C’è qualcosa di magico e speciale nei videogiochi che non hanno fretta. Until Then non corre, non urla: ti invita semplicemente a vivere, a ricordare, a sentire. In un mondo sempre più frenetico governato dal bombardamento visivo e dalla logica consumistica, quest’opera ci offre un rifugio, un angolo sospeso nel nulla in cui fermarsi a meditare.
Si tratta di un titolo che tesse i fili dell’adolescenza, dove ogni gesto è carico di significato e ogni silenzio è pesante.
La produzione di Until Then
Lo sviluppo, a cura di Polychroma Games, è iniziato durante la pandemia di COVID-19 nel 2020, con un team di circa dieci persone, guidato da Mickole Klein Nulud.
In Until Then, avventura narrativa ambientata nelle Filippine del 2014, vestiamo i panni di Mark Borja, uno studente delle superiori che vive da solo nella città immaginaria di Liamson. In apparenza, è solo un ragazzo qualunque. Ma il suo mondo, segnato da un cataclisma globale e da sparizioni inspiegabili, ci avvolge lentamente, fino a diventare il nostro.
Il videogioco combina il classico impianto da visual novel con vari elementi di avventura grafica. La narrazione è espressa principalmente attraverso il discorso diretto e forti sequenze dialogiche, supportate da flussi di coscienza che guidano l’interazione tra i vari personaggi. Il tutto poggia su uno stile grafico unico e inimitabile: una pixel art estremamente dettagliata su sfondi tridimensionali.
Le tematiche
L’opera esamina una varietà di temi profondi: l’importanza delle relazioni umane nella nostra quotidianità, l’attenzione ai dettagli, le cose non dette. Riflette inoltre con lucidità su come la comunicazione – o la sua assenza – possa diventare costruttiva o distruttiva nei rapporti umani. La perdita e il trauma si insinuano nella vita di tutti i giorni e il titolo esplora con delicatezza la difficoltà nell’affrontarli, superarli o, più banalmente, di accettarne l’esistenza.
Il gioco ci mostra quanto spesso tendiamo a rifugiarci in una dimensione alternativa, aggrappandoci ai ricordi o a una realtà che ci sembra più sopportabile. La bellezza di Until Then sta proprio nel modo in cui riesce a far emergere queste emozioni attraverso una narrazione semplice, per quanto incredibilmente potente.
La sospensione del gameplay in Until Then
Sul piano del gameplay, le azioni a nostra disposizione non sono numerose, ma questo aspetto passa presto in secondo piano. L’esperienza che ci viene offerta è qualcosa che va oltre l’interazione: il coinvolgimento emotivo prende il sopravvento e siamo chiamati ad abbandonare il controllo, per vivere davvero la storia.
È un’esperienza sospesa che siamo chiamati a goderci in una realtà atemporale, in cui le storie dei protagonisti scorrono davanti a noi con un taglio cinematografico che rende ogni momento vivido e tangibile. Le inquadrature, i giochi di luce, le illustrazioni, le animazioni: ogni elemento è organizzato con cura per regalarci un’esperienza che supera i confini stessi del medium videoludico.
I minigiochi presenti sono per lo più un espediente per amplificare il coinvolgimento e l’immersività.
La cornice filippina e la colonna sonora
Di fondamentale importanza per la comprensione del videogioco è la sua cornice filippina. Il gioco riesce a mostrarci uno spaccato culturale unico e ci offre gli strumenti per immergerci nella realtà filippina, con le sue peculiarità: la struttura delle strade, le scuole, la diaspora delle famiglie, i fenomeni sismici e l’importanza della comunità. Tutto ciò contribuisce a farci esplorare una città vivente, che fa della sua ispirazione a Metro Manila il suo punto di forza.
A causa delle restrizioni di viaggio e dell’impossibilità di effettuare dei sopralluoghi, gli artisti si sono affidati a Google Earth per riprodurre fedelmente le ambientazioni ispirate alla capitale filippina.
Per quanto riguarda specificatamente la colonna sonora e la musica in generale, essa è fulcro fondamentale dell’esperienza di gioco e della trama stessa. Il pianoforte è strettamente collegato alle vicende narrative, e il suo utilizzo si fonde in una nuova dimensione che rafforza la sua presenza, sia a livello narrativo che nella realtà esterna del videogioco, in cui la ritroviamo sotto forma di OST.
La quotidianità e il sentimento di anemoia
Until Then è anche nostalgia. L’opera rievoca infatti un concetto molto particolare, ovvero l’anemoia, una forma di malinconia per un tempo che non si è mai vissuto. I protagonisti stessi percepiscono questo e noi siamo chiamati a condividerlo con loro, a sentire le cose come familiari e vicine, pur non avendole mai provate.
I piccoli momenti di interazione quotidiana, come il controllo del telefono o il rispondere a un messaggio, sembrano banali, ma sono ricchi di un’intimità che risuona personalmente. Questi frammenti, apparentemente insignificanti, diventano emblemi di un tempo sfuggente e inarrestabile e contribuiscono a rendere reale ciò che vediamo.
Per concludere, Until Then non è solo un videogioco, ma un viaggio che ci costringe a fermarci un’istante, a riflettere e a vivere ogni momento con consapevolezza. Ci invita ad ascoltare con attenzione e, nel farlo, ci regala quella che può essere considerata una delle avventure più emozionanti che il medium videoludico possa offrire.
Sono passati solo pochi giorni dalla presentazione di Nintendo Switch 2, eppure la nuova console ibrida della grande N continua a far parlare di sé. Tra polemiche per i prezzi di lancio, curiosità per le nuove funzionalità e dubbi sull’effettiva resa dell’hardware, è indubbio che l’annuncio sul lancio di Nintendo Switch 2 abbia lasciato diverse perplessità. Tra i titoli presentati, quello su cui Nintendo sembra scommettere di più è certamente l’ultimo nato della saga di Super Mario Kart, ovvero Mario Kart World.
Toccherà di nuovo alle folli corse con protagonista il baffuto idraulico e la sua allegra banda fare letteralmente da apripista per il nuovo gioiellino targato Nintendo. In attesa di mettere le mani sul nuovo episodio della serie, vi proponiamo una retrospettiva sull’intera saga di Mario Kart, per meglio prepararci ad accogliere Mario World. Mettiamoci alla guida dei nostri kart e lanciamoci nella corsa più pazza del mondo!
Le origini di Mario Kart
Il primo capitolo della saga di Mario Kart apparve nell’agosto del 1992 in Giappone per il glorioso Super Nintendo, col titolo Super Mario Kart. Curiosamente, il gioco avrebbe dovuto essere un sequel di F-Zero, gioco di corse futuristico apparso sempre su SNES. Per rendere più semplice la diffusione, si decise di includere nel gioco i personaggi della saga di Super Mario.
Questo primo episodio presentava già tutti i tratti fondamentali della serie. Dopo aver scelto uno tra gli otto protagonisti, presi un po’ da tutti i titoli dedicati a Mario apparsi fino a quel momento. Il giocatore avrebbe dovuto affrontare una serie di corse a bordo del proprio Kart contro gli altri sette personaggi.
Le corse erano rese ancora più imprevedibili grazie alla presenza di numerosi power up, che permettevano di accellerare improvvisamente, saltare parti del tracciato, attaccare gli avversari tramite gusci volanti o banane e persino diventare momentaneamente invulnerabili o rimpicciolire temporaneamente tutti i nemici.
Oltre alle gare singole e alle prove a tempo, i giocatori potevano competere nella modalità Gran Prix. Questa modalità presentava 4 diverse coppe da quattro gare ciascuna, oltre a tre livelli di difficoltà differenti (le famose classi 50, 100 o 150). Per avanzare nel torneo era necessario arrivare almeno quarti, pena la perdita di una vita. Una volta esaurite le vite sarebbe stato Game over.
Principale punto di forza del gioco era naturalmente la modalità multigiocatore, che permetteva a due amici di sfidarsi a schermo diviso in corse singole o di competere in un Gran Prix. Era presente anche una simpatica modalità battaglia, in cui lo scopo sarebbe stato colpire l’avversario sfruttando i bonus fino ad esaurire le sue vite, rappresentate da palloncini colorati. In questa modalità le gare si svolgevano in specifiche arene chiuse.
Il gioco ottenne un successo esplosivo, soprattutto grazie alla sua incredibile giocabilità. Sebbene padroneggiare il sistema di guida non fosse semplice, esso sapeva donare enormi soddisfazioni. Degna di nota era soprattutto la meccanica del drift. Premendo uno dei tasti dorsali, era infatti possibile dare inizio ad una sorta di derapata, che donava una piccola accelerazione in uscita dalla curva. Dominare questa meccanica risultava essenziale per riuscire a vincere i Gran Prix a difficoltà elevate.
Anche dal punto di vista grafico, il gioco dava sfoggio delle potenzialità dello SNES, riuscendo a creare una sensazione di profondità e tridimensionalità. Il comparto sonoro faceva anch’esso il suo lavoro, con vari motivetti orecchiabili che divennero un marchio di fabbrica della serie.
Mario Kart 64
Per avere un nuovo episodio della serie Mario Kart, i giocatori dovettero attendere ben 4 anni. Il secondo capitolo, Mario Kart 64, vide infatti la luce nel 1996, naturalmente, su Nintendo 64. Causa di questo ritardo furono le tempistiche lunghissime che accompagnarono lancio e distribuzione del 64 bit della casa di Kyoto.
Mario Kart 64 ripropone la formula vincente del capitolo precedente, trasportando le folli corse di Mario in un mondo realmente in tre dimensioni. Mario Kart 64 infatti sfruttava il potente hardware del Nintendo 64 per creare delle piste completamente in grafica 3d poligonale, aumentando di molto il senso di realismo e profondità. Curiosamente, i personaggi vennero invece rappresentati in due dimensioni, sfruttando una tecnica chiamata billboarding.
Dal punto di vista del gameplay, il gioco rimaneva pressoché invariato, salvo per la fisica dei kart, leggermente ritoccata. L’unica reale novità rispetto al passato, oltre alla già citata grafica in 3d, era la possibilità di giocare in multiplayer fino ad un massimo di 4 giocatori tramite schermo diviso.
Nel complesso, il gioco fu bene accolto, anche se dovette subire diverse critiche. Molti giocatori ritennero Mario Kart 64 troppo simile al predecessore. Inoltre, il gioco era accusato di non sfruttare appieno le potenzialità del Nintendo 64. Queste perplessità non impedirono al gioco di raggiungere i 10 milioni di copie vendute.
Mario Kart formato tascabile
Dopo altri cinque anni di attesa, fece la sua apparizione il terzo capitolo della saga. Questa volta, però, Nintendo decise di realizzare, per la prima volta, un episodio di Mario Kart per la sua console portatile di punta, ovvero il Game Boy Advance.
Il gioco riproponeva le medesime modalità dei suoi predecessori e un gameplay con pochissime reali innovazioni. Tuttavia, Super Circuit poteva vantare ben 40 piste differenti. Oltre ai circuiti nuovi, vennero recuperate anche tutte le piste del Mario Kart originale. Oltre a questo, il gioco sfruttava il cavo di collegamento del GBA per permettere a più giocatori di sfidarsi tra loro in modalità multiplayer.
Era anche possibile condividere i propri “fantasmi”, ovvero i giri migliori realizzati nelle prove a tempo, per permettere ai giocatori di migliorarsi costantemente. Purtroppo, la modalità multiplayer soffriva di vari rallentamenti ed imperfezioni di gameplay, che andavano a penalizzare l’esperienza. Nel complesso, anche Super Circuit ottenne un ottimo successo ed è tutt’oggi considerato uno dei migliori giochi per GBA.
Doppio scatto
Nel 2003 fu la volta di Mario Kart: Double Dash, uscito per Game Cube, la nuova console casalinga della grande N. Oltre all’ovvio aggiornamento grafico e al maggior numero di personaggi, questo nuovo Mario Kart portò con sé una serie di novità di Gameplay.
Anzitutto, ora le gare si svolgevano a coppie. Mentre il primo dei sue personaggi si occupa della guida, il secondo gestisce l’uso degli oggetti. Questa scelta faceva sentire il suo peso soprattutto in multiplayer, dove i giocatori potevano cooperare correndo sullo stesso veicolo e scambiandosi i ruoli all’occorrenza. A proposito di multiplayer, Double Dash, oltre all’ormai canonica modalità a quattro giocatori, permetteva a ben otto partecipanti di sfidarsi insieme in modalità LAN.
Il gioco inoltre potenziava il sistema delle derapate, permettendo l’uso di una sorta di mini turbo. Quest’ultimo si attivava muovendo lo stick a destra o a sinistra durante una derapata ed era contrassegnato da uno scintillio giallo. Era addirittura possibile, per i giocatori più esperti, sfruttare questo mini turbo anche nei rettilinei, utilizzando in modo sapiente il drift. Infine, i personaggi erano divisi in base alle categorie di peso. Ad ogni categoria erano assegnati determinati Kart, le cui prestazioni variavano notevolmente, proprio per rispettare le caratteristiche delle varie categorie.
Anche questo gioco venne accolto favorevolmente ed ottenne un ottimo successo di vendite. Ancora una volta, però, non mancarono alcune critiche. A far storcere il naso era la mancanza di reali novità, che rendeva il gioco ancora troppo simile a Mario Kart 64, sebbene fossero trascorsi 7 anni tra un gioco e l’altro.
Ritorno al portatile
Nel novembre 2005 uscì su Nintendo DS, la fortunata console portatile a due schermi, il quinto capitolo della serie Mario Kart, ovvero Mario Kart DS. Stavolta si trattò di un successo veramente epocale, visto che il gioco venne acclamato all’unanimità dalla critica e riuscì a vendere quasi 24 milioni di copie, divenendo il terzo gioco più redditizio della saga.
I fattori di questo successo furono molteplici. Anzitutto, il comparto tecnico. Mario Kart DS presentava una grafica solidissima, con modelli poligonali ben definiti, sfondi molto ampli e dettagliati e un’ottima fisica di gioco, in grado di rendere in maniera ottimale la frenesia e dinamicità delle corse.
Inoltre, il gioco proponeva diverse migliorie di gameplay. In Mario Kart DS le prestazioni vengono determinate dalla selezione del veicolo. Ognuno dei dodici personaggi infatti dispone di tre kart tra cui scegliere, ognuno con il suo bilanciamento. Questo rendeva essenziale per il giocatore conoscere i vari mezzi, per comprendere quale meglio si adattava al suo stile di guida. Inoltre Mario Kart DS potenzia la meccanica del Drift, rendendola ancora più essenziale per ottenere buoni piazzamenti.
Infine, questo quinto episodio rinnovava anche le modalità di gioco, introducendo la modalità missione, in cui il giocatore non deve solo vincere una corsa, bensì realizzare i vari obiettivi via via proposti. Infine, il gioco supportava anche una modalità online, attraverso la quale potevano sfidarsi tra loro giocatori da ogni parte del mondo tramite il servizio Nintendo Wi-Fi Connection, i cui server sono ora archiviati.
Mario Kart sbarca su Wii
Tre anni più tardi, nel 2008, la serie Mario Kart sbarcò su Nintendo Wii, una delle console di maggior successo della storia di Nintendo. Come prevedibile, il gioco presentava come principale innovazione l’utilizzo del sensore di movimento dei wiimote, che simulava l’utilizzo di un vero volante (il gioco era anche venduto insieme ad un gadget a forma di volante in cui poteva essere inserito il wiimote).
Questa caratteristica rendeva il gioco ancora più accessibile, anche grazia alla possibilità di scegliere una tipologia di controlli semplificati, che tuttavia non garantivano tutte le funzionalità legate al drift e ai mini turbo. In Mario Kart wii, infatti, la meccanica dei turbo tornava ulteriormente ampliata, grazie alla presenza di ben tre differenti livelli di accellerazione, contrassegnate da tre colori diversi e sbloccabili in base all’abilità nel prolungare le derapate. Era anche possibile prendere la scia di un avversario, beneficando di una poderosa spinta turbo.
Mario Kart Wii risultava anche ben realizzato graficamente e ricco di contenuti, dal momento che presentava ben 24 personaggi, 36 veicoli, divisi tra kart e moto, e 32 circuiti. Tornavano anche tutte le modalità tipiche della serie, con l’eccezione della modalità Missioni, mai più riproposta. Anche il comparto online, sebbene non perfetto, era presente e permetteva a ben 12 giocatori da ogni parte del mondo di sfidarsi.
Pur raggiungendo l’incredibile cifra di 37 milioni di copie vendute e sebbene avesse collezionato consensi quasi ovunque, Mario Kart Wii fu pesantemente criticato dai puristi per il cattivo bilanciamento degli oggetti, molti dei quali risultavano troppo forti e soprattutto, venivano assegnati con criteri non sempre coerenti. Inoltre, il gioco presentava un sistema di difficoltà in grado di adeguarsi in tempo reale all’abilità del giocatore. Tuttavia, questa funzionalità non sempre funzionava a dovere, creando frustrazione e nervosismo nei giocatori, che vedevano i loro sforzi e la loro abilità frustrate da un’assegnazione “sleale” degli oggetti.
Mario Kart passa al 3D
Era inevitabile che anche il Nintendo 3DS, la console portatile erede spirituale del DS, ospitasse un episodio della serie Mario Kart. ecco dunque arrivare, nel corso del 2011, Mario Kart 7. La principale innovazione di questa nuova versione di Mario Kart era la possibilità di guidare in prima persona, sfruttando il giroscopio del Nintendo 3DS. Questa scelta sfruttava bene l’effetto di tridimensionalità della console e rendeva le corse ancora più immersive e visivamente coinvolgenti.
Oltre a questo, Mario Kart 7 presentava alcuni tratti di corsa in cui il nostro veicolo avrebbe dovuto volare o immergersi in acqua per alcuni tratti, sempre per valorizzare l’esperienza della visuale in prima persona. Viene introdotta anche la possibilità di personalizzare i propri kart, selezionando il corpo principale, le ruote e l’attrezzo usato per planare. Tutte queste modifiche vanno naturalmente ad impattare la guidabilità del veicolo.
Per il resto, il gioco riproponeva in maniera fedele il gameplay e le modalità dei giochi precedenti, con la sola aggiunta di una modalità il cui scopo era raccogliere più monete degli avversari, chiamata coin runner. Il gioco ricevette una buona accoglienza, anche se venne criticata la sostanziale mancanza di reali novità.
Il capolavoro
Nel 2014 uscì per Nintendo Wii U quello che è universalmente considerato il miglior Mario Kart in assoluto, ovvero Mario Kart 8. Il gioco presentava una splendida grafica in alta definizione, che regalava alle corse una pulizia ed una fluidità mai raggiunte fino a quel momento.
Tra le principali innovazioni, Mario Kart 8 introduce l’antigravità. In alcune sezioni della pista, il Kart poteva trasformarsi in una sorta di hovercraft, acquisendo la possibilità di aderire ad alcune pareti, permettendo di guidare letteralmente sottosopra. In queste fasi è anche possibile ottenere delle spinte turbo entrando in contatto coi kart avversari.
Oltre a questo, Mario Kart 8 presentava un numero altissimo di personaggi, tracciati e veicoli, suddivisi tra kart, moto e quad. Le modalità, invece, non presentavano particolari innovazioni. Furono aggiunte diverse piste alla modalità battaglia, per renderla più varia ed interessante. Inoltre la modalità online venne ampliata e perfezionata.
Tutte queste caratteristiche resero Mario Kart 8 un successo assoluto, rendendolo il gioco più venduto per Wii U. Questo enorme successo spinse Nintendo a realizzare una versione remake del gioco per Nintendo Switch. Nel 2017 venne dunque realizzato Mario Kart 8 Deluxe. Questa nuova versione migliorava la risoluzione del gioco, portandola a 60 fps al secondo stabili.
Il gioco inoltre migliora ulteriormente la modalità battaglia e consente ad ogni personaggio di trasportare due oggetti contemporaneamente. Inoltre vennero ulteriormente ampliati il numero dei personaggi e dei tracciati. In seguito al rilascio dei vari DLC, Deluxe arriva a contare ben 96 tracciati, suddivisi tra nuove piste e riedizioni di vecchi tracciati presi un po’ da tutta la saga.
Il successo di Mario Kart 8 Deluxe fu letteralmente esplosivo, al punto da diventare il gioco più venduto per Switch. Nintendo comunica che, sommando le vendite di entrambe le versioni, il gioco supera i 60 milioni di copie (se fosse vero si tratterebbe del quarto videogioco più venduto di sempre).
Gli Spin-off
Oltre ai titoli della serie originale, Mario Kart ha generato anche una serie di spin-off. Citiamo anzitutto la serie Mario Kart Arcade Gp. Si tratta di tre giochi, usciti tra il 2005 e il 2013 nelle sale giochi in collaborazione con Namco.
I primi due episodi, usciti nel 2005 e nel 2007 presentano un gameplay molto simile a quello dei giochi della saga principale. Le uniche novità consistono nella possibilità di selezionare ad inizio gara tre oggetti. Ogni volta che durante la corsa si attiva un bonus, esso sarà selezionato tra i tre oggetti scelti a inizio corsa.
Il terzo episodio, Mario Kart Arcade GP DX, del 2013, aggiunge tutte le novità viste in Mario Kart 7, tra cui l’utilizzo delle planate e le sezioni subacquee. Nel 2017 arrivò Mario Kart Arcade GP VR. Come suggerisce il titolo, questa versione venne realizzata appositamente per le sale giochi che avevano a disposizione la tecnologie VR e poteva essere giocato solo con l’ausilio di un visore.
Parliamo ora di Mario Kart Tour, versione mobile di Mario Kart distribuita nel 2019 per tutti i dispositivi Android e IOS. Il gioco tenta di riproporre le meccaniche tipiche della serie adattandole ai controlli tipici dei sistemi mobile. Tour presenta una grafica molto pulita ed un gameplay piuttosto profondo. Inoltre propone regolarmente una serie di tour, sorta di eventi in grado di proporre sfide sempre nuove ed aggiornate.
Tuttavia, il gioco, pur venendo scaricato da un numero altissimo di utenti, non ha ottenuto consensi unanimi. A finire nel mirino è stato soprattutto il sistema di microtransazioni presente in Mario Tour, che penalizza in maniera importante tutti gli utenti che non usufruiscono dell’abbonamento premium.
Chiudiamo la nostra rassegna con Mario Kart Live: Home Circuit. Uscito nel 2020, questo interessante esperimento consiste in un piccolo kart radiocomandato con alla guida Mario o Luigi. Sfruttando la propria Nintendo Switch e le funzionalità della telecamera posizionata all’interno del kart, Home Circuit consente di trasformare le stanze della propria casa in veri e propri tracciati, che possono essere organizzati a piacimento grazie all’ausilio di una serie di bandierine colorate, che fungono da checkpoints e da punto di arrivo. Pur senza far gridare al miracolo, Home Circuit ha ottenuto una buona accoglienza e rappresenta una ventata di aria fresca nella serie e nel panorama dei giochi di guida in generale.
In conclusione, la saga di Mario Kart è certamente una delle più longeve e di maggior successo nel panorama videoludico, soprattutto per quanto riguarda Nintendo. Il compito che attende Mario Kart world non è certamente tra i più semplici. Vedremo se Nintendo e la sua intramontabile mascotte riusciranno a stupirci di nuovo.
Parlando del genere picchiaduro, i primi titoli a balzare alla mente dei videogiocatori sono certamente Tekken e Street Fighter. Tuttavia, per tutto il corso degli anni 90 e per parte del decennio successivo, la giapponese SNK è stata senz’altro una delle eccellenze assolute nell’ambito dei giochi di lotta. Fatal Fury, assieme a The King of Fighters, è stata certamente la saga di maggior successo della casa di Osaka.
Col passare degli anni, la saga ha purtroppo perso gran parte della sua popolarità. Nel corso della sua storia, tuttavia, Fatal Fury ha raggiunto livelli di successo notevoli, soprattutto in Giappone. Qui alla saga vennero dedicati manga, numerosissimi gadget e persino dei film di animazione.
Recentemente, dopo una lunghissima attesa, Fatal Fury è tornato a far parlare di se.A fine mese infatti è prevista l’uscita di City of Wolves, ultima incarnazione del franchise. In attesa di scoprire se il gioco avrà le carte in regola per riportare in auge la saga, ripercorriamo insieme le tappe più importanti della nascita e dell’evoluzione di Fatal Fury. Pronti al ritorno dei lupi?
Le origini di Fatal Fury
Il primo Fatal Fury apparve nelle sale giochi giapponesi il 21 novembre 1991, col titolo completo di Garō densetsu – Shukumei no tatakai, ovvero “La leggenda del lupo affamato – La battaglia del destino”, che giunse in occidente col titolo Fatal Fury: The King of Fighters.
La trama del gioco vede i due fratelli Terry ed Andy Bogard, spalleggiati dall’amico Joe Higashi, intraprendere un lungo viaggio per vendicarsi del signore del crimine esperto di arti marziali Geese Howard, colpevole dell’omicidio del padre dei due fratelli.
Dal punto di vista del Gameplay, il gioco ripropone lo schema visto in Street Fighter 2, coi due lottatori posti uno di fronte all’altro e intenti a suonarsele a suon di attacchi leggeri, potenti e mosse speciali. Nel corso della modalità single player, erano presenti una serie di livelli bonus. Questi ultimi, una volta superati, rivelavano le combinazioni per eseguire le varie mosse speciali dei personaggi.
La novità introdotta da Fatal Fury consisteva nella presenza di due piani di gioco differenti. Durante la lotta, tramite la pressione di un tasto, era infatti possibile spostare il proprio lottatore da un piano all’altro. Questa meccanica, sebbene solo abbozzata, donava agli scontri un pizzico di varietà in più e permetteva a Fatal Fury di distinguersi dalla concorrenza. Inoltre il titolo SNK poteva vantare una grafica molto curata e ben definita ed una grande attenzione alla trama e alla caratterizzazione dei personaggi.
Queste caratteristiche permisero a Fatal Fury di ottenere un buon successo, sebbene, diverse critiche colpirono il basso numero di personaggi giocabili (solo tre nella modalità ad un giocatore) e l’eccessiva difficoltà di gioco. Il titolo venne anche convertito per varie console casalinghe, con la versione Neo Geo che risultava facilmente la migliore.
Tra sequel e special
Visto il buon successo raggiunto, SNK decise di realizzare un sequel per la saga dei Bogard. Nel dicembre del 1992 ecco dunque arrivare Fatal Fury 2 (titolo originale Garō Densetsu 2: Arata-naru Tatakai, cioè La leggenda dei lupi famelici 2: la nuova battaglia).
La trama vede Wolfgang Krause, fratellastro di Geese, organizzare un nuovo torneo per fidare colui che aveva sconfitto Howard. Inutile dire che Terry riuscirà nuovamente ad abbattere il rivale, confermandosi campione. Rispetto al predecessore, Fatal Fury 2 presentava un roster molto più vasto, tra cui spiccavano Mai Shiranui, provocante lottatrice esperta di ninjutsu e Kim Kaphwan, lottatore koreano destinato a diventare una delle colonne della saga.
Fatal Fury 2 presentava anche varie migliorie al gameplay, col ritorno dei due piani di gioco e la possibilità di spostarsi da uno all’altro in qualsiasi momento. compaiono anche una super mossa particolarmente distruttiva e l’evasion attack, una sorta di contromossa eseguibile parando gli attacchi avversari col tempismo giusto.
Il successo di Fatal Fury 2 fu enorme, soprattutto nelle sue versioni casalinghe, tra cui brillavano quelle per SNES e Mega Drive. L’anno successivo vide la luce una versione migliorata di Fatal Fury 2, ovvero Fatal Fury Special. Questo gioco, considerato uno dei migliori della saga, poteva vantare un roster ulteriormente ampliato, una maggiore velocità e l’inserimento di un rudimentale sistema di combo. Terminando il gioco senza perdere neppure un round era possibile affrontare Kyo Kusanagi, il protagonista di The King of Fighters.
Non c’è due senza tre
Dopo l’edizione Special, la serie si prese una piccola pausa. Nel marzo 1995, però, ecco arrivare il terzo capitolo, ovvero Fatal Fury 3: Road to the Final Victory ( Garō Densetsu 3 Harukanaru Tatakai in originale). Questo terzo episodio apportò numerosi cambiamenti al gameplay.
Anzitutto il sistema del combattimento a più piani venne implementato, con l’aggiunta di un terzo piano di gioco e la possibilità di eseguire numerosi attacchi che potevano colpire l’avversario anche se si trovava su un piano differente. Inoltre il giocatore ebbe la possibilità di eseguire salti di differente intensità ed altezza. Anche il sistema di combo venne perfezionato.
La modifica più impattante però fu l’inserimento delle super mosse, attacchi particolarmente devastanti eseguibili nel momento in cui la barra dell’energia iniziava a scarseggiare. Ogni personaggio disponeva anche di una seconda super nascosta, la cui esecuzione risultava però difficilissima, in quanto l’attivazione avveniva solamente con una percentuale molto limitata di successo. Il gioco, oltre che in versione arcade, apparve anche su Neo Geo, Neo Geo CD e Sega Saturn, ottenendo un ottimo successo sia dalla critica che tra i fan.
La serie Real Bout
Sempre nel 1995, a dicembre, SNK pubblicò anche Real Bout Fatal Fury (Real Bout Garō Densetsu), primo capitolo della sottosaga Real Bout. Caratteristica principale di questo gioco e dei suoi succesori era un motore grafico particolarmente curato e spettacolare, che rendeva il gioco molto più simile ad un anime giapponese.
Anche il Gameplay presentava numerose migliorie, grazie all’introduzione di una barra dell’energia spirituale, che poteva essere sfruttata per eseguire vari contrattacchi e mosse speciali. Anche le famigerate abilità nascoste, attivabili solo nel momento in cui la barra dell’energia raggiungeva livelli critici, fecero il loro ritorno. Questa volta però la loro esecuzione risultava più semplice, anche se condizionata dalla barra dell’energia spirituale. vennero anche introdotte alcune arene in cui era possibile vincere per ring out, scaraventando l’avversario fuori dallo stage.
Anche il roster venne ulteriormente ampliato, con volti vecchi e nuovi, mentre la trama si incentrava sull’ascesa di Geese Howard, che al termine del gioco precedente era riuscito ad impossessarsi di alcune potentissime pergamene.
Una saga nella saga
Negli anni seguenti, SNK pubblicò altri due episodi della saga Real Bout. Il primo, Real Bout Fatal Fury Special, uscì nel 1997, sempre in versione arcade e Neo Geo. Il gioco era un semplice perfezionamento dell’episodio precedente, impreziosito da un maggior numero di personaggi e da un comparto tecnico perfezionato.
Di questo gioco venne realizzata anche una versione aggiornata per Playstation, denominata Real Bout Special: Dominated Mind. Questa edizione era impreziosita dalla presenza di numerose sequenze animate realizzate dalla Sunrise, oltre che da un nuovo potenziamento del roster.
Nel marzo 1998 fu la volta di Real Bout fatal Fury 2: The newcomers ( in originale Real Bout Garō Densetsu 2: The Newcomers, Real Bout Legend of the Hungry Wolf 2). RB2 ridimensionava il ruolo dei piani di gioco, ora utilizzati solo per effettuare schivate e particolari attacchi. Inoltre, il gioco potenziava in modo importante tutto l’assetto tecnico, presentando una grafica davvero spettacolare, colorata e ricca di dettagli. Particolare impressione destavano le mosse speciali, che scatenavano un uragano di luci ed effetti visivi molto appariscenti.
Sebbene tutti questi giochi fossero di qualità davvero elevata, il genere dei picchiaduro 2d stava attraversando un periodo di grande affanno, soprattutto a causa del successo dei giochi in tre dimensioni. Il pubblico tendeva ormai a preferire giochi come Tekken o Virtua Fighter ai classici giochi in 2d. Di conseguenza, la saga di Fatal Fury iniziò ad avere un ruolo sempre più marginale nel mercato.
Esperimenti e spin off
Vista la situazione, SNK decise di spostare anche la sua saga più famosa al mondo delle tre dimensioni. Nel gennaio 1999 apparve nelle sale giochi Fatal Fury: Wild Ambition, poi convertito anche per la prima Playstation. Il gioco riproponeva la trama e l’ambientazione del primo Fatal Fury, aggiungendo numerosi personaggi al cast originale.
Pur presentando una grafica tridimensionale e lottatori realizzati tramite modelli poligonali, il gameplay di Wild Ambition non si discostava in maniera pesante dagli altri titoli della saga. I movimenti, le mosse speciali e le dinamiche degli scontri seguivano infatti i ritmi settati dalla saga Real Bout. I lottatori avevano la possibilità di muoversi in profondità, ma queste schivate andavano semplicemente a sostituire l’utilizzo dei due piani di gioco visto nei titoli precedenti.
Questa natura ibrida del gioco non seppe conquistare né la critica né i fan, che riservarono a Wild Ambition un’accoglienza molto tiepida. Questo risultato convinse SNK del fatto che Fatal Fury fosse una saga ormai legata a doppio taglio alle caratteristiche dei picchiaduro 2d.
Dedichiamo una menzione anche a Fatal Fury: First Contact, unico episodio della serie ad essere uscito in formato portatile. Il gioco uscì sempre nel 1999 su Neo Geo Pocket
L’ultimo ululato
Nel novembre del 1999 uscì quello che è stato a lungo l’ultimo episodio della saga, ovvero Garou: Mark of the Wolves, conosciuto anche come Fatal Fury: Mark of the Wolves nella versione Dreamcast. Con questo gioco, SNK decise di provare a dare una sterzata decisiva alla serie. Mark of the Wolves è infatti ambientato ben dieci anni dopo l’ultimo episodio della saga e sostituisce praticamente tutti i vecchi lottatori, con la sola eccezione di Terry. Il ruolo del protagonista passò a Rock Howard, figlio adottivo di Terry.
Dal punto di vista del gameplay, il gioco presentava, in generale, un approccio più semplice rispetto al passato, per incoraggiare i neofiti. Vennero introdotti la Tactiacal Offense Position, con la quale il giocatore poteva selezionare una zona della sua barra dell’energia, una volta raggiunta la quale il personaggio avrebbe sbloccato tutta una serie di potenziamenti. Venne inoltre introdotto il sistema “just defend”, che donava una serie di vantaggi in base alla precisione con cui venivano eseguite parate e schivate.
Tecnicamente parlando, il gioco era di qualità elevatissima, con sfondi dettagliatissimi e personaggi realizzati ed animati in maniera superba. Anche il sonoro svolgeva il suo compito in maniera egregia, con musiche molto azzeccate e d’atmosfera.
Il gioco fu accolto molto calorosamente e ricevette generalmente recensioni molto positive, al punto da essere spesso accostato a Street Fighter 3. Nonostante questo, il declino della saga (e del genere dei picchiaduro 2d in generale) sembrava ormai inarrestabile. Dopo Mark of Wolves, infatti, non fu realizzato nessun nuovo Fatal Fury. Almeno, fino ad ora.
La città dei lupi
Fin dal 2005 SNK aveva rivelato di avere in serbo un progetto sul sequel di Mark of Wolves. Tuttavia, col tempo, l’idea venne accantonata e, nel 2016, gli sviluppatori rivelarono che la versione Neo Geo del gioco era stata cancellata. Tuttavia, nel 2020 il direttore Kuroki rivelò che la volontà di realizzare questo nuovo episodio della saga era ancora ben salda.
Durante l’EVO del 2022 fu per la prima effettuato l’annuncio ufficiale del gioco. Negli anni successivi sono state diffuse sempre maggiori informazioni, oltre, naturalmente, ai primi trailer. Da quel che traspare, il gioco sembra allinearsi alle ultime produzioni SNK, come Samurai Shodown e The King of Fighters XV. Tra poche settimane sapremo se City of Wolves sarà all’altezza della sua eredità e se i lupi famelici torneranno a lottare per il dominio del territorio dei picchiaduro!
Ed eccoci di nuovo qui, a forgiare armi ed armature, a costruire i nostri set per cacciare bestioni enormi e, almeno ufficialmente, per “salvare il mondo”. In realtà invece, “ufficiosamente”, il nostro scopo principale è rompere le parti dei mostri e costruire equipaggiamenti ancora migliori per affrontare nemici ancora più forti. Sì, Monster Hunter è tornato in tutta la sua potenza, confermando quella storica equazione che lo ha reso negli anni un masterpiece per gli amanti del genere, quel titolo per cui ogni capitolo della saga rappresenta attesa, hype e ore di gioco infinite.
Parliamoci chiaro: Wilds è il titolo che tutti, ma veramente tutti gli amanti di Monster Hunter aspettavano. Certo, come ogni uscita c’è sempre quel qualcosa che manca, quell’aspetto che “si poteva fare meglio” o quel mostro storico che “mi sarebbe tanto piaciuto combattere anche qui e invece non c’è”, ma, siamo onesti: i giocatori di MH sono esigenti, molto esigenti, sognano in grande, talmente in grande che spesso quello che si trovano davanti non gli basta. Ma questo non significa che non gli piaccia: lo dimostrano le otto milioni di copie vendute in soli tre giorni e gli oltre 1,3 milioni di giocatori attivi in contemporanea soltanto su Steam (e il gioco è crossplatform).
Il trionfo di Monster Hunter
Ma che cos’è che rende Wilds così speciale? Semplice: il nuovo titolo Capcom sancisce il ritorno al modello di Monster Hunter World, il capitolo della saga che si può fregiare di essere stato il primo a trasformare il prodotto di nicchia in un gioco adatto a tutti. Lo stesso non si può dire del suo successore, Monster Hunter Rise, un titolo bello e solido ma divisivo, concepito per essere un gioco dedicato principalmente ai giocatori Nintendo e alla “vecchia guardia”.
Su Wilds si è già detto tanto: il combat system aggiornato che aggiunge senza togliere nulla alle armi. La possibilità di personalizzare personaggi, compagni e accampamenti. Il nuovo sistema di “open world” senza una vera e propria base, ma con una serie di accampamenti a cui possiamo accedere liberamente con la nostra cavalcatura (e senza schermate di caricamento). Wilds è un gioco fresco, ma che rispetta la tradizione, un titolo a cui si riesce a perdonare (e no, non si dovrebbe mai) anche un’ottimizzazione non proprio perfetta per Pc.
La domanda da porci ora è: cosa ci si aspetta da questo gioco? Perché si sa, bella la storia, ma il vero Monster Hunter inizia dopo i titoli di coda, con l’apertura dell’High Rank e l’apparizione di mostri più forti. Anche in questo caso, arrivare al fatidico GC 100 (ossia il massimo Grado Cacciatore) è abbastanza semplice (ma non per questo poco divertente) e ora lo sguardo è proiettato verso i prossimi contenuti che verranno man mano rilasciati da Capcom.
Prospettive future
Intanto, così come accaduto in World e in Rise, partiamo dalle certezze. Ad un certo punto ci sarà un’espansione importante, che introdurrà il tanto atteso Master Rank e tutta una nuova serie di mostri, equipaggiamenti e nuove feature. Ci stiamo pensando già oggi, a pochi giorni dall’uscita? Ovvio, che domande, lo si attende con lo stesso hype con cui si attendeva l’uscita dello stesso Wilds.
Poi c’è tutta la serie di aggiunte che Capcom rilascerà piano piano, tra nuovi mostri o versioni alternative di nemici già conosciuti, così da dare una ventata d’aria fresca all’esperienza di gioco, con l’obiettivo di mantenere acceso l’interesse verso il titolo.
Date da ricordare
In tal senso, i prossimi appuntamenti sono già stati rivelati: ad inizio aprile, nelle lande comparirà un nuovo mostro che abbiamo imparato ad amare (e ad odiare) in Wilds: si tratta della Muzutsune, il cui esordio sarà accompagnato da una quest evento e da aggiornamenti addizionali, tra cui nuovi livelli di sfida e il tanto atteso Gathering Hub, una stanza in cui i cacciatori possono incontrarsi, comunicare e condividere pasti prima della partenza per una missione.
Capcom ha poi rivelato anche l’uscita di un altro aggiornamento, sempre gratuito, atteso per l’estate: in questo caso i dettagli sono pochi: ci sarà un mostro addizionale ancora ignoto, una quest evento e altro ancora.
Oltre a questi free update più succosi, ci saranno aggiornamenti regolari con altre quest: – Kut-Ku Gone Cuckoo: 4 Marzo – 11 Marzo (Mimiphyta alpha headgear) – Stalking Supper: 4 Marzo – 11 Marzo (Kunafa Cheese) – Tongue-Tied: 11 Marzo – 18 Marzo (Armor Spheres) – Kut-Ku Gone Cuckoo: 11 Marzo – 18 Marzo (Mimiphyta alpha headgear) – Ballet in the Rain: 18 Marzo – 25 Marzo (Glowing Orb) – Sand-Scarred Soul: 18 Marzo – 25 Marzo (Glowing Orb)
Insomma, non resta che continuare a cacciare, perché se abbiamo capito bene, Wilds è un mondo che Capcom continuerà a popolare con costanza, per rendere l’esperienza di gioco mai ripetitiva e sempre in linea con le aspettative dei giocatori.
Ah la prima PlayStation! Quanti bei momenti passati davanti a quello scatolotto grigio pieno di emozioni, che prendeva ognuno di noi per mano trascinandoci in nuovi mondi tutti da esplorare. E quanti titoli, quanti generi, quanta varietà! Non mancava proprio nulla, ce n’era per tutti i gusti. Almeno così mi hanno detto. Già, perché sono nato un pelo dopo gli anni d’oro del videogame: io infatti, classe 2001, ho vissuto gli albori della PlayStation 2 che reputo la miglior console di sempre (ma è un mio parere personale). Purtroppo, titoli come Tomb Raider, Metal Gear Solid e Resident Evil per me erano sconosciuti, me li sono dovuto recuperare poi una volta cresciuto. E tra questi, mi duole dirlo, persi persino il messia dei “giochi di botte”, colui che ascese dal cielo per mostrare all’umanità intera come si crea un picchiaduro, ovvero Tekken 3.
Tekken 3, un mito senza tempo
Sono molto affezionato alla serie di Tekken dato che è la mia “fighting saga” preferita. In particolare, all’epoca di Playstation 2, ero letteralmente in fissa con Tekken 5 (che rimane il mio capitolo preferito): tra le tante modalità presenti ricordo che Namco aveva inserito la possibilità di giocare ai primi 3 prequel, ma ai tempi ero ancora un bambino e li reputavo abbastanza brutti.
Ora che sono cresciuto e che i miei gusti sono cambiati, dopo aver giocato davvero a Tekken 3 posso dire che mi ha davvero stupito: una volta finito il capitolo precedente, mosso dalla curiosità mi sono lanciato subito sul suo sequel e sono rimasto davvero incredulo da quello che stavo vedendo, pur essendo un gioco con tanti anni alle spalle.
Cosa mi ha portato a rimanere così sbalordito per molti sarà evidente: chi lo ha giocato sa perfettamente quali sono state le innovazioni che questo capitolo ha portato, trasformandosi in un vero e proprio tormentone per parecchi anni. Ma, per parlarne meglio e per comprendere effettivamente cos’è stato rivoluzionato, bisogna spendere due parole su quello che la saga di Namco voleva diventare all’inizio.
Tekken prima di Tekken
Dopo l’uscita di Tekken 2, Namco sembrava aver deciso quale strada seguire per la sua saga. Il secondo capitolo, infatti, non era nient’altro che il primo limato dai suoi difetti. Nessuna scelta fu più azzeccata di questa. Namco riuscì a creare un’infrastruttura solida e divertente, oltre che rigiocabile più volte grazie all’aggiunta di diverse modalità.
I fan non potevano chiedere di meglio: certo, i personaggi erano un insieme di poligoni che si muovevano, ma è altrettanto vero che erano presenti molti più colori a schermo che donavano più dettagli. Ogni personaggio aveva uno stage dedicato e il roster era molto più vario rispetto al capitolo precedente.
Le musiche erano orecchiabili, le modalità di gioco erano accolte positivamente e i personaggi erano caratterizzati molto bene (è impossibile dimenticarsi del bellissimo King in cravatta o dei capelli stravaganti di Heihachi Mishima). Inoltre, il gameplay era fatto veramente bene per i tempi che correvano: le animazioni donavano al gioco una buona dose di realismo ed eseguire le combo è ancora oggi appagante.
Dalle stelle alle galassie, il manuale secondo Namco
Tekken 2, in un certo senso, appariva ancora troppo simile al competitor di Sega, ovvero Virtua Fighter. Il gioco di Namco divenne famoso principalmente grazie alla console di Sony, ma non era abbastanza. Per questo, un anno dopo l’uscita di Virtua Fighter 3, la casa nipponica decise di mostrare il suo nuovo Tekken 3 con un trailer dedicato ad un evento per giochi arcade, ottenendo il riscontro positivo desiderato.
La gente rimase sbalordita e, quando nel 1998 uscì tra gli scaffali, Tekken 3 tenne fede alle promesse fatte. La fluidità di gameplay era (ed è ancora) davvero stupefacente considerando che era un gioco Playstation 1: io, che l’ho giocato da poco, ho trovato ancora gratificante ogni singolo colpo, anche a distanza di quasi trent’anni dall’uscita.
La facilità con cui si possono concatenare tutte le mosse con così tanta fluidità dona una sensazione di realismo e di immedesimazione senza precedenti soprattutto per l’epoca. Tekken 3 sembrava capace di teletrasportare il videogiocatore all’interno di quello che sta accadendo a schermo in quel momento.
Tekken 3 è diventato famoso anche per la meccanica del sidestep: premendo due volte il tasto per saltare o per abbassarsi, il nostro PG può fare un passo in profondità verso di noi o dalla parte opposta, aggiungendo la possibilità di poter attaccare su più lati e non solo frontalmente.
Tutto ciò avviene in armonia con la telecamera dinamica, che segue i movimenti dei nostri personaggi anche durante le animazioni di grappling, donando delle azioni sempre in movimento per ogni livello che affronteremo.
Una struttura di gioco diversa
Gli avversari da battere sono sempre i classici dieci, ma con un’eccezione: chi ha giocato i primi due capitoli sa che per ogni personaggio che scegliamo è presente un rivale dedicato che troveremo negli ultimi livelli del gioco.
Tekken 3 invece ci propone dieci livelli come sempre, ma i primi otto avversari sono randomici mentre gli ultimi due, che sono i boss finali, sono sempre gli stessi. Questo perché la storia del gioco non è più incentrata sulle singole rivalità tra i membri del roster, ma tutti insieme dovranno unire le forze per sconfiggere i due nemici in comune.
Per quanto riguarda la difficoltà, non ci sono più tutti quegli stratagemmi usati per rendere il gioco più difficile, ma che in realtà facevano solo arrabbiare il giocatore. Ora infatti il nostro personaggio, se viene scaraventato a terra, si rialzerà quasi subito, in linea con la rapidità del gioco.
I combattimenti, oltre a essere veloci, risultano perfettamente bilanciati. Sin dalla prima partita si ha la sensazione di poter battere chiunque e che basti solo trovare il modo giusto per farlo. Ora infatti non troveremo più un Lee che spara calci a raffica senza mai fermarsi e senza poterlo mai interrompere.
Prendendo spunto da quello che è stato fatto nel precedente capitolo, Namco ha deciso di tenere le modalità che hanno contribuito a prolungare la vita del gioco, ma con alcune aggiunte.
Come nel prequel sono ancora presenti le modalità Sopravvivenza, Squadre e Pratica, ma viene aggiunta la Tekken Force Mode, una modalità alla Double Dragon dove camminando con il nostro personaggio dovremo sconfiggere i membri della Tekken Force. Abbiamo poi la modalità chiamata Tekken Ball Mode, dove dovremmo letteralmente fare una partita a pallavolo colpendo la palla con pugni e calci.
Cosa ha reso Tekken 3 memorabile
Se qualcuno ha buon gusto lo piò notare subito e Namco, all’epoca, ha dimostrato di averne a vagonate. Per esempio, vogliamo parlare di quanto sono belle le aree di combattimento? Come nel prequel, gli sviluppatori hanno creato per ogni personaggio un’arena dedicata. La cosa che mi ha sorpreso è la sensazione di unicità che ho provato nel vedere quei posti virtuali.
Infatti sono riusciti a creare delle mappe diversificate tra loro, inserendo degli elementi in grado di renderle facilmente distinguibili fin da subito. Inoltre, se si conosce la storia dei personaggi, risulta facile capire perché ad ogni personaggio è stata assegnata quella determinata zona, dando cosí una sensazione di coerenza.
Il tutto è accompagnato da una colonna sonora che ancora oggi risulta essere fuori di testa: Tekken 3 infatti ha un accompagnamento musicale di tutto rispetto che risuona ancora nelle memorie dei giocatori.
Tutto il merito va a Nobuyoshi Sano, che ci ha saputo davvero fare riuscendo a creare qualcosa che richiamasse lo stile rivoluzionario del gioco. Harada, il direttore di Tekken 3, racconta su Playstation Blog :
Ero un grande fan di Sanodg (Nobuyoshi Sano, ndr), per cui ho pensato di coinvolgerlo nel progetto ma a volte avevamo opinioni divergenti. Il concetto di Digital Rock era troppo alla moda e difficile da comprendere per noi. Disse che il suono digitale era il futuro e alla fine mi decisi ad affidargli l’intera direzione della musica, la quale si è rivelata una scelta giusta.
La bellezza del titolo si vede anche nei particolari più piccoli, come il vestiario dei personaggi: nessuno può dimenticare i pantaloni fiammeggianti di Jin Kazama, la tuta di Eddy o i pantaloni FILA abbinate a delle scarpe leggere e sportive di King. Gli sviluppatori sono riusciti nell’intento di creare un abbigliamento univoco, in linea con i tratti caratteriali dei personaggi, rendendoli così iconici.
Perchè Tekken 3 ha fatto la storia
In quegli anni il titolo di “miglior picchiaduro 3D” era conteso tra Tekken e Virtua Fighter di SEGA, ma alla fine degli anni ’90 il vincitore indiscusso fu il titolo di Namco. Chiedersi a questo punto il perché è assolutamente lecito, dato che le risposte sono molteplici.
Per quanto io sia un fan della serie di Tekken, devo ammettere che, graficamente, il titolo di SEGA è nettamente migliore, grazie al fatto che il Dreamcast era più potente della console di Sony. I fondali, i movimenti dei personaggi e il comparto tecnico generale sono alcuni degli aspetti su cui Virtua Fighter 3 predomina a mani basse su Tekken 3. Ma allora cosa ha spinto i fan a preferire il secondo rispetto al primo?
Il segreto del successo
La risposta è da ricercarsi tra diversi fattori: prima di tutto bisogna considerare come la Namco ai tempi prese la decisione di far uscire il suo titolo su PlayStation e non su Dreamcast. Infatti, per quanto potesse essere più potente, non era così popolare come la console di Sony, che era diventata un’icona pop.
A causa di alcune meccaniche, il gameplay di Virtua Fighter era molto più complesso di quello di Tekken. Per fare il famoso sidestep bisognava fare una combinazione di tasti molto più lunga e difficile rispetto a premere il tasto su (o giù) velocemente per due volte di seguito.
Il gameplay del titolo SEGA era indirizzato a chi aveva già famigliarità con i titoli precedenti, mentre Namco ha preferito fare un “piccolo reboot”, mantenendo comunque una certa continuità con i prequel.
Infine ecco il motivo più importante: ipersonaggi erano davvero caratterizzati al meglio, con delle musiche e delle arene che richiamavano sempre il combattente a cui erano dedicate. Tutto ciò ha contribuito, un po’ come Ryu di Street Fighter o Scorpion di Mortal Kombat, a rendere determinati personaggi veramente famosi e iconici, il tutto sulla console più venduta degli anni ’90.
Tutte ciò ha contribuito a rendere Tekken 3 quello che è diventato: un prodotto che è riuscito a far parlare di sè anche fuori dal mondo videoludico, diventando un’ icona POP riconosciuta da chiunque.
E questi sono i motivi che hanno portato Tekken 3 a fare la storia dei videogiochi. E voi cosa ne pensate? Lo avevate già giocato o non lo avete mai provato finora? Fatecelo sapere sotto nei commenti e ricorda di seguirci per non perdere i prossimi articoli! E già che ci sei, perchè non dai uno sguardo alla nostra recensione su Tekken 8?
Esistono pochi videogiochi in grado di accompagnare la crescita di bambini e adulti rimanendo rilevanti per oltre 25 anni. Pokémon è forse molto più di questo: un fenomeno culturale che ha plasmato non solo l’industria videoludica, ma l’immaginario collettivo di milioni di persone.
Sin dagli esordi, il franchise si è distinto per il design creativo dei mostriciattoli, una scrittura coinvolgente e un mondo ricco di dettagli. Per anni, questa cura è stata un punto fermo. Tuttavia, con il tempo, l’approccio di Game Freak è cambiato, dando vita a produzioni più frettolose, con un conseguente calo della qualità artistica e tecnica. Il più recente Pokémon: Scarlatto e Violetto (2022) ha esemplificato perfettamente questa transizione, con gravi bug al rilascio e problemi di prestazioni non indifferenti.
Questo articolo intende esplorare l’evoluzione della saga, analizzando le cause del suo declino tecnico-artistico nei titoli mainline.
Le origini di un fenomeno
La storia di Pokémon inizia nel 1996, con il rilascio di Pokémon Rosso e Verde su Game Boy. Il videogioco, un mix di RPG a turni e monster-taming, nasce dalla passione d’infanzia di Satoshi Tajiri per la collezione di insetti, un hobby molto diffuso in Giappone. Sviluppato da circa trenta persone, il progetto richiese sei anni di sviluppo. Il risultato fu innovativo ma pieno di bug, limitazioni tecniche e un bilanciamento della difficoltà poco appropriato. Le vendite non andavano benissimo, ma la rivelazione di Mew e l’evento dedicato, spinse i ricavi alle stelle, portando milioni di giocatori a cercare di ottenere il misterioso 151° Pokémon.
Game Freak e Nintendo, grazie al successo di Rosso e Verde, pubblicarono nel 1998 Pokémon: Rosso e Blu per il pubblico occidentale, una versione perfezionata del titolo originale. Il vero motore della Pokémon mania fu però una strategia di marketing senza pari: la serie animata, il boom delle carte collezionabili e una vasta gamma di gadget contribuirono a trasformarlo in un fenomeno globale.
Una pubblicità per l’evento di distribuzione di Mew. Bisognava mandare la propria cartuccia di gioco a CoroCoro Comics.
Un climax verso la massima qualità tecnico-artistica
Con l’uscita delle successive generazioni, i videogiochi dei Pokémon hanno continuato a perfezionare il proprio gameplay, espandendo il mondo e arricchendolo con nuove meccaniche. Pokémon Oro e Argento (1999) su Gameboy Color si distinguevano per un vasto contenuto di gioco, introducendo innovazioni come il breeding, il ciclo giorno-notte, 100 nuovi Pokémon e il Pokédex nazionale. Inoltre, la mappa risulta enorme grazie alla possibilità di riesplorare la regione di Kanto, affrontando nuovamente le 8 palestre e la Lega Pokémon.
Il franchise continuò quindi a innovarsi progressivamente, ma è con Pokémon Platino (2008) su Nintendo DS che la serie comincia a fornire un aspetto narrativo più coeso, migliorando la scrittura della trama e delineando una cosmogonia del mondo Pokémon.
Se Platino getta le basi per una narrativa più stratificata, è in Pokémon Nero e Bianco (2010) che si arriva al suo culmine. Qui la trama dei videogiochi si articola in una riflessione sulla moralità, sull’uso dei Pokémon e sulla natura stessa del legame che instaurano con gli esseri umani. A questa profondità narrativa si affianca un comparto tecnico e sonoro di altissimo livello: la grafica rappresenta un’eccellenza per l’epoca, con una pixel art dettagliata, sebbene non sempre apprezzata da tutti. La colonna sonora è sorprendente, con tracce rimaste iconiche ancora oggi. Inoltre, il Pokédex introduce 156 nuovi Pokémon, il numero più alto mai visto in una singola generazione.
Nonostante la sperimentazione verso un tono più adulto della saga, i dati di vendita riflettevano un malcontento non indifferente da parte dei fan e ciò costrinse i vertici a fare un passo indietro.
La mappa completa della seconda generazione Pokémon su GameBoy Color, che comprende la regione di Johto e di Kanto.
La transizione al 3D: un’opportunità sprecata?
Gradualmente negli anni, Game Freak ha accorciato i tempi di sviluppo e il segnale più evidente di questa rapidità produttiva arriva con Pokémon X e Y nel 2013. Il passaggio dal 2D al 3D mostra l’inizio di un declino visivo e narrativo: gli sprite 2D, ricchi di personalità, lasciarono il posto a modelli tridimensionali meno espressivi.
Sebbene l’introduzione di nuove meccaniche come le Megaevoluzioni, le mosse Z o le Gigamax abbiano portato a un’espansione interessante del gameplay, i cambiamenti non sono riusciti a compensare la crescente semplificazione di difficoltà e trama. Il passo indietro in termini di complessità e qualità è evidente, tutto sembra più frettoloso e, i retroscena emersi sulla sesta generazione, tra tagli alla storia originale e rimozione di features interessanti lo confermano.
La perdita della magia che ha reso Pokémon ciò che è oggi
L’anno di rilascio di ogni titolo Pokémon mainline (immagine reperita da NintendoPlayers UK)
Nonostante X e Y siano stati i primi in cui il calo tecnico-artistico risulta lampante, questo concetto non riguarda tanto il caso singolo o scelte adottate in un gioco piuttosto che in un altro. Il declino è, infatti, un problema legato principalmente alla produzione. I ritmi troppo serrati hanno costretto Game Freak a rilasciare titoli nella finestra temporale di un anno per favorire una distribuzione continua. L’obiettivo dell’azienda è diventato capitalizzare quanto più possibile economicamente preferendo la quantità a discapito della qualità.
Da un punto di vista finanziario, è una mossa remunerativa che massimizza i profitti. Dal lato etico e artistico, tuttavia, l’azienda risente parecchio per aver preso troppo le distanze dal motivo per cui è nata, ovvero la passione di un ragazzo che amava collezionare insetti e che ha deciso di dar vita a un mondo popolato da creature uniche.
L’allontanamento da questa premessa iniziale ha portato a cali di interesse nei confronti del prodotto videoludico, divenuto un mero pretesto per distribuire la nuova generazione Pokémon, su cui lucrare con merchandise, gadget e carte collezionabili. A risentirne è la qualità dei videogiochi che per essere più immediati e accessibili alle nuove generazioni non vengono curati abbastanza.
Uno dei numerosi glitch di Pokémon: Scarlatto e Violetto
Dal presente al futuro: rinascita o stagnazione?
Oggi, i titoli mainline sono spesso incompleti, con caratteristiche tagliate o implementate successivamente come nel caso di Ultrasole e Ultraluna (2017) o dei controversi DLC di Spada e Scudo (2019) e Scarlatto e Violetto. Questi ultimi hanno fatto molto discutere per la mancata disponibilità di tutti i Pokémon all’interno del Pokédex nazionale (gravissimo per videogiochi così recenti) oltre a varie limitazioni grafiche, bug, texture legnose e scelte di design discutibili.
Se da un lato questo “tirare la corda” ha portato al malcontento della fanbase, la situazione resta comunque economicamente stabile. I dati di vendita restano impressionanti e i titoli per Nintendo Switch, nonostante le pesantissime carenze figurano tra i cinque videogiochi Pokémon più venduti in assoluto.
Le copie vendute di tutti i videogiochi mainline Pokémon, aggiornati a Marzo 2024.
Parallelamente, con il progresso tecnologico, diverse software house indipendenti stanno puntando fortemente sul genere monster collector, cercando di emergere in un panorama ormai senza competitor efficaci da oltre venticinque anni. Le alternative come Cassette Beasts, Coromon, Lumentale non mancano, oltre a numerosi progetti fan made, che hanno reso giustizia allo spirito originale della saga.
Qualcosa però sembra smuoversi, poiché dopo un periodo di pausa più lungo del solito, il prossimo Pokémon Leggende Z-A potrebbe segnare un cambio di rotta a favore di produzioni più curate.
Solo il tempo potrà dirci se Pokémon sarà in grado di ritrovare la magia di un tempo, mettendo da parte i guadagni a favore di una ricerca qualitativa più sostenibile nel lungo periodo.
Negli ultimi anni numerosi videogiochi live service hanno pesantemente deluso le aspettative. L’esempio più recente è la chiusura dei server di Multiversus, dopo solo un anno dalla sua uscita ufficiale. Ma ci sono diversi esempi eclatanti: basti pensare all’insuccesso di Suicide Squad: Kill the Justice League di Rocksteady o al tremendo flop di Concord, costato a Sony quasi 400 milioni.
Ma che cosa sono i giochi live service? E perché sembrano essersi trasformati da potenziali miniere d’oro a trappole mortali in grado di causare perdite ingenti ad ogni cassa videoludica? In questo articolo approfondiremo il genere e chiariremo le cause che hanno portato al fallimento di tanti progetti potenzialmente vincenti.
Definizione e origini
Per live-service, o games as a service, si intendono tutti quei giochi che ricevono in maniera costante aggiornamenti e contenuti aggiuntivi. Si tratta, di norma, di giochi che possono essere scaricati gratuitamente, ma che offrono tutta una serie di ulteriori servizi a pagamento.
Le origini di questo modello vengono individuate nei famosi MMOs (massively multiplayer online games). Giochi come World of Warcraft, infatti, mettevano a disposizione del giocatore un ampliamento costante della trama e delle missioni di gioco, ma necessitavano di un abbonamento mensile per essere fruiti.
Un altro esempio di questo tipo di gestione èil famosissimo Team Fortress 2. Lo sparatutto di Valve, uscito nel 2007, per tenere alto l’interesse dei giocatori, nel 2011 divenne free to play. Tuttavia, Valve decise di puntare a monetizzare sui pacchetti aggiuntivi che venivano via via inseriti con gli aggiornamenti. Questi contenuti erano tutti a pagamento e riguardavano di solito armi o equipaggiamenti vari.
Come si può intuire, il punto di forza del modello Live service riguarda la longevità dei giochi. Grazie al costante rinnovamento dei contenuti, l’attenzione dei giocatori viene sempre mantenuta costante, donando al gioco una durata potenzialmente infinita. Le fonti principali di guadagno per gli sviluppatori consistono nelle microtransazioni presenti all’interno del gioco e nei famosi season pass.
Questi ultimi consistono in una serie di contenuti extra, come nuove mappe, nuove armi o parte della trama, che diventano fruibili solo in seguito al pagamento da parte del videogiocatore. Molti live service permettono anche di acquistare vari crediti spendibili in seguito a piacimento. Si tratta, come si può intuire, di metodi di guadagno non proprio trasparenti. Soprattutto quando gli oggetti ottenibili non possono essere scelti ma vanno trovati in scrigni, pacchetti o particolari slot. In maniera analoga ai gacha games, queste forme di monetizzazione sono spesso state associate al gioco d’azzardo.
Un (apparente) grande successo
Nel corso del tempo, sono stati numerosi i titoli che hanno inserito al loro interno dinamiche live service. Il motivo è più che evidente: i guadagni. Grazie alle microtransazioni e ai pass, infatti, questo genere di giochi ha guadagnato cifre davvero importanti, spesso anche superiori alle vendite dei titoli più blasonati.
Un primo esempio è la serie FIFA (oggi EA Sports FC), che, a partire dall’edizione 09, ha introdotto la famosissima modalità Ultimate Team. Per la cronaca, si tratta di una modalità in cui il videogiocatore può creare la sua squadra dei sogni tramite l’acquisto di una serie di pacchetti che possono dare accesso ai giocatori più forti.
Inutile dire che, per poter mettere le mani sui giocatori migliori prima degli altri, è necessario spendere grandi cifre nell’acquisto dei suddetti pacchetti. La modalità FUT ha finito col diventare un vero gioco all’interno del gioco, monopolizzando sia l’attenzione dei giocatori sia il ciclo di denaro, visto che EA guadagnava molto più dal flusso delle transazioni nel FUT che dalla vendita del gioco.
Anche Konami si è adattata al modello imposto da EA, trasformando la sua simulazione calcistica, Efootball, in un free to play, anch’esso incentrato su una modalità che consente al giocatore di costruire la sua squadra dei sogni tramite una serie nutritissima di pacchetti ed espansioni.
I due titani
Se si parla di giochi Live service, sono certamente due i giochi che più di ogni altro hanno fatto parlare di se. Mi sto naturalmente riferendo a Fortnite di Epic Games e a Genshin Impact di MiHoyo.
Il primo è uno sparatutto free to play, reso famoso soprattutto dalla modalità battle royale. In essa ben 100 giocatori si sfidano in una lotta tutti contro tutti fino alla vittoria dell’ultimo superstite. Fortnite deve la sua popolarità soprattutto alla sua accessibilità e al suo essere fruibile su praticamente ogni piattaforma esistente.
All’interno del gioco le microtransazioni riguardano soprattutto elementi di estetica, personalizzazione e, soprattutto, aggiornamenti. Fortnite ha infatti presentato numerosi season pass, che riguardano principalmente la modalità “Salva il mondo” (una sorta di modalità cooperativa che funge da storia principale).
Genshin Impact è invece un JRPG open world, in cui il giocatore deve allestire un team di 4 personaggi per affrontare le numerose quest presenti nel mondo. Il gioco è anch’esso disponibile su numerose piattaforme e riceve costanti aggiornamenti.
In questo caso, la maggior fonte di spesa per i giocatori riguarda l’ottenimento dei personaggi, che vengono rilasciati in appositi eventi ma che quasi sempre vengono sbloccati in maniera casuale e solo in seguito all’utilizzo dei denaro reale.
Il successo di questi due titoli e di altri con meccaniche affini, come ad esempio Call of Duty Warzone ha spinto gli sviluppatori a puntare moltissimo su questa tipologia di gioco, convinti che essa rappresentasse la nuova frontiera per quanto concerne i giochi di successo. Come vedremo, le cose non sono andate proprio così.
Dalle stelle alle stalle
Nel corso degli ultimi anni il mondo dei videogiochi ha visto una vera e propria ecatombe di giochi live service. Sono davvero molte le case videoludiche che, nel tentativo di attingere a quella che credevano una miniera di diamanti, si sono trovate tra le mani un’enorme manciata di carbone.
Oltre a Warner e al suo Multiversus, di cui abbiamo già parlato in apertura, possiamo citare ad esempio Square-Enix, che ha visto la chiusura sia di Babylon Fall che di Final Fantasy VII: First Soldier nei primi mesi del 2023. Oppure il già citato Suicide Squad: Kill the Justice League, titolo su cui Rocksteady aveva investito moltissimo e che si è rivelato un flop da addirittura 200 milioni di dollari. Altri esempi sono XDefiant di Ubisoft, Marvel’s Avengers di Eidos e Apex Legends Mobile di EA.
Persino Epic Games, casa creatrice di Fortnite, non ha saputo bissare il successo del suo gioco più popolare. Il bizzarro picchiaduro live service Rumbleverse, uscito nel 2022, su cui Epic sembrava riporre molta fiducia, ha chiuso i battenti dopo appena sei mesi.
Il caso più eclatante, tuttavia, è probabilmente quello di Concord. Questo First person shooter, sviluppato da Firewalk Studios e pubblicato da Sony, ha suscitato talmente tanto astio da parte dei videogiocatori da costringere gli sviluppatori ad annunciarne la chiusura già per il prossimo settembre, a poco più di un anno dalla sua uscita. E questo nonostante si trattasse di un progetto su cui Sony aveva investito moltissimo.
Le cause del fallimento
Non è certamente facile stabilire in modo oggettivo le cause di questi fallimenti. Uno dei principali è certamente da individuare nella saturazione del mercato. Fino a quando i titoli con un servizio live service erano pochi, per un giocatore risultava semplice trovare il tempo per dedicarsi ad essi con costanza. Questi giochi, infatti, costituivano un piacevole intermezzo e un divertente passatempo da portare avanti tra un gioco tripla A e l’altro.
Tuttavia, questo tipo di giochi finisce col portare via moltissimo tempo a coloro che scelgono di dedicarsi ad essi con costanza ed impegno. Per progredire in modo costante, occorre infatti giocare in maniera continuativa, vista l’uscita continua di aggiornamenti e nuovi season pass. Di conseguenza è difficilissimo riuscire a portare avanti più di un gioco live service alla volta. In questa situazione è chiaro che il giocatore darà sempre la precedenza a giochi che ormai conosce bene. Anche perché cambiare gioco significa rinunciare ad ore ed ore di esperienza di gioco e, spesso, a centinaia di euro investiti nel titoloe negli oggetti collezionabili.
Esiste poi, a nostro giudizio, anche un altro aspetto, ovvero la qualità intrinseca di questi titoli. Parliamo chiaro: giochi come Fortnite devono il loro successo alla loro accessibilità e all’aver saputo creare un mondo accattivante ed accogliente anche per i più piccoli. Il fatto di essere free to play, poi, li ha molto aiutati.
Se però si parla della qualità oggettiva di questi giochi, nessuno di loro può nemmeno lontanamente competere con la maggior parte dei giochi “tradizionali”,soprattutto con i cosiddetti tripla A. Il successo di un gioco come Astro Bot, dovuto interamente all’incredibile divertimento che ha saputo regalare, ha dimostrato che i videogiocatori ancora oggi sono più che disposti a premiare la qualità, anche per giochi dalla longevità limitata e dalla trama estremamente semplice.
Con questo non vogliamo assolutamente dire che tutti i giochi live service siano di qualità scadente. Marvel Rivals, per esempio, pur proponendo pochissime innovazioni rispetto al genere degli hero shooter, resta un gioco assolutamente ben realizzato e godibile. Tuttavia, resta il sospetto che il successo iniziale del modello live service abbia spinto molti produttori a sedersi sugli allori. Si è infatti creata l’erronea convinzione che progetti poco originali e dalla realizzazione frettolosa potessero portare facili guadagni solo in virtù della loro gratuità ed accessibilità.
In conclusione, l’evoluzione del mercato dei live service è la dimostrazione che, anche nel mercato dei videogames, la qualità batte la quantità. Questo genere di giochi può certamente rappresentare un divertente passatempo e attirare molti giocatori in cerca di svago. Tuttavia, questo tipo di giochi non potrà mai generare lo stesso coinvolgimento, le stesse emozioni e divertimento offerto da giochi a cui gli sviluppatori hanno dedicato anni e anni di lavoro e che possono sfruttare pienamente le tecnologie di ultima generazione.
Speriamo che quel che è accaduto al mercato negli ultimi anni serva di lezione alle case produttrici. Perché il successo, quello vero, è qualcosa che va sempre ottenuto col duro lavoro e soprattutto grazie alla passione, e alla volontà di stupire. Certo, i colpi di fortuna esistono. Ma un fulmine raramente cade due volte nello stesso punto.
Le festività sono terminate. Chi prima e chi dopo, tutti siamo dovuti tornare alla nostra quotidianità, fatta di studio, lavoro e impegni vari. Tuttavia, vogliamo riportarvi per un po’ con la mente alla spensieratezza delle vacanze. Per farlo abbiamo stilato una lista con i migliori party game già presenti (per ora), nel 2025, sul mercato. Siete tutti invitati alla festa: mi raccomando, non mancate!
Just Dance 2025
E partiamo dall’immancabile episodio annuale della saga musicale targata Ubisoft. Sebbene l’edizione 2025 non si differenzi in modo significativo dai predecessori, Just Dance presenta diverse frecce al suo arco e continua a essere uno dei migliori Party Game. Anzitutto una selezione di ben 40 brani diversi, che comprendono i successi di artisti come Dua Lipa, Miley Cyrus e Lady Gaga.
Inoltre, Just Dance 2025 propone un rinnovato aspetto grafico, con spettacolari sfondi 3d che rendono le coreografie ancora più coinvolgenti. Impreziosisce l’offerta una selezione di brani esclusivi, composti da Ariana Grande. Un appuntamento imperdibile per ogni amante della musica, nonché uno dei party games più accessibili ed in grado di coinvolgere un pubblico davvero eterogeneo.
Let’s sing 2025
E restando in tema musicale, ecco il gioco karaoke targato Voxler e Plaion. Sebbene non sia popolare quanto in Giappone, è innegabile che il karaoke sia sempre stato un passatempo decisamente coinvolgente, anche grazie al successo dei talent show.
Let’s sing propone un enorme numero di canzoni (ben 150 contando quelle del pass), che includono brani di stelle quali Ed Sheeran, Jung Cook e Benson Boone. Le sfide sono disposte in base al livello di difficoltà, in modo da non umiliare troppo i principianti e allo stesso tempo mettere alla prova i più abili nel canto. Molto interessante la possibilità di utilizzare il nostro smart phone come microfono. Se in famiglia amate cantare, questo è il party game che fa per voi!
Super Mario Party Jamboree
Quando si parla di Party Game, è innegabile che Nintendo e la sua Switch dominino quasi incontrastati. Da 1,2,3 Switch, passando per Switch Sport fino all’intramontabile Super Mario Kart, sono davvero tantissimi i giochi Nintendo a prestarsi perfettamente a fare da animatori delle nostre feste.
Tuttavia, nessun gioco è più adatto a fungere da rappresentante Nintendo in questa classifica dell’ultimo esponente della saga di party games per eccellenza, ovvero Super Mario Party. ecco quindi a voi l’ultimo episodio della saga, denominato Jamboree. Il termine, originario del mondo degli scout, significa letteralmente marmellata di ragazzi. E il nuovo Mario Party è proprio questo, ovvero un abbuffata di giochi in compagnia!
Jamboree presenta ben 7 tabelloni, la bellezza di 112 minigiochi e una modalità online in grado di far competere ben 20 giocatori alla volta. Il tutto condito da un comparto tecnico aggiornato, davvero piacevole sia da vedere che da ascoltare e dall’enorme giocabilità e divertimento che da sempre contraddistinguono i giochi dedicati a Mario. Stanchi di tombolate e noiose sfide a Monopoli? Jamboree è proprio quel che fa per voi!
The Jackbox Megapicker
Sempre parlando di serie longeve, la saga di Jackbox Party non ha davvero nulla da invidiare a Mario Party. Nata nel 2014 e giunta alla sua decima incarnazione, questa serie di party games targata Jackbox Games è ormai divenuta un appuntamento annuale fisso per gli amanti del genere.
Forte di un’estetica originale e colorata, di un’enorme varietà di sfide e soprattutto di un’estrema semplicità, Jackbox party ha saputo coinvolgere e divertire un numero enorme di giocatori, grazie soprattutto al fatto che la serie è disponibile su praticamente ogni tipo di device, dai dispositivi Android a tutte le maggiori console.
Abbiamo inserito qui la versione Megapicker, che consente di scegliere liberamente qualunque dei minigiochi presenti nei vari pack. Basta davvero poco per iniziare una partita. Sono infatti sufficienti un telefono e una connessione internet. Ma una volta incominciato, smettere è dannatamente difficile!
Nintendo Switch Sports
Sebbene Switch Sport sia uscito nel 2022, Nintendo ha saputo aggiornare ed ampliare costantemente il suo party game sportivo rendendolo interessante e divertente anche nel 2025. Proprio quest’anno il gioco ha ricevuto un sostanzioso bonus gratuito con l’inserimento del basket, che affianca tennis, golf, bowling, chanbara, volley, calcio e badminton.
Fin dai tempi della WII, la serie sportiva di Nintendo ha sempre saputo coinvolgere ed intrattenere giocatori di ogni genere ed età, grazie alla sua accessibilità e al suo gameplay semplice ma anche dannatamente competitivo, in grado di accendere l’animo agonistico di praticamente chiunque.
Ognuna delle specialità del gioco risulta ben pensata, semplice da imparare e coinvolgente, oltre a risultare fedele, anche se alla lontana, allo sport da cui è tratto. Se avete una Switch, switch Sports è un acquisto quasi obbligato se amate giocare in compagnia.
Con oltre 146 milioni di unità vendute e un incredibile record di 1,3 miliardi di giochi distribuiti, Nintendo Switch si avvia verso la fine della sua gloriosa era. Tuttavia, questo non significa che sia tempo di voltare pagina. Anzi, dopo l’annuncio di Nintendo Switch 2, l’hype è alle stelle. La nuova console di Kyoto sembra voler continuare la strada tracciata dalla prima, ma mentre aspettiamo novità, oggi, vogliamo celebrare Switch guardando indietro ai suoi incredibili successi e in particolare sui 10 giochi più venduti su Nintendo Switch.
Switch è riuscita anche a portare tantissime terze parti sulla console. Un risultato per nulla scontato per Nintendo, che ha avuto sempre grandi difficoltà sotto questo aspetto soprattutto a causa, da un po’ di generazioni a questa parte., dell’hardware meno performante rispetto a quello dei rivali. Sotto questo punto di vista, è ancora così, ma Nintendo Switch ha avuto l’onore di diventare la console perfetta per tanti videogiochi, sopratutto quelli indie. Nonostante tutto però, sono sempre le esclusive che fanno la differenza. Non a caso dunque tra i 10 giochi più venduti ci sono solamente esclusive Nintendo.
10. New Super Mario Bros. U Deluxe – 17,77 milioni
Un platform 2D classico con livelli impegnativi e una modalità cooperativa per quattro giocatori capace di trasformarsi grazie a Nintendo Switch da un buon gioco a un ottimo videogioco anche e sopratutto in termini di vendite.
New Super Mario Bros. U Deluxe è lo stesso gioco sia su Wii U che su Switch, ma la differenza nei risultati di vendita è netta. Una peculiarità che noteremo anche in altri giochi di questa classifica.
9. Super Mario Party – 20,98 milioni
Il party game per eccellenza, con tanti minigiochi e modalità perfette per divertirsi con amici e famiglia. Non l’unico uscito per Nintendo Switch, ma sicuramente il più apprezzato.
80 minigiochi, nuova modalità cooperativa e anche la possibilità di sfidarsi Online. Tutto quello che serve per un Mario Party che diventa Super.
8. The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom – 21,04 milioni
Sequel di Breath of the Wild, The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom amplia l’universo di Hyrule con nuove meccaniche tipiche dei sandbox ma elevandole alla massima potenza, come fa di consueto Nintendo quando sviluppa una delle sue serie principali.
Un capolavoro unico nel suo genere, che merita il successo che ha avuto e che ben sperare i fan per il futuro della serie.
7. Pokémon Scarlatto e Violetto – 25,69 milioni
Quattro anni dopo Spada e Scudo, arrivano Pokémon Scarlatto e Violetto: un flop tecnico per critica e per la community. Ma ancora una volta un sucesso per le casse di The Pokémon Company.
L’ultimo capitolo della serie ha aperto gli occhi anche a Nintendo. Il franchise ha bisogno di tornare alla qualità dei tempi migliori, ma se questi videogiochi sono riusciti a vendere così tanto, non osiamo immaginare cosa possa accadere nel futuro, ora che Game Freak condivide anche gli uffici con Nintendo.
6. Pokémon Spada e Scudo – 26,44 milioni
Ormai è consuetudine: ogni videogioco del franchise Pokémon è un successo economico. Lo stesso vale per Spada e Scudo, nonostante sia ben lontano dall’essere il miglior della serie.
Pokémon Spada e Scudo è il primo esempio di questa classifica per cui non sempre i giochi migliori sono quelli con più vendite, ma le unità vendute spiegano perché nonostante la qualità Nintendo non possa prescendire dai titoli di Game Freak.
5. Super Mario Odyssey – 28,50 milioni
Ogni capitolo 3D di Super Mario è speciale, ma Super Mario Odyssey è stato qualcosa di più, poiché ha saputo trainare la console nel successo che ha meritato con un livello qualitativo che rispecchia le vendite.
Super Mario Odyssey è un platform 3D in cui Mario esplora mondi vasti e creativi, con l’aiuto del suo fidato cappello Cappy e che è stato in grado di entrare nell’Olimpo dei migliori giochi dell’idraulico italiano riservandosi un posto tra Super Mario 64 e Galaxy.
4. The Legend of Zelda: Breath of the Wild – 32,29 milioni
Il primo gioco disponibile su Nintendo Switch è anche uno dei più venduti e soprattutto dei più belli di tutti i tempi. The Legend of Zelda: Breath of the Wild è semplicemente un gioco meraviglioso che ha definito nuovi standard per i giochi di ruolo, per gli open world e ovviamente per l’intera saga di Link.
La critica lo ha subito elogiato come uno dei migliori videogiochi del decennio e poco dopo come uno dei migliori della storia. E anche i videogiocatori hanno largamente apprezzato viste le oltre 30 milioni di copie vendute.
3. Super Smash Bros. Ultimate – 35,14 milioni
La magnum opus diMasahiro Sakurai inaugura il podio dei videogiochi più venduti su Nintendo Switch. Un picchiaduro con uno stile unico e 80 personaggi giocabili provenienti dall’intera industria videoludica.
Super Smash Bros. Ultimate è la massima definzione di una saga che dura da decenni. Il miglior Super Smash di tutti e tempi e forse insuperabile. Fare di meglio sarà quasi impossibile, anche considernado le condizioni di salute di Sakurai.
2. Animal Crossing: New Horizons – 46,45 milioni
Animal Crossing: New Horizons è il miglior simulatore di vita mai creato e merita un posto in qualsiasi collezione, poiché perfetto per rilassarsi sia da soli che con gli amici.
Non possiamo negare l’importanza del periodo storico. Il lockdown da Covid-19 e l’uscita di Animal Crossing: New Horizons coincidono (20 marzo 2020), ma non bisogna nemmeno sminuire la bravura di Nintendo nel proporre un videogioco di altissimo livello, sia in termini di qualità che di quantità.
1. Mario Kart 8 Deluxe – 64,27 milioni
A causa del flop di vendite di Wii U, in pochi hanno giocato a Mario Kart 8. Nintendo però era convinta fosse un grande gioco e lo ha riproposto su Switch. Il risultato è Mario Kart 8 Deluxe, il primo tra i giochi più venduti su Nintendo Switch e il best seller nella storia dell’intera saga di Mario Kart.
Mario Kart 8 Deluxe ha portato al suo massimo splendore la lunghissima serie Nintendo sia in termini di qualità nel gameplay che quantità nei contenuti. E sicuramente non è un caso che Nintendo Switch 2 abbia mostrato le sue prime capacità proprio con Mario Kart.
Cosa significa esplorare? Conoscere l’ignoto o scoprire meglio sé stessi? Nel cinema e nei videogiochi l’esplorazione può assumere diverse forme come il viaggio interiore di un personaggio o la scoperta di un nuovo mondo. Stray (2021) e Flow (2024) rappresentano due prospettive complementari sullo stesso tema, invitando a riflettere su come l’ambiente e la narrazione visiva possano trasformarsi in un potente strumento di connessione emotiva.
Stray, celebre videogioco indie di BlueTwelve Studio e Annapurna Interactive, è ambientato in una città futuristica in declino, dalle tinte cyberpunk, popolata da robot senzienti. Il giocatore assume il ruolo di un gatto randagio che intraprende un viaggio per ritrovare la strada di casa. Lungo il suo percorso svilupperà un’amicizia insolita con un’IA chiamato B12, scoprendo pian piano frammenti di un mondo un tempo esistente e attualmente privo di esseri umani.
Flow, film d’animazione di Gints Zilbalodis narra le avventure di un micio solitario alle prese con un diluvio universale. La ricerca di un modo per sopravvivere lo porterà ad intraprendere un viaggio in compagnia di altri animali attraverso paesaggi onirici e surreali.
La narrazione visiva in videogiochi e film
La narrazione visiva differisce profondamente tra medium videoludico e cinematografico.
Nel sistema di coinvolgimento ludico una caratteristica essenziale è l’interattività: la richiesta di un comando da parte del giocatore che non si limita all’osservazione della scena che gli si pone davanti. Sono presenti rarissimi casi cinematografici in cui questo è possibile, come Bandersnatch (2018)o Erica (2019), ma si tratta principalmente di film in cui è possibile imboccare diverse biforcazioni narrative. Quello a cui mi riferisco è in particolar modo la possibilità di esplorare il mondo che ci circonda scegliendo noi cosa, come e a quale ritmo vederlo.
Stray utilizza la narrazione visiva in modo profondamente interattivo. La città con i vicoli illuminati da neon e le atmosfere decadenti diventa un espediente narrativo a sé stante che racconta la storia di un mondo in cui l’elemento antropico è svanito ormai da tempo, lasciando spazio alle macchine. Il giocatore scopre gradualmente l’ambiente esplorandolo, scoprendo via via pezzi di un puzzle più grande. Il racconto si evolve dinamicamente adattandosi alle nostre azioni, proprio come un viaggio esplorativo che diventa metafora del nostro coinvolgimento.
La narrazione cinematografica, al contrario, si concentra sulla capacità di guidare lo spettatore attraverso un percorso emotivo e visivo senza l’intervento diretto. In Flow questo processo è affidato principalmente all’animazione, all’estetica minimalista e al movimento del protagonista.
Pur essendo un film, privo dunque di un naturale elemento interattivo, la regia riesce ad offrire l’illusione di un’esplorazione attiva. La curiosità del micio guida la narrazione visiva, stimolando l’immaginazione dello spettatore su ciò che potrebbe nascondersi oltre i limiti visibili dell’ambiente che lo circonda.
L’importanza dell’elemento ambientale
Ad arricchire l’esperienza narrativa, l’ambiente non rappresenta solo lo scenario in cui si svolgono gli eventi, ma interagisce direttamente con il protagonista favorendo la connessione tra i due.
In Stray,l’interazione con l’ambiente conferma il ruolo attivo degli scenari. Ciò è evidente sin dalle prime ore di gioco con i neon che lampeggiano in risposta al miagolio del gatto. La presenza di ostacoli che si frappongono tra lo spostamento da un’area all’altra contribuisce alla resa di un mondo vivo e reattivo. Inoltre, la meccanica del parkour, lo spostamento di oggetti e la presenza di puzzle ambientali, pur nella loro semplicità, stimolano la curiosità del giocatore suggerendogli di soffermarsi di più sui vari luoghi che si trova davanti e restituendo l’idea di un ambiente non solo vissuto, ma anche oggetto di modifiche da parte del protagonista.
In Flow i paesaggi evocativi rappresentano stati emozionali e cambiamenti interiori del protagonista. L’esplorazione di spazi differenti delinea un ritmo dinamico in cui ogni frammento dell’avventura diventa essenziale per la costruzione di un disegno più grande, generando una dinamica implicitamente simbolica.
Tematiche e simbolismo
A livello tematico le due opere contengono alcuni spunti simili pur mantenendo la loro unicità e le loro differenze.
Una delle tematiche più importanti, se non la principale, apparentemente antitetica rispetto all’assenza degli esseri umani è proprio la riflessione sul concetto di umanità. Entrambe le opere si pongono un interrogativo fondamentale: “È indispensabile essere umani per possedere umanità?” Questo viene esplorato attraverso personaggi che, in situazioni ardue manifestano qualità tipicamente umane quali l’altruismo e l’empatia.
In Stray, l’assenza degli esseri umani è una diretta conseguenza della progressione tecnologica incontrollata. In questo mondo, privo ormai di esseri umani, i robot senzienti hanno sviluppato valori e legami che richiamano caratteristiche tipicamente umane. Il gatto, unico essere vivente presente, attraversa il mondo devastato e, grazie alle sue interazioni, si pone come catalizzatore di riflessioni sul significato di umanità, suggerendo che le caratteristiche che crediamo ci appartengano possono emergere anche oltre i confini dell’umanità biologica.
In Flow, il viaggio è narrato attraverso un cast di soli animali. Le loro rappresentazioni allegoriche ci mostrano come l’armonia, basata su compromessi e somiglianze più che differenze sia essenziale per affrontare un pericolo comune.
L’elemento acquatico si rivela centrale, passando da forza distruttiva a presenza costante che modella il percorso del protagonista. Più di un semplice disastro naturale, assume un significato simbolico, diventando spazio di esplorazione e adattamento. Il gatto, attraversando e riaffrontando l’acqua in più occasioni, trasforma la sensazione di minaccia in un’opportunità di crescita.
La ragione della scomparsa umana è indefinita, anche se si lascia intendere che la causa sia una malagestione delle risorse naturali.
Esperire le due opere
In definitiva, Stray, si affida all’interattività come aspetto basilare per veicolare il coinvolgimento emotivo. I luoghi evocativi raccontano il mondo distopico in cui ci muoviamo, mentre i legami che sviluppiamo con i personaggi, principali e secondari, arricchiscono l’esperienza del giocatore.
Un tratto significativo del gioco è la capacità di farci sentire davvero nei panni di un gatto: funzioni che a prima vista sembrano semplici espedienti ludici come la possibilità di miagolare, farsi le unghie o accoccolarsi su una superficie morbida restituiscono invece una sensazione ben più profonda. Questi momenti, apparentemente giocosi, contribuiscono a costruire un’intesa affettiva con il protagonista, amplificando l’immersione e offrendo al giocatore una nuova dimensione sensoriale coinvolgente.
Flow punta ad offrire un’opportunità meditativa, in cui l’assenza di dialogo diventa fondamentale per non disturbare la quiete del viaggio intrapreso dal protagonista. Lo spettatore si trova dunque in una posizione di contemplazione passivo-riflessiva.
Il ritmo del film segue una linea sinuosa, che si muove fluidamente, si trasforma, avanza e a tratti sembra tornare indietro in una danza che rispecchia lo stato emotivo del personaggio principale. La colonna sonora sposa perfettamente questo concetto, coinvolgendo lo spettatore a un livello profondo. I suoni, infatti, sembrano accompagnare ogni movimento del gatto, trasformandosi in un filo conduttore che ne guida l’attenzione e amplifica l’immedesimazione.
Conclusione
L’esplorazione, come tema centrale, viene trattata in modo unico sia nel contesto cinematografico che videoludico. Entrambe le esperienze ci offrono modi diversi di esplorare, ma al contempo ci accompagnano verso lo stesso fine: la scoperta di sé, del mondo intorno a noi e delle emozioni che lo definiscono.
L’analisi delle due opere, Stray e Flow, rende più ovvia la sfumatura tra i due media, con il cinema che si ispira all’interattività del videogioco e i videogiochi che adottano tecniche narrative cinematografiche.
Il medium videoludico, con la sua capacità di coinvolgere attivamente lo spettatore, si afferma come una forma d’arte a sé stante, che combina estetica, narrazione e interattività, arricchendo la percezione dell’arte contemporanea e offrendo nuove modalità di espressione e di fruizione culturale.