Annus Domini 1986: per gli amanti della storia, ricordiamo la nefasta esplosione di Cernobyl; per i più sportivi, menzioniamo l’acquisto del Milan da parte di Silvio Berlusconi; per i più cattolici infine, la pubblicazione dell’enciclica Dominum et Vivificantem, opera di Giovanni Paolo II sullo Spirito Santo. Io, appena sette anni, mi accingevo a fare qualcosa di ancora più grandioso.
Ero in procinto di incontrare sulla mia strada un iconico videogame che è stato, negli anni, letteralmente consumato dai videogiocatori di (quasi) ogni età: Out RundiSEGA, uno dei giochi fondamentali per il settore corse, che ha segnato un’epoca, la metà degli anni 80, rendendo i giocatori che l’hanno vissuta quello che sono oggi.
Era agosto, si avvicinava il mio compleanno e come regalo chiesi ai miei genitori qualcosa di inusuale: quello che avrebbero speso per il regalo lo avrei “impiegato” interamente in una o più serate in sala giochi. Non ci andavo quasi mai. Era qualcosa da ragazzi più grandi di me, ma la voglia era massima e ovviamente uno dei due mi avrebbe dovuto accompagnare. La scelta ricadde su mio padre, colpevole tra l’altro, di avermi regalato il Commodore 64.
Arriva il fatidico giorno: emozionato come se dovessi intraprendere chissà quale impresa, ci avviammo così in sala giochi. Un turbinio di luci e neon mi avvolge completamente: lampeggianti, suoni di record battuti e Game Over; rumore di più flipper contemporane: il Paradiso! Mi faccio spazio tra i cabinati, ne provo qualcuno e proprio in quel momento, in quell’attimo, lo noto lì, appena liberato da un diciassettenne che credo che non avesse ancora capito cosa stava lasciando: Out Run!
Cabinato Out Run Deluxe
Un cabinato a forma di interno di auto marchiato SEGA, con cambio, volante e pedali. Al centro uno schermo abbastanza grande (o forse ero io che ero piccolo) con in primo piano una Ferrari Testarossa. Solo in seguito seppi che era si una Ferrari Testarossa, ma Spider, che fu in realtà prodotta in un unico esemplare per Gianni Agnelli.
Il sedile sportivo, la voglia di fare “qualcosa da grandi”, cioè guidare mi spingono a provarlo e fu amore a prima vista! Il cabinato era la versione Deluxe, ovvero quello a forma di macchinina che si inclinava a destra o a sinistra a seconda delle svolte, davvero spettacolare! Out Run aveva per l’epoca una grafica e una fluidità innovativa, caratteristiche rivoluzionarie che furono decisive per il successo del titolo.
La visuale era posta dietro l’auto con camera molto bassa. Le location rappresentavano iconici paesaggi americani e al fianco del giocatore era seduta una biondona mozzafiato. Le corse si svolgevano su autostrade a più corsie dove viaggiavano, nello stesso senso di marcia, camion e altre auto, sportive e non: mi sentivo dentro Beverly Hills Cop.
Ovviamente le auto bisognava superarle o comunque evitarle, pena incidenti, che nei casi più gravi vedevano sbalzare fuori dall’auto i nostri due protagonisti. Incidenti fini a sé stessi poiché il game over di Out Run arrivava solo quando non si riusciva ad arrivare ai previsti checkpoint nel tempo assegnato.
Una chicca era la possibilità di scegliere il brano musicale da adottare durante il viaggio, a guisa di autoradio.
Oltre che su cabinato, Out Run vide fortuna anche su console domestiche e PC, che a suo tempo erano il Commodore 64, l’Amiga, Sega Master System e diversi dispositivi portatili. Conversioni in linea di massima tutte ben riuscite, ma da inguaribile romantico, niente avrebbe mai potuto scalzare, nella mia mente da bimboccio, lo scintillio di quel cabinato rosso fiammante, con luci e suoni, semovente, che aveva rubato il mio cuore in quel pomeriggio dell’agosto 1986.
Gli spokon – manga ambientati nei contesti sportivi – sono molto popolari in Giappone. In Italia, i manga – o per meglio dire gli anime – sportivi solo di rado sono riusciti a rubare la scena, ma quando lo hanno fatto il successo è stato clamoroso. Tra gli anni 80 e 90, L’Uomo Tigre, Holly e Benji e Mila e Shiro sono stati i cartoni animati nipponici ambientati nel mondo dello sport che di diritto sono entrati nella nostra cultura pop. Nella decade dei 2000 invece il padrone incontrastato è stato Slam Dunk, spokon sul basket del maestro Takehiko Inoue.
La maggior parte di voi conosce l’anime, trasmesso per la prima volta in Italia su MTV; ovviamente sapete dell’esistenza del manga, che probabilmente avete anche letto per conoscere la fine della trama; forse avete visto i quattro OAV (film), ma sono quasi certo che in pochi sanno che sono usciti anche diversi videogiochi ispirati alle avventure di Hanamichi Sakuragi e di tutto lo Shohoku.
Non disperate se non avete mai giocato a nessun videogioco su Slam Dunk: tutti i videogame dello spokon di Takehiko Inoue sono usciti solo per il mercato giapponese e la maggior parte di questi durante gli anni 90; di conseguenza, l’unico modo per videogiocare questi titoli risiedeva nelle conoscenze dirette con persone che vivevano nel Sol Levante oppure intrufolorsi nel sottobosco degli emulatori, che hanno il pregio di aver reso accessibili opere altrimenti introvabili in Europa.
Ecco a voi quindi la lista, in ordine cronologico, di tutti i videogiochi di Slam Dunk.
From TV animation – Slam Dunk: Yonkyo Taiketsu
Sviluppato da TOSE e pubblicato da Bandai,il 26 marzo 1994 approda su Super Nintendo il primo videogame dedicato a Slam Dunk. Il titolo è un vero e proprio gioco di basket con due modalità principali: Story, che ripercorre la prima parte del manga di Inoue sotto le vesti dello Shohoku; Exhibition in cui il videogiocatore può scegliere tra le quattro squadre più iconiche dell’opera: Shohoku, Kainan, Shoyo e Ryonan.
Yonkyo Taiketsu è unvideogioco semplicistico: si corre da una parte all’altra del campo passando, tirando e schiacciando quando si attacca e si blocca o si va a rimbalzo quando si difende. Un gioco invecchiato male, ma che presenta delle scene di intermezzo prese direttamente dall’anime che piaceranno agli appassionati di Slam Dunk.
L’opera è nota anche con il nome di From TV animation – Slam Dunk: Dream Team Shueisha Limited.
From TV Animation Slam Dunk – Shikyou Gekitotsu!!
Su questo titolo c’è un enorme confusione ulteriormente accentuata dal web. Molto spesso il titolo di questo gioco è usato come nome alternativo di Yonkyo Taiketsu!! per Super Nintendo, che ha anche un terzo nome: From TV Animation Slam Dunk – Dream Team.
In realtà, Shikyou Gekitotsu è anche il nome ufficiale del primo videogame di Slam Dunk per Sega Saturn, praticamente uguale alla versione SNES con l’unica importante differenza sulla vesta grafica, meno caricaturale e più “adulta” rispetto alla versione Nintendo.
Gakeppuchi no kessho League (1994)
L’11 agosto 1994 arriva su Game Boy quello che dovrebbe essere il porting di Yonkyo Taiketsu. In realtà, Gakeppuchi no kessho League è stato così tanto semplificato rispetto al gioco per SNES da risultare un’opera abbastanza diversa e a mio parere anche migliore dell’originale.
Slam Dunk per Game Boy è un videogioco della sua epoca. In quegli anni molti titoli nipponici presentavano una struttura JRPG-like: in Gakeppuchi no kessho League il videogiocatore si muove in una mappa del campo con visuale dall’alto e affronta gli avversari che si avvicinano in scontri uno contro uno. La sfida consiste nello scegliere da un menu testuale l’azione da intraprendere.
Slam Dunk 2: IH yosen kanzenban!! (1995)
Il 24 febbraio 1995, i gamer giapponesi ricevono su SNES il sequel di Slam Dunk, sviluppato ancora da TOSE e prodotto da Bandai. Quest’opera è un more of the same di Yonkyo Taiketsu con novità prese direttamente dalla versione Game Boy.
Slam Dunk 2 ha un comparto grafico cartoon che sfrutta le iconiche caricature dello spokon di Inoue. Il gameplay è praticamente uguale alla versione precendente, ma adesso è possibile intercettare i passaggi e sono state aggiunte le sfide uno contro, che a differenza della versione Game Boy si affrontano spostando la croce direzionale o premendo il pulsante di tiro o passaggio.
Zenkoku e no TIP OFF (1995)
Il 17 marzo 1995, Slam Dunk 2 arriva anche su Game Boy. Rispetto al precedente capitolo per la console portatile, Zenkoku e no TIP OFF non presenta alcun menu testuale da cui scegliere. L’adattamento per Game Boy riutilizza la mappa con visuale dall’alto del precedente capitolo, ma tutte le scelte di gioco sono delegate al giocatore con scelte live e time event.
Slam Dunk SD Heat Up!! (1995)
Il 27 ottobre 1995 il nuovo capitolo arriva solo su Super Nintendo. Heat Up è di fatto Yonkyo Taiketsu con una nuova veste grafica più pulita e aggiornata.
From TV Animation Slam Dunk: Super Slams (1995)
Ovviamente gli amici del Sol Levante non potevano farsi mancare una versione arcade di Slam Dunk. Il 27 ottobre 1995, oltre al già citato Heat Up per SNES, arriva nelle sale giochi anche From TV Animation Slam Dunk: Super Slams.
Il titolo di Banpresto è un orribile porting – in tutti i suoi aspetti – della modalità Exhibition del primo gioco di Slam Dunk per Sega Genesis: Slam Dunk – Shikyou Gekitotsu!!. La grafica è pessima anche per il suo tempo, mentre il gameplay non ha alcuna sfaccettatura che lo possa redenre memorabile.
SLAM DUNK from TV Animation (2020)
Il 25 novembre 2020, dopo 25 anni di attesa per un titolo decente, Slam Dunk riceve finalmente una versione mobile al passo con i tempi. SLAM DUNK from TV Animation è un gioco di basket arcade online con meccaniche da gioco di ruolo sviluppato dalla società cinese DeNA, che ha di recente iniziato una join venture con Nintendo.
Gli utenti si confrontano online con team formati da tre personaggi che provengono dal roster del manga. Rispetto a tutti i videogiochi di Slam Dunk visti fino ad ora, il titolo mobile contraddistingue i personaggi grazie ad abilità uniche, potenziabili grazie a un albero dei talenti e un sistema di leveling tipico dei gatcha per smartphone.
Ufficialmente SLAM DUNK from TV Animation non è disponibile per il pubblico europeo (nello specifico non è scaricabile dallo store Google), ma dal sito ufficiale è possibile scaricare il file APK installabile su qualsiasi smartphone.
Extra
Oltre ai titoli già citati, ci sono altre due videogiochi che non è facile collocare in un momento ben preciso perché privi di qualsiasi informazione ufficiale: From TV Animation: Slam Dunk: Shouri heno Starting 5 e Slam Dunk: I love basketball. Come potete notare voi stessi guardando i gameplay disponibili online, questi giochi sono chiaramente dei rifacimenti dei titoli che vi ho già presentato con qualche piccola modifica o semplicemente trasportati su un’altra console.
From TV Animation: Slam Dunk: Shouri heno Starting 5
In particolare Shouri heno Starting 5, sviluppato da SIMS, dovrebbe essere uscito per Game Gear il 16 dicembre 1994. Slam Dunk: I love basketball, sviluppato d SEC, ha come data di rilascio l’11 agosto 1995 su Sega Saturn.
I personaggi di Slam Dunk compaiono anche in altri due videogiochi per Nintendo DS usciti rispettivamente nel 2005 e nel 2006: Jump Super Stars e Jump Ultimate Stars: due picchiaduro con un roster formato da 160 personaggi dell casa editrice Jump. Non hanno mai varcato i confini asiatici a causa di problemi di copyright: in Giappone, i diritti dei i famosissimi personaggi del roster – oltre all’intero team dello Shohoku troviamo anche personaggi di Dragon Ball, One Piece e Naruto solo per citarne alcuni – appartengono a Jump, ma nel resto del mondo tutto diventa più frammentato e complicato.
Conclusione
Purtroppo, così come è avvenuto in passato per diversi giochi ispirati a manga e anime, anche Slam Dunk è stato vittima del ritardo di pubblicazione tra Giappone e Occidente tipico degli anni 90. Nella prima metà degli anni 90, nel Bel Paese, in pochi conoscevano lo spokon di Inoue, che è divenuto famoso solo dal 2000 in poi grazie all’anime su MTV. Nel nuovo millennio però SNES e Game Boy non erano più in produzione. Fortunatamente non ci siamo persi nulla: i videogiochi di Slam Dunk degli anni 90 erano veramente mediocri, anche se li ho personalmente giocati tutti e li ho amati nella loro bruttezza.
D’altro canto, non riesco invece a capire i motivi per cui il recente SLAM DUNK from TV Animation non sia mai arrivato in Europa dato che oggi l’opera di Takehiko Inoue è molto popolare anche in Occidente come si denota dall’uscita anche nelle sale italiane del film The First Slam Dunk.
Se si guarda all’attualità del mondo dei videogiochi, il nome diLara Croft non figura certamente tra quelli dei personaggi più popolari. La stessa saga di Tomb Raider, nonostante la buona qualità degli ultimi episodi usciti, non è certamente tra le IP più “forti” e rilevanti del momento. Tuttavia, tutti coloro che, come il sottoscritto, hanno vissuto la fine degli ormai mitici anni novanta, ricorderanno che la bella archeologa era diventata uno dei volti più famosi e riconoscibili dell’intera industria del videogioco.
Pubblicità, apparizioni su numerose riviste, merchandising, serie a fumetti, cartoni animati e persino varie apparizioni durante i concerti degli U2 del PopMart Tour del 97. Il nome di Lara sembrava davvero sulla bocca di tutti e non era esagerato definire la bella eroina una vera e propria icona pop. Questo successo, oltre che al carisma e al fascino di Lara, fu senz’altro dovuto all’incredibile qualità del gioco di cui l’archeologa era protagonista. Il primo Tomb Raider, infatti, fu un titolo davvero sorprendente, sia per la sua altissima qualità che per le innovazioni che seppe portare nel panorama dei giochi di avventura.
In questo articolo andremo a riscoprire questa piccola gemma e cercheremo di spiegare perché il primo Tomb Raider è stato tanto amato, come abbia saputo lasciare ricordi così indelebili nei cuori di numerosi giocatori, compreso il sottoscritto, e perché ha fatto la storia dei videogiochi. Recuperiamo le nostre pistole e lanciamoci alla riscoperta di questo classico!
Un fulmine a ciel sereno
Al momento della sua uscita ben pochi avrebbero potuto prevedere il successo di Tomb Raider
Quando Tomb Raider uscì, tra il 1996 e il 1997, lo fece in punta di piedi. Il gioco, sviluppato dalla veterana Core Design e prodotto da Eidos per Saturn, Playstation e PC, non fu infatti accompagnato da una campagna pubblicitaria particolarmente forte. Tuttavia, non appena i giocatori misero le mani su Tomb Raider, compresero subito di essere di fronte a qualcosa di davvero speciale.
Tomb Raider ricevette un’accoglienza estremamente positiva da parte delle riviste del settore, cosa che rese il gioco estremamente popolare tra gli appassionati. Anche le vendite iniziarono ben presto a lievitare, al punto che l’avventura di Lara divenne uno dei giochi più venduti in assoluto per la prima Playstation.
La strada per il successo
Tomb Raider propose un mix di elementi vincenti che decretarono il suo successo
Le ragioni del successo di Tomb Raider furono molteplici. Anzitutto, il setting e le ambientazioni. La trama del gioco vede l’avventuriera e archeologa Lara Croft venire assoldata dall’infida Natla per rintracciare lo Scion, un misterioso artefatto dalle origini ignote. La ricerca dello Scion porterà Lara a visitare antiche rovine sudamericane, un tempio sotterraneo di ispirazione greco-romana, l’antico Egitto e una misteriosa piramide, legata all’antica Atlantide.
Il gioco si sviluppa attraverso quindici immensi livelli, ambientati all’interno delle macro-aree nominate in precedenza. La trama viene sviluppata attraverso una serie di filmati, che si sbloccano all’inizio o al termine di determinati livelli.
Pur senza far gridare al miracolo, la storia di Tomb Raider era interessante e coinvolgente, soprattutto grazie all’incredibile carisma di Lara, che seppe subito conquistare i cuori dei videogiocatori.
Il gioco inoltre seppe subito catturare l’attenzione dei giocatori grazie al suo comparto grafico. Certo, ai giorni nostri la grafica di Tomb Raider appare molto datata e “cubettosa”. Negli anni in cui il gioco uscì, tuttavia, le ambientazioni completamente tridimensionali e le eccellenti animazioni fecero letteralmente gridare al miracolo.
Una vera avventura tridimensionale
I livelli di Tomb Raider rappresentano il principale punto di forza del gioco
Il più grande punto di forza di Tomb Raider, tuttavia, si rivelò essere la natura stessa del gioco. Intendiamoci, non stiamo certamente parlando della prima avventura 3D ad uscire sul mercato (basti citare giochi come Alone in the Dark o Myst, usciti ben prima di Tomb Raider). Ma nessun gioco fino a quel momento aveva saputo creare quella sensazione di assoluta libertà di movimento che l’avventura di Lara sapeva regalare.
Fin dal primo livello di gioco, il giocatore non avvertiva mai la sensazione di trovarsi su un binario, ma veniva letteralmente immerso in un enorme e realistico ambiente tridimensionale. Stava a lui e alle sue capacità di orientamento e osservazione trovare la soluzione per raggiungere l’uscita del livello.
Altro punto di forza del gioco era il gran numero di azioni a disposizione di Lara. La nostra archeologa infatti era in grado di camminare, correre, saltare in ogni direzione (sia da ferma che in corsa), spostarsi lateralmente e persino nuotare in profondità. Oltre a questo, naturalmente, Lara poteva utilizzare le sue fide pistole, alle quali si sarebbero affiancate altre tre armi.
Nel corso dei livelli, infatti, Lara era chiamata ad affrontare un gran numero di combattimenti. Si trattava principalmente di animali feroci, ma non sarebbero mancate le sorprese (qualcuno ha detto dinosauri?). Durante gli scontri Lara puntava automaticamente i nemici nelle vicinanze, in modo che il giocatore potesse concentrarsi solo sul movimento e le schivate. Le munizioni delle pistole di Lara non si esauriscono mai, mentre le armi aggiuntive andranno ricaricate tramite apposite munizioni sparse per i livelli.
Questa scelta, apparentemente molto semplicistica, rendeva gli scontri estremamente dinamici e divertenti, evitando un sistema di combattimento troppo complesso e macchinoso.
Ogni livello di Tomb Raider proponeva sfide davvero varie ed originali
L’altro aspetto che sancì il successo di Tomb Raider fu sicuramente la struttura dei livelli. Questi ultimi, con pochissime eccezioni, erano infatti stati pensati e progettati alla perfezione. Attraverso l’uso di blocchi da scalare, gallerie, porte segrete e passaggi acquatici, gli stage di Tomb Raider si sviluppano in ogni direzione, sia in altezza che in profondità.
Quasi mai il giocatore doveva affrontare un percorso lineare, ma si trovava all’interno di enormi ambienti aperti, che andavano visitati in ogni angolo per poter essere superati. Questo rendeva l’esplorazione davvero varia, coinvolgente e divertente.
Oltre a questo, i livelli erano estremamente diversificati tra loro. Le ambientazioni di ognuno di essi, infatti, risultavano quasi sempre molto differenti l’una dall’altra, riuscendo a risultare ogni volta fresche ed interessanti.
Il brivido della scoperta
Alcuni momenti dei livelli di Tomb Raider sono divenuti davvero iconici
Per rendere le cose ancora più interessanti, ogni livello, per essere superato, proponeva una sfida particolare. In St. Francis Folly, per esempio, Lara ad un certo punto raggiungeva un’enorme stanza con un pilastro centrale. Nelle varie estremità dello stanzone erano posizionati quattro templi, dedicati ad altrettante divinità antiche. Per superare il livello occorreva esplorare tutti i templi, superare le prove al loro interno e raccogliere quattro chiavi nascoste all’interno del tempio.
Nelle miniere di Natla, invece, Lara iniziava il livello priva delle sue armi. L’obiettivo primario del giocatore era rintracciare tre fusibili sparsi per la miniera che davano a Lara l’accesso ad una stanza in cui erano custodite le sue fide pistole.
Questa varietà di situazioni, unita ai numerosi combattimenti, rese Tomb Raider un’esperienza di gioco davvero ricchissima, in grado di accontentare sia i fan dei giochi di azioni che gli amanti degli enigmi e dell’esplorazione ragionata.
Come ciliegina sulla torta, i livelli di Tomb Raider proponevano spesso momenti davvero forti ed iconici, in grado di lasciare i giocatori a bocca aperta o di farli letteralmente saltare dalla sedia.
Senza dare troppi spoiler a chi non ha mai giocato a questo gioco, mi limito a citare il raggiungimento dell’enorme sfinge nel santuario dello Scion o la scoperta della mano del re Mida, ma potrei fare davvero decine di altri esempi.
L’eredità di Tomb Raider
Il numero dei sequel di Tomb Raider è davvero impressionante
Visto il successo ottenuto, era inevitabile che le avventure di Lara proseguissero. Eidos tuttavia fece la scelta di spremere la sua gallina dalle uova d’oro oltre l’inverosimile. Tra il 1997 e il 2001 uscirono addirittura quattro nuovi Tomb Raider, tutti su Playstation e PC.
Sebbene la qualità di questi titoli fosse generalmente molto buona (Tomb Raider 2 in particolare venne molto ben accolto), questi giochi risultarono davvero troppo simili tra loro e aggiunsero davvero troppo poco alla formula vincente del primo gioco. Questo causò, a lungo andare, un certo disinteresse per la saga.
Dopo il terribile Angel of Darkness, del 2003, Eidos realizzò due nuove trilogie dedicate a Tomb Raider. La prima fu inaugurata da Tomb Raider: Legend del 2006 e terminò nel 2008 con Tomb Raider: Underworld. Nel 2013 uscì Tomb Raider, vero e proprio reboot della saga, che ebbe a sua volta due sequels, Rise of the Tomb Raider e Shadow of the Tomb Raider. Per il 2023 è prevista l’uscita di un nuovo capitolo della serie, su cui sembra che Crystal Dynamics e Amazon stiano puntando davvero forte.
Finora però tutti questi seguiti, pur ottenendo sempre buoni risultati in termini di vendite e ricevendo vari apprezzamenti dal pubblico, non sono stati in grado di replicare l’incredibile successo dell’avventura originale. Chissà, probabilmente Tomb Raider è stato l’equivalente di una cometa, un fenomeno tanto bello ed emozionante da vedere quanto difficile da replicare. Quello che è certo, però, è il fatto che la prima avventura di Lara ha regalato ore ed ore di divertimento a migliaia di giocatori, che ancora oggi la ricordano con piacere e nostalgia. Ed è stato un piacere anche per il sottoscritto condividere con tutti voi i ricordi e le emozioni che Tomb Raider ha saputo regalarmi. Alla prossima avventura!
Il 18 ottobre 1958 “usciva” Tennis For Two, considerato il primo videogioco mai sviluppato. In realtà ci sono molte discussioni a riguardo la storia del settore, un po’ perché negli anni ‘50 il videogioco era un concetto diffuso più in ambito accademico (senza considerare quei progetti scritti su carta e mai realizzati), un po’ perché quello che veniva definito “videogioco” all’epoca non era lontanamente paragonabile, per meccaniche e forme, ai prodotti moderni. Per questo motivo, in base a quali criteri vengono scelti, Tennis For Two non può essere indicato in maniera univoca e universalmente riconosciuta come il primo videogioco, ma senza ombra di dubbio è uno dei primissimi mai sviluppati.
Tutta la potenza di calcolo (e tutto lo spazio) che serviva a cavallo fra anni ’40 e ’50 per poter supportare lo sviluppo di un videogioco come OXO.
Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, a livello universitario, o comunque lontano dagli occhi del pubblico, c’erano molti esperimenti che miravano a mostrare come un computer potesse “giocare” a qualcosa, seppur di semplice. In questo senso, ancora prima di Tennis For Two, possiamo trovare interazioni fra uomo e macchina che riprendono giochi con dinamiche calcolabili a livello matematico: nim o tris, rispettivamente trasposti nel Nimrod e in OXO, che contendono a Tennis For Two il titolo di “primo videogioco”. La componente ludica era decisamente limitata, ma appunto lo scopo non era quello di essere divertenti né di intrattenere.
Tennis For Two: 63 anni portati bene
Tennis For Two era invece un prodotto di per sé molto più moderno, almeno vagamente affiancabile a quelli che conosciamo tutt’oggi: c’era uno schermo, c’erano delle manopole che funzionavano come joystick, era multiplayer e, a differenza dei suoi “predecessori”, era stato concepito proprio per intrattenere. È stato sviluppato nel giro di pochi giorni da William Higinbotham, che di mestiere faceva il fisico e non il game designer: durante la sua carriera ha partecipato al progetto “Manhattan”, riferito agli studi sulla bomba atomica, e ha brevettato una serie di invenzioni legate al mondo della fisica. Nulla che facesse intendere a una carriera da game designer.
William Higinbotham aveva sfruttato un oscilloscopio, uno degli strumenti usati nel suo laboratorio, ricreando un campo da tennis visto di lato. Con delle manopole si poteva far rimbalzare la palla dall’altro lato della rete, e dopo una serie di aggiornamenti si poteva anche agire sui parametri che ne definivano la parabola. Non aveva quindi creato una console o un sistema ad hoc, ma si era limitato a prendere oggetti già a disposizione. Li ha ricombinandoti e ricontestualizzati, in modo da realizzare qualcosa di totalmente nuovo.
Tennis For Two: la linea orizzontale è il campo di gioco, quella verticale è la rete.
Da esperimento a mezzo di intrattenimento
Proprio in questo momento la storia del settore cambia, soprattutto a livello culturale. Se prima il videogioco era considerato alla stregua di un esperimento elettronico che esaltava l’interazione uomo-macchina, William Higinbotham gli ha dato una funzione di intrattenimento, accessibile a un pubblico più ampio: era infatti stato posizionato all’interno del Brookhaven National Laboratory di Long Island (New York), con lo scopo di intrattenere i visitatori. Dopotutto non esisteva un mercato del videogioco, non c’erano negozi o strutture specializzate in questo genere di prodotti, mentre nelle sale giochi dell’epoca spopolavano soprattutto flipper e altre attività meccaniche. Bisognava anche considerare un ulteriore elemento: a quei tempi un computer che supportava un semplice prodotto videoludico occupava un’intera stanza, di conseguenza una commercializzazione massiccia necessitava di spazi enormi.
Una volta iniziato a concepire il videogioco come intrattenimento, sono passati una decina d’anni prima di vedere una diffusione capillare sul territorio del nuovo medium. Con il progresso tecnologico, computer che prima occupavano una stanza adesso potevano essere inglobati all’interno dei primi cabinati, che approdavano in sala giochi fra anni ‘70 e ‘80. Oltre ai videogiochi in sé, che di anno in anno si perfezionavano sempre di più tecnologicamente e graficamente aggiungendo qualche elemento rivoluzionario per l’epoca, si lavorava anche sulle componenti con i quali l’utente interagiva: potevano essere joystick, home console e relative cartucce. La ricerca non si ferma nemmeno oggi, visto che assistiamo a una continua pubblicazione di nuove periferiche che risultano essere sempre più ergonomiche ed efficienti.
Sviluppare videogiochi quando non esistevano i videogiochi
Vista la diffusione e il successo crescente in sala giochi, e trattandosi ormai di un fenomeno aperto a tutti, è aumentato esponenzialmente il numero di titoli disponibili sul mercato, portando conseguentemente un incrementato della concorrenza. Molte aziende, che inizialmente si occupavano di altri business, hanno riconvertito l’attività e sono entrate nel settore videoludico intravedendone le future potenzialità di guadagno: tra queste c’era anche Nintendo, creata a fine ‘800 (ben prima del Nimrod, OXO e Tennis For Two), che prima di sviluppare videogames si occupava di carte da gioco hanafuda, ma anche di taxi, riso, aspirapolveri e love hotel.
William Higinbotham è scomparso nel 1994, un mese prima dell’uscita della PlayStation in Giappone, ma ha potuto vedere cosa è diventato il mercato del videogioco. In quei primi 36 anni che sono passati dal suo Tennis For Two, ne ha constatati molti di progressi: ha assistito a Pong, Pac-Man, Super Mario, e al Game Boy, vivendo quelle che sono le prime quattro generazioni di console e l’inizio della quinta. E pensare che tutto quanto è partito da un oscilloscopio modificato con lo scopo di intrattenere…
Super Metroid è invecchiato bene. Il titolo Nintendo dimostra di essere ancora all’avanguardia in termini di level design. Una versione rimasterizzata che migliori alcuni comandi vetusti, potrebbe sfidare i metroidvania moderni. La difficoltà può essere un ostacolo, ma è un must da giocare almeno una volta nella vita.
8.5
Ho giocato Super Metroid nel 2020. Oltre che per il mio personale divertimento, ho rivissuto questa avventura per capire se il titolo ha resistito al tempo. Mi riferisco un po’ a tutto il gioco. Dalla grafica, all’audio, dal gameplay al game design e se può reggere il confronto con i metroidvania del momento. Con questa recensione nel 2020 di Super Metroid voglio spiegarvi perché il titolo è ancora divertente e perché dovreste giocarlo anche voi.
Un’anima diversa
Super Metroid esce nel 1994 per Super Nintendo. Si tratta di un platform 2D, un genere comune per il tempo, ma con un’anima totalmente diversa. Le caratteristiche principali del titolo sono due: problem solving e upgrade.
Il gioco per SNES è ambientato in un’unica mappa che esploreremo in modo non lineare. L’esperienza di gioco di molti di platform 2D è molto basilare: entro in una zona, vedo un enigma e rimango lì finché non lo risolvo. Poi posso passare alla prossima area. Ripeto e ripeto.
Super Metroid parte invece dall’idea che ci sono più percorsi all’interno di una zona e molto spesso alcuni di questi non sono attraversabili con l’equipaggiamento che si ha all’inizio. Da questo particolare punto prendono spunto i metroidvania moderni come SteamWorld Dig 2, Hollow Knight, Guacamelee, gli Ori e Dead Cells per citare solo i più noti.
La Golden Statue in Super Metroid
Già in Crateria, la prima area di gioco, ci ritroviamo di fronte a un’enorme statua d’oro, che sembra totalmente inutile, ma che sarà il punto nevralgico dell’end-game. Le statue sono parte integrante del titolo e molto presto imparerete ad amare le statue Chozo, almeno finché una di queste non tenterà di uccidervi. Esse contengono gli upgrade principali per l’armatura di Samus Aran e ci permetteranno di andare avanti con l’avventura.
The Beautiful Mind
La soddisfazione di un nuovo equipaggiamento non è spiegabile a parole. Immaginate di attraversare intere aree con piccoli cunicoli in cui non potete entrare e dopo qualche ora avere la possibilità di diventare una pallina che può cimentarsi in qualsiasi tunnel dalla grandezza di un quadrato. Il vostro cervello riceverà una sensazione simile a quanto visto in The Beautiful Mind.
La voglia di tornare indietro per capire cosa vi siete persi è alle stelle e mi sento ridicolo quanto vi dico che ho avuto la sensazione di sentirmi più intelligente delle media, perché avevo colto particolari che in realtà avevano già notato tutti prima di me. Un po’ come quando ti guardi attorno mentre guardi un film con gli amici perché hai capito una parte di trama non rivelata, ma ti calmano subito perché loro l’avevano compreso 15 minuti fa.
Statua Chozo in Super Metroid
Se siete dei videogiocatori con una grande memoria, il gioco vi potrà dare solo soddisfazioni, ma se come me, non siete attenti a tutti i minimi particolari, probabilmente vi ritroverete in dei punti in cui non saprete cosa fare. Super Metroid è un titolo tanto divertente quanto difficile perché il problem solving è crudele. Infatti, a volte non è possibile andare avanti e dovrete aspettare il prossimo upgrade, come per esempio il wave beam che vi permetterà di avere una sorta di rampino per superare delle zone costruite ad hoc.
Altre volte, invece, il problema è solamente difficile, ma è complicato rendersene conto. Questo ci costringerà a fare un sacco di giri inutili per ritornare nuovamente in quella zona e capire che bastava tirare una bomba accanto un muro per aprire un varco, che ci spiana la strada per molte ore di gioco.
L’età che avanza
Ovviamente il gioco è difficile per sua natura. Siamo negli anni ’90 e i giochi sono tremendamente ardui. Ci sono quattro boss principali nel gioco, oltre ai vari mini-boss e sono veramente sfidanti.
Phantoon mi ha messo in vera difficoltà e sono dovuto morire un numero considerevole di volte prima di capire come saltare a tempo per evitare di farmi massacrare. Se lo guardi in un video sembra relativamente facile, ma proprio la sua naturalezza lo rende complicato. Pensi di dover scoprire chissà quale segreto, come avviene durante alcuni scontri, come per esempio con Draygon, e invece basta saltare al momento giusto. E oggi saltare in Super Metroid è tanto fondamentale quanto difficile.
Phantoon in Super Metroid
Il gameplay è l’unica cosa che è parzialmente invecchiata in Super Metroid. In realtà sono due i problemi principali: i dorsali per mirare in diagonale e il sistema di salto in casi particolari come il wall jump o lo screw attack.
Oggi gli analogici ci permettono di mirare in diagonale, mentre il titolo per Super Nintendo usava i tasti dorsali L/R per permettere questo movimento fondamentale con alcuni nemici, come il boss finale, Mother Brain.
Nonostante sia vero che arrivati a quel punto si prenda padronanza del movimento, durante tutto il gioco ho avuto difficoltà a mirare in diagonale. Non potete nemmeno immaginare il numero di parole fuori luogo che ho tirato quando sbagliavo a usare il rampino, con conseguente caduta e necessità di rifare tutto un pezzo da capo, mentre il gioco che se la ride perché sa di essere severo, ma ritiene che me lo meriti.
Salti malefici
Il wall jump è malefico. Sembra facile, ma può essere eseguito solamente rilasciando il tasto del salto quando si cambia direzione. Una scelta tecnica completamente differente rispetto a quanto avviene già da molto tempo nei videogiochi. Di conseguenza, è impossibile da maneggiare se non si prova e sbaglia decine e decine di volte.
Lo Screw Attack in mano a una statua Chozo in Super Metroid
Quando ho ricevuto l’ultimo upgrade, lo Screw Attack, ero contentissimo di poter diventare una palla di elettricità che potesse distruggere qualsiasi cosa in aria. L’idea di rimanere sospeso e superare tutte le zona platform difficili mi facevano sentire un Dio, ma poi la triste verità. Ho dovuto consumare tutta la pelle del mio pollice per riuscire a capire come superare le zone verticali con lo screw attack, perché l’analogico non lavora bene in questa situazione e il D-Pad mi ha fatto tornare in mente tutti i dolori fisici provati con il Super Nintendo e la PlayStation.
Le perle
Parliamoci chiaro, Super Metroid è ancora divertente e ha mantenuto intatto il suo fascino. La grafica è ancora bella. L’armatura di Samus ha dei colori sgargianti che vanno in contrasto con un’ambientazione che passa dal selvaggio allo sci-fi con una naturalezza incredibile.
Se non ci sono testi in Super Metroid è perché grafica e audio li rendono poco importanti. Le colonne sonore di Kenji Yamamoto sono ancora oggi delle perle, quindi ricordatevi di tenere l’audio a palla quando giocate questo titolo.
Metroidvania
Ci saranno altri momenti per approfondirlo, ma Super Metroid non è un metroidvania. La serie Metroid è sui generis e giocarlo è assolutamente obbligatorio se volete capire come si è evoluto il platform 2D negli anni.
L’esperienza di gioco dei metroidvania odierni è totalmente diversa da quella del titolo per Super Nintendo. Super Metroid è ancora divertente, ma per poterlo capire dovete assolutamente provarlo, perché la sua profondità non sempre rende bene in un video su YouTube. In definitiva, il mio consiglio è di giocare Super Metroid, perché è un’esperienza che nessun altro videogame può darvi.
I remaster dei videogiochi esistono ormai da decenni, ma è con questa generazione di videogame che hanno avuto un forte risalto tanto da essere parte fondamentale del panorama videoludico, insieme ai remake. Il rifacimento di videogiochi di successo ha permesso a una nuova generazione di videogiocatori di investigare sulla storia dei videogiochi riscoprendo grandi perle del passato.
Negli anni ’90, questo compito fu affidato al ROM hacking e agli emulatori che sono stati fondamentali per scoprire la storia dei videogiochi.
Cosa sono gli emulatori e il ROM hacking
Il ROM hacking è una tecnica che permette la modifica di un’immagine ROM, la memoria read-only in cui è contenuto il videogioco. Questa tecnica è già conosciuta da tempo ed è divenuta importante con la prima console Nintendo, il NES, e successivamente con il Super Nintendo.
Un emulatore è un software che permette di replicare in funzionamento di una macchina e, nel contesto videoludico degli anni ’90, significava permette a chi possedeva un computer di giocare ai titoli delle console Nintendo più datate, che non richiedevano dei tempi di computazioni così esagerati come poteva accadere per una Playstation o per la più recente Nintendo 64.
Il Game Boy Color
Nel 1998, arriva in tutto il mondo il Game Boy Color. Versione compatta e a colori dell’innovativo Game Boy, ha permesso a molti di noi di rigiocare in portabilità tanti giochi già disponibili per NES e Super Nintendo. Dopo poco l’uscita della console, arrivò su internet anche il suo emulatore e l’impatto fu clamoroso. Il Game Boy Color era una console portatile con poca potenza di calcolo e quindi gli emulatori riuscivano a replicare i videogiochi della console senza alcuna fatica.
Pokémon Blu e Pokémon Rosso
Sono stato un possessore di Game Boy Color, ma l’aneddoto farà sorridere molti di voi più esperti. Navigando su internet alla ricerca di news sul nuovo portentoso gioco Nintendo, PokémonBlu, trovai un sito in inglese che parlava di emulatori e ROM hacking per videogiochi. Bastava scaricare un piccolo file per poter giocare a tutti i Pokémon che volevo.
Semplicemente fantastico!
Scaricai quindi la ROM e feci partire. Non successe assolutamente nulla! Windows 98 mi chiedeva come aprire il file, ma io non capivo e la lingua di Albione non mi era di aiuto.
Rinunciai e pochi mesi dopo feci il mio più grande acquisto da videogiocatore. Il Game Boy Color era tra le mie mani con Pokémon Blu, a cui sarebbe seguito Pokémon Argento. Ai più giovani questo non dirà nulla, ma chi ha qualche anno in più riderà della mia ingenuità.
Avevo speso centinaia di euro (lire), perché non avevo capito che bisogna scaricare l’emulatore! Mai errore fu più azzeccato, perché il Game Boy Color fu una scelta che mi ha concesso tante ore piene di divertimento.
Alla scoperta di nuovi giochi
La mia storia con gli emulatori non finì così velocemente. Dopo aver esplorato molti giochi per la console portatile Nintendo, decisi di tornare alla carica sugli emulatori e scoprii il fantastico mondo dei titoli per Super Nintendo. La mia conoscenza videoludica è un po’ più ampia della media, perché il ROM hacking mi ha permesso di conoscere molti titoli sconosciuti ai più, che però hanno dato un enorme impatto alla creazione di videogiochi più noti.
Avevo una Super Nintendo, ma eravamo già verso la fine del suo ciclo e molti giochi non era più disponibili, ma gli emulatori di videogiochi mi hanno comunque permesso di conoscere pietre miliari che ancora oggi sono parte integrante del tessuto videoludico.
Mi viene in mente Super Mario Kart che ha rivoluzionato il genere e Super Metroid, ancora divertentissimo oggi e che ha permesso a tutti i Metroidvania di questa generazione di esistere.
Però non posso non pensare a tutte le ore passate su giochi meno conosciuti come Spy vs Spy. Nato dall’omonima serie di fumetti dell’autore cubano Antonio Prohias, bisogna muoversi tra le stanze in uno scenario che mi ricorda giochi come This War of Mine al fine di danneggiare l’avversario.
Spy vs Spy per Game Boy Color
Anche la generazione successiva capitanata dal Gameboy Advance ha avuto il suo emulatore e oggi permetterebbe di valutare giochi che non hanno ricevuto porting o remake, ma che lo meriterebbero come Advance Wars, o titoli mai arrivati in Europa come Captain Tsubasa, Eikou no Kiseki su cui passai un’infinità di giorni.
Le traduzioni dal giapponese
Il contributo fondamentale che il ROM hacking ha dato all’industria videoludica sta in tutti quei giochi che non sono mai arrivati in Europa. Qui, gli hacker del tempo hanno avuto due grandi pregi. Il primo è fornire i videogiochi anche nel vecchio continente. Il secondo è tradurre dal giapponese, e cinese, per permetterci di capirci qualcosa! E mi sto riferimento chiaramente alla serie più amata in Italia, ma peggio sfruttata in termini di videogame, Holly e Benji.
Captain Tsubasa IV: Pro no rival tachi
Captain Tsubasa, come lo chiamano i giapponesi, ha avuto ben cinque titoli per il solo Super Nintendo. La meccanica era sempre la stessa, ma la qualità grafica migliorava di volta in volta. I titoli erano una versione arcaica dell’attuale Inazuma Eleven. Si andava avanti con il pallone e quando si incrociava un avversario partiva una schermata in pieno stile Pokémon che ti chiedeva se passare, tirare o dribblare l’avversario. Unita alla fantasia di Holly e Benji il risultato era unico per il tempo e a tratti sarebbe ancora divertente oggi.
Purtroppo, come si può intuire da titoli come Captain Tsubasa III: Kōtei no chōsen e Captain Tsubasa IV: Pro no rival tachi, i videogiochi non lasciarono mai il Sol Levante e sarebbero stati incomprensibili a quasi tutti gli occidentali, se qualche genio non avesse deciso di usare delle ROM per tradurre i titoli in inglese, e se ricordo bene, anche in italiano.
Il paragone con il passato
Infine, vorrei far notare come ancora oggi, nonostante i titoli remaster, il ROM hacking potrebbe avere la sua valenza perché permetterebbe ai più giovani di capire perché chi ha più esperienza di loro dice che i titoli di nuova generazione sono troppo semplici. Molti metroidvania attuali, che possono vantare anche una spiccata difficoltà, hanno un sistema di gameplay innovativo e ben spiegato. Vi assicuro che lo stesso non si può dire per Super Metroid, dove potresti bloccarti perché nessuno ti ha detto che esiste il tasto per correre.
Anche se le case di sviluppo saranno contrariate dal trovare degli aspetti positivi, gli emulatori hanno permesso a molti loro giochi di diventare famosi anche in Occidente e ottenere un clamore di pubblico che altrimenti oggi non sarebbe mai potuto arrivare.
Il mio caso
Ho abbandonato gli emulatori da molto tempo, ma noto che per questo blog sarà necessario recuperare alcuni titoli passati, che per qualche assurdo motivo non hanno ricevuto un porting in alcune console che lo meriterebbero.
Per rimanere in tema di metroidvania, mi viene in mente Castlevania: Symphony Of The Night, disponibile ora per Android, ma che ancora non ha ricevuto nessun porting per Nintendo Switch e ovviamente una recensione dedicata non potrebbe contemplare l’utilizzo dei controlli touch dello smartphone.
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