppato TerribleToyBox con la collaborazione della Lucasfilm). È un ritorno al passato, un cerchio che si chiude, la ciliegina sulla torta, un “padre di famiglia” che finalmente ha deciso di raccontare la fine della storia, a noi che avendo giocato ai primi due capitoli a suo tempo un po’ tutti figli di Gilbert lo siamo.

Return of Monkey Island è un toccasana in questi tempi, in cui le avventure grafiche non vanno più di moda e dove le nuove generazioni rincorrono sparatutto con grafica fotorealistica. Si tratta di un ritorno alla sana ironia e al filone dei videogiochi dove è ancora necessario usare il cervello per arrivare alla fine.

A dire la verità, per quanto Return to Monkey Island sia un gioco con una trama che può essere completata in circa una decina di ore in modalità difficile (RTMI ha anche una modalità “leggera” con meno enigmi che impedisce ogni tipo di frustrazione), il mio consiglio è di prendersela comoda, di conoscere tutti i personaggi, di sperimentare ogni dialogo perché signori, il tutto vale davvero il prezzo del biglietto!

Ok bello, ma tecnicamente?

Tecnicamente Gilbert non si è molto discostato dal concetto del vecchio SCUMM, innovandolo però con una nuova interfaccia che prevede che il cursore identifichi gli oggetti con i quali si può interagire “suggerendo” l’azione da intraprendere in base agli oggetti stessi. La grafica, per quanto in fase di anteprima sia stata criticata da buona parte della comunità videoludica di appassionati e non, risulta a mio avviso ben riuscita, centrando perfettamente la caratterizzazione dei vari personaggi, dai protagonisti alle comparse. Gli enigmi sono ben calibrati riuscendo, nel contempo, a rappresentare una sfida adeguata senza appesantire la storia di sfide troppo cervellotiche che porterebbero alla frustrazione del giocatore.

Gilbert tra l’altro lo aveva anticipato nelle sue varie interviste prima dell’uscita del titolo, il 19 settembre: ha dovuto, in fase di realizzazione, privilegiare enigmi quanto più possibili lineari per andare incontro alla generazione attuale di videogiocatori, non disposta a sacrificare più tempo del dovuto come magari nei primi anni ’90. In quest’ottica, altro supporto ai videogiocatori è dato dal libro degli aiuti, disponibile sin dai primi istanti nell’inventario di Guybrush e utilizzabile a piacimento. “Se il giocatore si barcamena cercando aiuti su internet, tanto vale che glieli diamo direttamente noi del team di sviluppo, che il gioco l’abbiamo creato” ha affermato Ron Gilbert.

Quella mente geniale di Ron Gilbert

La trama di Return to Monkey Island

La storia di Return to Monkey Island inizia esattamente dallo stesso punto in cui è finito il secondo capitolo, prendendo la piega che probabilmente aveva in mente Gilbert sin dal principio. Certo, ha dovuto fare i conti col passato e con il fatto che prima di RTMI sono usciti altri tre capitoli, ma grazie a dei flashback narrativi e al libro dei ricordi, il giocatore viene riportato immediatamente sui giusti binari della storia.

Sono passati anni da quando Guybrush ha cercato di mettere le mani sul Segreto di Monkey Island, di fatto non riuscendoci a causa del malvagio pirata fantasma Le Chuck che si è rivelato avere il suo stesso obiettivo. Ora si ritrova di nuovo sull’isola di Melee: tante cose sono cambiate ma non la voglia del nostro eroe di scoprire il Segreto. Venendo a sapere che Le Chuck sta mettendo su una ciurma per salpare verso l’Isola della Scimmia, trova il modo di salpare anche lui.

Tutto qui?

Le cose si complicano quando entra in gioco anche un trio di pirati improbabile, salito alla ribalta come nuovo comando pirata dell’isola di Melee e che, attraverso la magia oscura, cerca anch’esso il Segreto alleandosi a fasi alterne, con una spruzzata di un pò di sano doppiogiochismo piratesco, con Le Chuck. Ci saranno nuove isole da esplorare e nuovi personaggi da incontrare, ma anche alcune conoscenze di vecchia data: i riferimenti al passato sono numerosi lungo tutto il gioco, e avremo nuovamente a che fare con Carla, Stan, Otis, Herman.

Se una nota si può appuntare a Ron Gilbert è che, a volte, è davvero estenuante dover andare da un punto all’altro della mappa perché magari ci si rende conto di non aver preso un oggetto…ma d’altronde, è questo lo spirito di un’avventura grafica (peraltro i tempi di percorrenza vengono efficacemente ridotti), fino allo scontro finale, il faccia a faccia tra Guybrush e Le Chuck da tutti atteso, scontro in cui colui che ne uscirà vittorioso avrà finalmente in mano il desiderato Segreto di Monkey Island!

Conclusioni

RTMI è un gioco da provare, adatto sia a chi non ha mai avuto a che fare con un’avventura grafica e non conosce la saga, sia ai fan di vecchia data di Guybrush per i quali diventa un “must have”, imprescindibile prosecuzione (e fine?) del percorso fatto finora tra isole, spade, vascelli e zombie fantasma.

Return to Monkey Island è un gioco di altri tempi di cui si sentiva proprio il bisogno, un prodotto quasi anacronistico ma tremendamente attuale per chi lo aspettava da ben 31 anni. Sembra ieri aver lasciato Guybrush e affini in quel criptico finale di Monkey Island 2, e oggi eccoci qui, con in mano un bellissimo seguito in cui i dialoghi, la satira, l’ironia ci accompagnano nell’opera, forse, di commiato di Ron Gilbert. Saluteremo probabilmente Ron, ma in futuro credo proprio che la saga proseguirà. Monkey Island continuerà a vivere e quel piratucolo senza nessuna speranza con un nome più assurdo della sua ambizione avrà ancora altre avventure da affrontare.

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Tecnologie

Cos’è stato Google Stadia: flop o precursore?

Il 29 settembre 2022, Google annuncia che Stadia chiuderà il 18 gennaio 2023, perché «non ha guadagnato la popolarità che ci aspettavamo». In questo articolo ripercorriamo la breve vita del cloud gaming secondo Google e spieghiamo cos’è stato Stadia per l’industria videoludica.

L’inizio

Nel 2018, con l’arrivo di Phil Harrison in Google, il progetto “Stadia” prende forma. Inizialmente con il nome di Project Stream (in collaborazione con Ubisoft) e successivamente Project Yeti; si esplorano le possibilità del Cloud Streaming. Stadia è il plurale di Stadium (in latino) e sta a significare luogo aperto dedito all’intrattenimento, lasciando intravedere, così facendo, la possibilità di usufruire di uno spazio dove una persona può sia “sedersi” e guardare che prendere parte attiva all’azione. Stadia nasce ufficialmente il 19 novembre 2019, con un alone di scetticismo ad avvolgerne l’attesa.

Personalmente ne preordino la Premium Edition (le Founder Edition che consentivano piccoli vantaggi in più erano già terminate): per quanto mi riguarda l’attesa era spasmodica. Google Stadia consta semplicemente di un Chromecast Ultra e di un controller, il quale, collegandosi via Wifi al Chromecast, apre un mondo videoludico davvero “magico”: quello del cloud streaming che con Stadia, forse per la prima volta, gli utenti toccano seriamente con mano.

Caratteristiche di Google Stadia

Quali sono i vantaggi di tale piattaforma? L’eliminazione in pratica dell’hardware, che lo mette Google: l’utente deve solo procurarsi, casomai decidesse di sfruttarne tutte le potenzialità, una connessione adeguata, per evitare il fastidioso lag (ritardo tra l’input e l’output). Consideriamo, infatti, che con Stadia non stiamo giocando online ma siamo connessi ad un server che sta facendo “girare” il gioco prescelto, una specie di “Netflix” dei videogiochi.

L’utente ha bisogno di una connessione veloce quindi che consenta almeno i 10 Mbps come riferimento minimo, per giocare ai massimi livelli. Google raccomanda invece una connessione che raggiunga i 35 Mbps. Consiglio personale: per verificare la propria velocità, utilizzate lo strumento messo a disposizione da Google stesso, invece delle classiche applicazioni che permettono di verificare la connessione.

Il punto nodale è sincronizzare il momento in cui l’utente preme un tasto sul controller con quello in cui l’azione si ripercuote su schermo. Qui, oltre l’affidabilità della connessione dell’utente, è dovuta entrare in gioco necessariamente l’intelligenza artificiale, che ha il compito di “predire” in una situazione di quale tasto sarebbe più conveniente premere “preparandosi” all’evento e minimizzando i tempi di risposta. Ovviamente è un sistema adattivo che impara gradualmente mentre l’utente gioca.

Dati tecnici

Ma snoccioliamo due dati sulle caratteristiche dell’architettura di Stadia: Cpu x86 personalizzata a 2,7 Ghz con hyper-threated, AVX2 SIMD e 9,5 Mb cache L2+L3, GPU AMD personalizzata con memoria HBM2 e 56 unità computazionali capaci di generare 10,7 teraflops (non “spalmati” tra tutti gli utenti ma ad effettiva disposizione di ogni singolo utente, conferma Google), 16 Gb RAM con prestazioni fino a 484 GB/s, archiviazione su SSD Cloud (dati Google).

L’azienda afferma comunque che questo è il suo sistema di prima generazione con l’idea che l’hardware col tempo sarebbe migliorato senza richiedere alcun tipo di aggiornamento da parte dell’utente. Appare chiaro come un sistema di questo tipo surclassi le console nextgen presenti sul mercato e, nelle idee di Google, anche quelle del futuro.

Altro vantaggio: normalmente in un gioco multiplayer, che si aggancia ad un server dedicato, il client gira sulla macchina in locale. Con Stadia invece il client è un’appendice del server che gira quindi sulla stessa rete, ad una velocità molto più elevata ovviamente, quindi anche per il multiplayer Stadia è un passo avanti

Libreria titoli e abbonamenti

Quali giochi, in soldoni, sono disponibili per Stadia? Una lista di prodotti è presente sul sito ufficiale; scorrendo il catalogo, si può notare come lo stesso sia piuttosto scarno, con pochi titoli tripla A a disposizione: Fifa 22, Assassin’s Creed: Valhalla – che abbiamo recensito – e Odyssey, Red Dead Redemption 2, Doom Eternal e poco altro.

Per il resto, l’abbonamento Pro (consente di accedere a giochi gratuiti e di usufruire della tecnologia più avanzata a 4K HDR e suono surround 5.1 al costo di 9,99 euro al mese) che dovrebbe competere con l’Xbox Game Pass e il Playstation Plus, non riesce nell’intento di mettere a disposizione degli abbonati dei titoli veramente validi. Microsoft ad esempio, che addirittura, per una manciata di euro in più, consente di mettere le mani su succosi titoli anche al Day One.

Competitor

C’è da dire anche che dal 2019 ad oggi, a parte i servizi in streaming di Sony e Microsoft, e l’appena arrivato in Italia SHADOW, si è imposto di prepotenza anche GeForce Now, piattaforma streaming di Nvidiache abbiamo messo a confronto con Google Stadia.

Quest’ultima prevede degli abbonamenti, tre per la precisione che consentono in modo scalare, di ricevere più o meno vantaggi. Quello top costa circa 17 euro al mese o 100 euro ogni sei mesi, per godere della massima tecnologia e dell’accesso prioritario ai server. Con il servizio di Google condivide un difetto: per giocare ai titoli più innovativi e recenti bisogna acquistarli.

Non giriamoci intorno: il più grande problema di Stadia è stato il costo, e le modalità d’acquisto, dei videogiochi. Benché siano previsti giochi gratuiti con l’abbonamento Pro, mi aspetto che se pago un abbonamento sia possibile giocare a tutto, o quasi, senza spendere più un euro, alla stregua di Netflix per le serie TV.

Considerazioni finali

Considerando che anche lo studio interno di Google, lo Stadia Games ed Entertainment, è stato chiuso ritenendo lo sviluppo dei videogiochi troppo oneroso e relegando, di fatto, Stadia a un contenitore di prodotti sviluppati da terze parti, ecco che si delineano le cause che, in un certo qual modo, hanno portato ad una sorta di “fallimento” Stadia.

Nell’ultimo periodo, la piattaforma ha ricevuto un “depotenziamento”, con l’utenza che, stando alle statistiche, privilegia gli abbonamenti Sony e Microsoft (che parimenti a Stadia consentono il Cloud Gaming) e che, per un prezzo simile a quello di Google, offrono più titoli senza l’obbligo di acquistarli e una più adeguata importanza dei giochi compresi nel Pass.

In definitiva, il cloud gaming è ancora oggi una grande incognita, ma Google Stadia è stata soprattutto vittima di una pessima scelta commerciale.

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Editoriali

La Trama di Monkey Island

Se andaste su un’enciclopedia dei videogiochi trovereste, sotto la voce “Guybrush Threepwood”, la seguente dicitura : “Guybrush Threepwood, aspirante pirata. Personaggio dal passato oscuro, indefinito. Di lui si conosce che sa trattenere il respiro per 10 minuti, che ama girovagare nei boschi in cerca di tesori, che sa duellare di spada, di insulti e, a volte, anche di banjo (un cordofono di origine sudafricana).Segni particolari biondo, stato civile celibe (almeno nel momento della sua apparizione sull’isola di Melee).”

Se voleste poi allargare i vostri orizzonti e cercare il binomio “Monkey Island”, scoprireste che la saga di Monkey Island, serie di avventure grafiche edite dalla Lucasarts (per capirci, Indiana Jones e Star Wars in ambito cinematografico), è quanto di più abbia saputo stimolare e solleticare l’immaginario collettivo del popolo videoludico, almeno quello dei primi anni 90, sul tema dei pirati e del mondo ad esso correlato.

A pochi giorni dall’uscita di Return of Monkey Island, vi riportiamo nel mondo di uno dei videogiochi sui pirati più belli di sempre, raccontandovi la trama di Monkey Island, gioco per gioco.

The Secret Of Monkey Island

La storia si sviluppa intorno al personaggio di Guybrush Threepwood, aspirante pirata, che sbarca, da non si sa dove, sull’isola di Melee per diventare un pirata affermato; ben presto si scoprirà che le sue attitudini sono alquanto lontane da quelle necessarie a diventare pirata e che in un modo o nell’altro riuscirà, anche con trovate geniali ed ilari, a risolvere i problemi che gli si porranno davanti. Quali problemi? Uno su tutti, il pirata fantasma LeChuck al quale Guybrush, nel primo episodio (The Secret of Monkey Island), soffierà la ragazza e promessa sposa Elaine Marley; diciamoci la verità, Elaine non è che ardeva dal desiderio di sposare LeChuck!

Per salvare Elaine, rapita dall’ormai disperato fantasma innamorato, Guybrush dovrà fare addirittura rotta per Monkey Island e scendere nei suoi inferi per inseguire il malvagio pirata e la sua ciurma fantasma. Inutile dire come, alla fine del primo episodio, LeChuck verrà sconfitto – o meglio, dissolto – in un turbinio di fuochi d’artificio!

The Secret Of Monkey Island

Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge

Nel secondo episodio, “Monkey Island 2: Lechuck’s revenge”, le cose si fanno più mature: ritroviamo un Guybrush cresciuto, più spavaldo e più espert…ok non esageriamo! L’avventura si dipana su ben tre isole, insomma anche il team di sviluppo, dopo l’azzardo del primo episodio, ha ben in mente cosa vuole dal gioco e si vede! Gli enigmi sono ben strutturati e la storia…anche! La vendetta di LeChuck quindi…un errore (veniale) del nostro Guybrush infatti, farà riportare in vita il corpo putrido e marcio del suo nemico.

Mentre il nostro eroe sarà intento a ricomporre una mappa che lo porterà alla scoperta di un tesoro favoloso, il nefasto zombie opererà dietro le quinte per attuare la sua vendetta. Vendetta che si compirà, alla fine del titolo, intrappolando Guybrush nella “Fiera dei dannati”, con la consapevolezza che LeChuck sia in realtà suo fratello, morto anni prima.

Monkey Island 2: LeChuck's Revenge

The Curse of Monkey Island

Ora, al dettaglio della fratellanza, per altro non trascurabile della saga, non si è più accennato nei successivi capitoli. La scelta sta forse da individuare nel fatto che a partire dal terzo capitolo, il team di produzione è cambiato, improntando il tutto su un’altra linea e facendo sembrare, in pratica, The Curse of Monkey Island, terzo capitolo della serie, un prodotto quasi stand alone. Questo episodio, seppur divergendo dalla storia come l’aveva immaginata il creatore di Monkey Island, Ron Gilbert, lascia un’impronta decisa nel panorama videoludico, poiché è tra i primi titoli ad avere il parlato, una grafica godibilissima e una trama comunque intrisa di ironia, anche se non ai livelli dei primi due capitoli.

Si scade a volte, purtroppo, in cliché già visti nei primi due episodi. La storia racconta di come Guybrush abbia chiesto ad Elaine di sposarlo, e di come, per farlo, abbia utilizzato un anello maledetto (tipico del nostro antieroe) trasformandola in una statua d’oro (poi trafugata da una ciurma di scimmie). Dopo mille peripezie, Guybrush salvare la donna del suo cuore e sconfigge nuovamente un LeChuck, che, per l’occasione, sfoggia un look del tutto nuovo con una barba bella e fiammeggiante.

The Curse of Monkey Island

Escape from Monkey Island

Arriviamo dunque al quarto capitolo, quell’Escape from Monkey Island che ha deluso più di un fan; se il terzo Monkey, per quanto con dei cliché e per quanto non segua la storia pensata da Gilbert, come detto, gode di una grafica godibilissima, di un buon doppiaggio e di una trama accettabile,  l’ultimo capitolo rasenta, a mio modesto parere, il punto più basso della serie.

Per carità, un Monkey Island è sempre un Monkey Island e per questo doveva essere giocato. Ma il motore 3D che molto era piaciuto su Grim Fandango, con Guybrush perde un po’ i colpi, unito ad una gestione discutibile del personaggio da tastiera e non più da mouse. Beh ma è sempre Monkey Island… la trama riuscirà a colmare le lacune… e invece no! Anche la trama fa acqua da tutte le parti, regalandoci una storia che di piratesco ha ben poco, dovendo affrontare, il nostro eroe, stuoli di avvocati e burocrati. Guybrush ed Elaine tornano dal meritato e focoso viaggio di nozze.

Su Melee scoprono che sono stati dichiarati morti e nuove elezioni sono in corso per sostituire il governatore, ruolo che fino a poco prima era ricoperto da Elaine. L’antagonista politico si rivelerà essere Charles L. Charles (LeChuck sotto mentite spoglie) che cercherà di incastrare i due giovani. Ma Guybrush, dopo aver scoperto il famigerato “insulto supremo”, al seguito di un rocambolesco ritorno sull’isola di Monkey Island e dopo un finale, secondo il sottoscritto, poco degno di un capitolo della saga, riuscirà a ristabilire l’ordine naturale delle cose sconfiggendo LeChuck per l’ennesima volta. La saga si conclude qui… o forse no!

Il ritorno di Guybrush…

Segnatevi questa data: 19 settembre 2022. Monkey Island ritorna con un nuovo, imperdibile, attesissimo capitolo: Return to Monkey Island. Il team di sviluppo? Ron Gilbert, ideatore, insieme a Dave Grossman dei primi due episodi e infatti Return to Monkey Island inizierà proprio dove Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge si è concluso. Le domande che attanagliano la trama di Monkey Island sono ancora tante: LeChuck e Guybrush sono davvero fratelli? Verrà mai scoperto il reale segreto di Monkey Island? Sarà mai previsto un altro pollo con la carrucola? Speriamo che a queste ma anche ad altre entusiasmanti domande riusciremo ad avere risposta con l’uscita dell’acclamato seguito. 

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Editoriali

I 4 migliori videogiochi sui pirati di sempre

Nell’immaginario collettivo quella dei pirati è la categoria che, probabilmente, più suscita emozioni. Si pensi al coraggio, all’efferatezza, ai tradimenti, alle imprese eroiche… se poi ci mescoliamo anche la magia vodoo, antiche tradizioni e tesori meravigliosi, il cocktail è perfetto. I pirati sono i cattivi ai quali tutto è concesso ed è per questo che sono, forse, tra i personaggi più amati.

Innumerevoli sono le trasposizioni cinematografiche del mondo piratesco: alla famosissima saga di Capitan Jack Sparrow e dei suoi Pirati dei Caraibi, che tutti conosciamo ed amiamo, mi piace affiancare Master and Commander, film del 2003 diretto da Peter Weir con protagonista Russell Crowe, che narra le vicende del Capitano Jack Aubrey alle prese con l’inseguimento di una nave corsara. Il film, lontano dalla trama ai confini con la realtà di Sparrow, riporta tutto su un piano più realistico, sulla vita dei marinai di fine XVII secolo, su tattiche di guerra navale e sul coraggio dei suoi protagonisti. E il mondo videoludico? Di certo non poteva restare a guardare!

Videogiochi corsari

La storia dei videogiochi è stata spesso costellata da titoli, di diversi generi, che hanno trattato i pirati. Il più grande di tutti? Monkey Island e i suoi ben quattro episodi – la cui trama è stata snocciolata in questo articolo – che ci guidano lungo la storia di un giovane pirata, inesperto, alla ricerca della sua avventura della vita. Il genere è quello di avventura grafica. Altri titoli che non possono mancare nella collezione di un appassionato che si rispetti è Sid Meier’s Pirates!, un adventure/gestionale e il più recente Sea of Thieves, un titolo in prima persona, che porta il giocatore in giro per i sette mari, alla ricerca di tesori, maledizioni pirata e leggende.

La Saga di Monkey Island

La più famosa serie di videogiochi sui pirati, nonché, la mia preferita, narra le gesta dell’aspirante pirata Guybrush Threepwood. Parliamo di Monkey Island, avventura grafica targata Lucasarts, soprattutto riferendosi ai primi due titoli: The Secret of Monkey Island e Monkey Island 2: Le Chuck’s Revenge. Nati entrambi dall’estro di Ron Gilbert, Tim Schafer e Dave Grossman.

I successivi due capitoli della serie, invece anche se prodotti sempre dalla Lucas hanno genitori diversi: The Curse of Monkey Island, che riprende idealmente le fila dalla fine del secondo capitolo e The Escape from Monkey Island, titolo che, ahimè, nonostante una buona storia di fondo, snatura un po’ il concetto di avventura grafica classica implementando un 3D che spesso storce il naso alla fluidità del gameplay creando problemi nella gestione della visuale.

Differenze tra gli episodi

C’è da chiarire un punto: i primi due capitoli, datati 1990 e 1992 sono frutto di quella mente geniale di Ron Gilbert e del suo team. e si vede. Le storie trasudano comicità ed ironia in ogni momento, spronando il giocatore ad andare avanti anche solo per il gusto di sapere quale altra battuta ironica o pungente lo aspetta.

I successivi due capitoli, per quanto la Lucasarts abbia tentato di renderli appetibili come i predecessori, risultano sì godibili, ma non hanno la stessa verve dei titoli di Gilbert: Nello specifico, il terzo capitolo, The Curse of Monkey Island, abbandona la “pixel art” dei primi due, prediligendo una grafica “cartoonata” gradevole, implementando contestualmente effetti vocali nella serie. Ebbene sì, conosceremo la voce del nostro amato Guybrush! Il sistema vocale è oggi la normalità per un videogioco, ma nel 1997, anno di uscita di The Curse of Monkey Island, la feature non era così scontata.

La storia del nostro Guybrush

Uno dei migliori videogiochi sui pirati di sempre: Monkey Island 2: Le Chuck’s Revenge

La trama è la classica storia di ogni bucaniere che si rispetti: Guybrush Threepwood, aspirante pirata, sbarca sull’isola di Melee per cercare fortuna, troverà invece l’amore della sua vita, Elaine Marley, governatore di Melee e ossessione della nemesi di Guybrush, il pirata fantasma Le Chuck che farà di tutto per sposare la donna. Guybrush però, tra battaglie di fini battute sarcastiche (avete presente il detto la lingua taglia più della spada? Ecco!), magie vodoo, teste di scimmia giganti, cannibali vegetariani e naufraghi strampalati, riuscirà nell’intento di rovinargli decisamente la festa distruggendo, alla fine del primo episodio, la sua essenza spirituale.

Nel secondo capitolo le cose si fanno decisamente più complicate: in Le Chuck’s Revenge il nostro eroe dovrà trovare il meraviglioso tesoro di Big Whoop, approdando su ben tre isole diverse, mentre il cadavere marcio, putrefatto e maleodorante di Le Chuck, riportato in vita dalla magia Vodoo, gli darà la caccia.

Per i puristi della saga la storia si ferma qui, i secondi due episodi (a cui volendo, potremmo aggiungere il quinto, prodotto da Telltale Games sotto licenza) non sono frutto della mente di Gilbert e quindi non degni di nota.

Return to Monkey Island : il suo segreto verrà finalmente rivelato?

Con queste premesse appare chiaro come l’hype, l’attesa per il tanto agognato sequel, firmato Ron Gilbert, di Monkey Island sia ormai a livelli altissimi. Per chi si fosse perso la notizia (ma dove vivete?!), il primo aprile scorso, in linea con un mega fantascientifico “pesce di aprile”, viene annunciato Return to Monkey Island. La comunità è in fibrillazione, ci si chiede se sia vero, ma fortunatamente man mano che il tempo passa le notizie diventano più certe, cominciano a girare i primi screenshots e addirittura l’anno di rilascio, 2022! Il gioco sarà disponibile inizialmente per PC e Switch, poi probabilmente anche per le altre piattaforme.

Il rilascio del titolo non ha solo un valore tecnico, non è solo un’altra avventura grafica che potrà essere bella per alcuni e brutta per altri. Return to Monkey Island sarà un tuffo nel passato per tutti coloro che hanno superato gli “anta”, per coloro che hanno trascorso la loro giovinezza dietro a dei pixel che lasciavano immaginare grandi imprese, duelli di spade e donzelle da salvare e poco importa se la grafica non è in linea con gli standard di oggi, cosa che ha deluso più d’uno.

Non importa se entrerà nella lista dei migliori videogiochi sui pirati o se la trama non soddisferà tutti. L’uscita di un nuovo Monkey Island è sempre un evento che lascia speranze di emozioni nuove, ma anche di emozioni che possano rinverdire i fasti di quelle passate; un titolo, quello di Gilbert, che è un’opera d’arte, senza tempo, a pieno titolo nel gotha della storia di videogiochi. Non ci resta che attendere il 19 settembre, data realistica del rilascio (a meno di clamorosi rinvii) davanti ad un rinfrescante boccale di grog!

Sea of Thieves

Uno dei migliori videogiochi sui pirati di sempre: Sea of Thieves

Sea of Thieves è un open world in cui si vivrà un’esperienza piratesca totale, dai combattimenti alla navigazione, dalla pesca alla caccia, con un’infinità di obiettivi secondari da sbloccare, scheletri da sconfiggere, tesori da trovare. Salpa con la tua ciurma: Sea of Thieves è uno dei migliori videogiochi sui pirati e l’unico di questa lista che supporta il gioco multiplayer consentendo di incontrare altre ciurme di pirati e decidere se allearsi con esse o combatterle. Una libertà praticamente infinita è data all’avventuriero che deciderà di solcare questi mari.

Sid Meier’s Pirates!

Uno dei migliori videogiochi sui pirati di sempre: Sid Meier's Pirates!

Sid Meier’s Pirates!, targato Microprose, anno di uscita 1987, è uno adventure/gestionale in cui si simulerà la vita di un pirata. Beh… non proprio di un pirata, ma di un corsaro al servizio di re di vari nazioni (la scelta della nazione da servire indica il livello di difficoltà del gioco). Però, la fedeltà ad una nazione non deve per forza rimanere tale. Nel corso del gioco si potrà cambiare bandiera, come si potranno catturare altri banditi e consegnarli alla legge per ottenere le ricompense, salvare donzelle rapite, conquistare città e forti. Non c’è una storia a fare da conduttore, ma la storia la creerà il giocatore mano mano che effettuerà le proprie scelte.

Nonostante l’anno d’uscita, Sid Meier’s Pirates! è uno dei migliori videogiochi sui pirati di sempre, tanto che nel 2004 è stato proposto un remake del titolo ad opera di Firaxis (che attualmente ne detiene i diritti) in cui è stato introdotto un motore 3D che ha migliorato il comparto grafica complessivo, è stato migliorato il sistema di combattimento e introdotto la fase del ballo, dove il protagonista prima di conquistare l’agognata donzella deve sfoggiare abilità danzanti.

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