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One More Gate: A Wakfu Legend – Provato dell’Early Access

Wakfu è il sogno che tutti gli aspiranti sviluppatori di videogiochi vorrebbero realizzare. Ankama è una società francese nata nel 2001 da tre soci fondatori: ANthony, KAmille, MAnu. Dopo il primo successo, l’MMO Dofus, Ankama si espande in diverse divisioni dando vita anche al mondo di Wakfu. La prima opera della saga è una serie animata, oggi disponibile anche su Netflix, ma il maggior successo arriva con l’omonimo MMORPG con combattimenti a turni. Oggi, Wakfu conta: tre film di animazione (OAV); tre stagioni della serie animata – è in arrivo la quarta; uno spin-off, un gioco di carte deck-builder con meccaniche roguelike, che abbiamo provato: One More Gate: A Wakfu Legend.

One More Gate: A Wakfu Legend: combattimento

Trama

Uno dei focus principali di Ankama è mantenere una fludità nella trama delle varie opere del mondo di Wakfu, integrandoli in un unico vasto universo – collegato anche a quello di Dufus. One More Gate: A Wakfu Legend sfrutta l’ampia lore e ci mette nei panni di Orobo, un giovane combattente, che ha distrutto un portale passandoci attraverso. Il compito del nostro alter ego è sistemare i portali, sconfiggendo tutti gli avversari che incontrerà nel suo cammino.

Gameplay

One More Gate: A Wakfu Legend è un gioco di carte con elementi roguelike e una progressione che si basa su quello che chiamerei try and level, poiché molte run saranno utili solamente ad accumulare esperienza e denaro al fine di avere un mazzo sufficientemente forte per andare avanti nel gioco.

Living Card Game

Il videogioco di Ankama Studios è un Living Card Game (LCG). Orobo inizia con un mazzo predefinito e può ottenere nuove carte in due modi: attraverso l’aumento di livello (l’esperienza si ottiene dopo ogni run); acquistando carte nel villaggio in cui siamo catapultati dopo ogni tentativo. In aggiunta, le carte possono essere potenziate accumulando una valuta ottenuta sempre durante l’esplorazione.

Le carte si dividono in tre gruppi: attacco, difesa e potenziamento. Ogni carta presenta tre sezioni: valore del costo, valore del danno/difesa/ponteziamento e un testo che spiega i dettagli, cioè se è un attacco singolo piuttosto che multiplo o se contiene delle parole speciali -ad esempio: poison o stampede.

In generale, è possibile costruire i mazzi sulle diverse parole chiave presenti nel videogioco. Purtroppo, le sinergie non sono ancora così efficaci come ci si può aspettare e i maggiori risultati si ottengono mettendo insieme le carte visibilmente più forti. Uno dei compiti degli sviluppatori nel prossimo futuro è sicuramente creare delle carte che rendano effettivamente conveniente costruire dei deck su archetipi basati sulle parole chiave del gioco.

One More Gate: A Wakfu Legend: deck build

Combattimenti

One More Gate: A Wakfu Legend è un gioco basato sulla tattica, poiché durante i combattimenti, sopra la testa di ogni avversario, possiamo vedere la sua mossa successiva. Questo permette di prepararci in anticipo tanto in difesa quanto in attacco. Ragionare sulla scelta da fare è molto importante, perché gli avversari sono coriacei e fanno parecchio male. Basta sbagliare un turno per compromettere l’intera run.

In combattimento, il costo di ogni carta varia da -1 a +6, che è anche il numero massimo di energia accumulabile; infatti, Orobo comincia lo scontro con tre energie e arriva fino a sei, turno dopo turno. Una volta sbloccate tutte le energie, e se usate tutte nel turno, è possibile giocare una carta perfect, solitamente un potente attacco singolo o ad area.

Il lato negativo della grande resistenza dei nemici è la frustrazione di dover affrontare continuamente gli stessi combattimenti con tanti turni e senza particolari colpi di scena. In particolare, gli avversari sono ancora troppo pochi e con un numero ridotto di azioni: il risultato è un’eccessiva ripetitività e una noia certa che potrà essere risolta solo portando nuovi contenuti.

Roguelike

Orobo affronta le sue missioni muovendosi su una mappa con percorsi multipli, come già visto in giochi basati sulle carte come Inscryption – che abbiamo anche recensito – oppure Hand of Fate. Nonostante le diverse possibilità di scelta, i percorsi sono alquanto statici, poiché le avventure si dividono in tre macro-blocchi scanditi da check-point in cui poter recuperare una parte dei propri punti vita. In ogni macro-blocco, i nemici e le aree che forniscono premi o bonus sono sempre gli stessi. Andando avanti è anche possibile affrontare delle quest secondarie, che garantiscono delle rune permanenti alla singola run; nello specifico, ci sono già un buon numero di rune, alcune delle quali possono cambiare il corso di ogni tentativo.

One More Gate: A Wakfu Legend: roadmap

Conclusione

One More Gate: A Wakfu Legend è un videogioco in pieno sviluppo, che potrà essere un ottimo passatempo se arricchitto con tanti e diversi contenuti. Attualmente, l’opera pena di noiosità, poiché i combattimenti con così poche scelte durano troppo a lungo, risultando ripetitivi.

Preciso che ho provato One More Gate: A Wakfu Legend su personal computer, ma il gioco da il meglio di sé in condizioni più agili; infatti, su PC il titolo è eccessivamente statico, mentre avere la possibilità di giocarlo su Nintendo Switch sul divano o in mobilità ha sicuramente tutto un altro gusto. Personalmente, consiglierei agli sviluppatori di portare il titolo su mobile dove riceverebbe feedback sicuramente positivi.

Aldilà della piattaforma, gli sviluppatori hanno mostrato alcuni guizzi, basati soprattutto sulla caratterizzazione dei personaggi – mi riferisco alle quest secondarie e i primi boss – che mi fanno ben sperare. In definitiva, il sistema di gioco ha una sua logica, che mi fa venir voglia di riprenderlo in mano tra qualche mese per vederne i progressi.

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Editoriali

Return to Monkey Island è un’anacronistica necessità

“Salve, sono Guybrush Threepwood, temibile pirata”: quanti di noi sono cresciuti con questo tormentone nella testa, agli inizi degli anni ’90, quando le avventure grafiche spopolavano tra i videogiocatori di Amiga? Era il 1990 e la Lucasfilm, poi Lucasarts, nota casa di produzione cinematografica già autrice di pietre miliari nel genere videoludico come Zak McKraken, Indiana Jones e Loom, tirò fuori dal cilindro The Secret of Monkey Island, avventura grafica che innumerevoli notti insonni regalò ai giovani dell’epoca, almeno nel mio caso). Il recentissimo Return to Monkey Island riprendere esattamente da dove eravamo rimasti, con l’obiettivo di chiudere la trama.

La storia

Protagonista della serie è Guybrush Threepwood, temibile pirata o quasi, che in realtà di temibile il personaggio ha ben poco: lo si può definire tranquillamente un farfallone, ironico e rubacuori, un molto ma molto fortunato piratucolo trovatosi nel momento giusto e al posto giusto. Ed è su questa linea che Ron Gilbert, geniale creatore della serie, fa proseguire il suo “vero” terzo capitolo dopo ben 31 anni dall’ultimo episodio. Return to Monkey Island (sviluppato TerribleToyBox con la collaborazione della Lucasfilm). È un ritorno al passato, un cerchio che si chiude, la ciliegina sulla torta, un “padre di famiglia” che finalmente ha deciso di raccontare la fine della storia, a noi che avendo giocato ai primi due capitoli a suo tempo un po’ tutti figli di Gilbert lo siamo.

Return of Monkey Island è un toccasana in questi tempi, in cui le avventure grafiche non vanno più di moda e dove le nuove generazioni rincorrono sparatutto con grafica fotorealistica. Si tratta di un ritorno alla sana ironia e al filone dei videogiochi dove è ancora necessario usare il cervello per arrivare alla fine.

A dire la verità, per quanto Return to Monkey Island sia un gioco con una trama che può essere completata in circa una decina di ore in modalità difficile (RTMI ha anche una modalità “leggera” con meno enigmi che impedisce ogni tipo di frustrazione), il mio consiglio è di prendersela comoda, di conoscere tutti i personaggi, di sperimentare ogni dialogo perché signori, il tutto vale davvero il prezzo del biglietto!

Ok bello, ma tecnicamente?

Tecnicamente Gilbert non si è molto discostato dal concetto del vecchio SCUMM, innovandolo però con una nuova interfaccia che prevede che il cursore identifichi gli oggetti con i quali si può interagire “suggerendo” l’azione da intraprendere in base agli oggetti stessi. La grafica, per quanto in fase di anteprima sia stata criticata da buona parte della comunità videoludica di appassionati e non, risulta a mio avviso ben riuscita, centrando perfettamente la caratterizzazione dei vari personaggi, dai protagonisti alle comparse. Gli enigmi sono ben calibrati riuscendo, nel contempo, a rappresentare una sfida adeguata senza appesantire la storia di sfide troppo cervellotiche che porterebbero alla frustrazione del giocatore.

Gilbert tra l’altro lo aveva anticipato nelle sue varie interviste prima dell’uscita del titolo, il 19 settembre: ha dovuto, in fase di realizzazione, privilegiare enigmi quanto più possibili lineari per andare incontro alla generazione attuale di videogiocatori, non disposta a sacrificare più tempo del dovuto come magari nei primi anni ’90. In quest’ottica, altro supporto ai videogiocatori è dato dal libro degli aiuti, disponibile sin dai primi istanti nell’inventario di Guybrush e utilizzabile a piacimento. “Se il giocatore si barcamena cercando aiuti su internet, tanto vale che glieli diamo direttamente noi del team di sviluppo, che il gioco l’abbiamo creato” ha affermato Ron Gilbert.

Quella mente geniale di Ron Gilbert

La trama di Return to Monkey Island

La storia di Return to Monkey Island inizia esattamente dallo stesso punto in cui è finito il secondo capitolo, prendendo la piega che probabilmente aveva in mente Gilbert sin dal principio. Certo, ha dovuto fare i conti col passato e con il fatto che prima di RTMI sono usciti altri tre capitoli, ma grazie a dei flashback narrativi e al libro dei ricordi, il giocatore viene riportato immediatamente sui giusti binari della storia.

Sono passati anni da quando Guybrush ha cercato di mettere le mani sul Segreto di Monkey Island, di fatto non riuscendoci a causa del malvagio pirata fantasma Le Chuck che si è rivelato avere il suo stesso obiettivo. Ora si ritrova di nuovo sull’isola di Melee: tante cose sono cambiate ma non la voglia del nostro eroe di scoprire il Segreto. Venendo a sapere che Le Chuck sta mettendo su una ciurma per salpare verso l’Isola della Scimmia, trova il modo di salpare anche lui.

Tutto qui?

Le cose si complicano quando entra in gioco anche un trio di pirati improbabile, salito alla ribalta come nuovo comando pirata dell’isola di Melee e che, attraverso la magia oscura, cerca anch’esso il Segreto alleandosi a fasi alterne, con una spruzzata di un pò di sano doppiogiochismo piratesco, con Le Chuck. Ci saranno nuove isole da esplorare e nuovi personaggi da incontrare, ma anche alcune conoscenze di vecchia data: i riferimenti al passato sono numerosi lungo tutto il gioco, e avremo nuovamente a che fare con Carla, Stan, Otis, Herman.

Se una nota si può appuntare a Ron Gilbert è che, a volte, è davvero estenuante dover andare da un punto all’altro della mappa perché magari ci si rende conto di non aver preso un oggetto…ma d’altronde, è questo lo spirito di un’avventura grafica (peraltro i tempi di percorrenza vengono efficacemente ridotti), fino allo scontro finale, il faccia a faccia tra Guybrush e Le Chuck da tutti atteso, scontro in cui colui che ne uscirà vittorioso avrà finalmente in mano il desiderato Segreto di Monkey Island!

Conclusioni

RTMI è un gioco da provare, adatto sia a chi non ha mai avuto a che fare con un’avventura grafica e non conosce la saga, sia ai fan di vecchia data di Guybrush per i quali diventa un “must have”, imprescindibile prosecuzione (e fine?) del percorso fatto finora tra isole, spade, vascelli e zombie fantasma.

Return to Monkey Island è un gioco di altri tempi di cui si sentiva proprio il bisogno, un prodotto quasi anacronistico ma tremendamente attuale per chi lo aspettava da ben 31 anni. Sembra ieri aver lasciato Guybrush e affini in quel criptico finale di Monkey Island 2, e oggi eccoci qui, con in mano un bellissimo seguito in cui i dialoghi, la satira, l’ironia ci accompagnano nell’opera, forse, di commiato di Ron Gilbert. Saluteremo probabilmente Ron, ma in futuro credo proprio che la saga proseguirà. Monkey Island continuerà a vivere e quel piratucolo senza nessuna speranza con un nome più assurdo della sua ambizione avrà ancora altre avventure da affrontare.

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FIFA 23 – Recensione: Ultimate Team ha un nuovo Meta, ma scarso realismo

Recensione in BREVE

FIFA 23 prova a virare sul realismo, ma con scarso successo. La nuova tecnologia HyperMotion2 rende il controllo di palla dei calciatori più complicato, ma lo stile arcade dell’opera di Electronic Arts non subisce alcuna variazione. I videogiocatori di Ultimate Team troveranno interessanti gli stili di corsa introdotti dall’algoritmo AcceleRate, ma il solo cambio di Meta su FUT non è l’innovazione che mi aspettavo.

7.5


FIFA 23 sarà l’ultimo titolo calcistico di EA Sports a portare il nome della federazione internazionale di calcio. Solo il tempo ci dirà i reali motivi di questa scelta, ma se ma tre indizi fanno una prova, possiamo ipotizzare il movente. La motivazione – più o meno – ufficiale parla di richieste eccessive da parte della FIFA; a questa motivazione, possiamo aggiungere la nascita della Superlega e la presenza della Juventus di Andrea Agnelli in quest’ultima versione del gioco. Tre indizi che mi fanno pensare che la Superlega sia viva e stia tramando nell’ombra una rivoluzione. La stessa che promette FIFA 23, ma che come vedremo in questa recensione è solo un leggero passo avanti.

Nonostante il franchise di Electronic Arts contenga diverse modalità, la maggior parte delle analisi di questa recensione sarà dedicata al gameplay e alla modalità che è il motivo per cui FIFA 23 ha il maggior fatturato dell’industria: Ultimate Team.

Gameplay: tante aggiunte, nessuna novità

Il motore che porta avanti il calcistico di EA Sports passa inevitabilmente dall’hype che si genera ogni estate nella speranza di vedere un prodotto che sia più simile possibile alle utopiche aspettative di noi videogiocatori. FIFA 22 pensare di portare il realismo con HyperMotion (su next-gen), ma il risultato è stato un titolo in cui l’utente è eccessivamente aiutato dall’intelligenza artificiale.

FIFA 23 espande la sua tecnologia e la chiama HyperMotion2. Electronic Arts ha raccolta oltre 6.000 animazioni, le ha mischiate con un algoritmo di machine learning e ha provato a rendere gli atleti più reattivi e i loro movimenti più realistici. I risultati – positivi e negativi – si notano su due fronti: le animazioni e gli stili di corsa.

Recensione FIFA 23: HyperMotion 2

Le nuove animazioni

Durante le primissime partite, ho avuto l‘inquietante sensazione che l’HyperMotion2 avesse creato un gameplay molto, troppo simile a eFootball 2023. I giocatori manovrano il pallone con più lentezza rispetto al passato, quasi zavorrati da un pallone più pesante del solito; andando avanti mi rendo conto che non si tratta di una sensazione, ma di un vero e proprio peggioramento delle abilità tecniche di ogni giocatore, soprattutto i più agili. Anche i giocatori più tecnici e leggeri non possono più girarsi e rigirarsi continuamente sul posto – una delle azioni meno realistiche e più fastidiose delle precedenti edizioni del gioco. Per arrivare in porta, bisogna imbastire un’azione corale basata soprattutto sui passaggi di prima, che ho trovato eccessivamente precisi anche con giocatori di scarsissimo valore.

Purtroppo, la sensazione di realismo finisce qui; infatti, FIFA 23 si basa su repentini contropiedi in cui ritorna prepotentemente il tanto odiato lancio lungo sulla punta fisica e veloce (chi ha detto Kylian Mbappé?).

Le animazioni di FIFA 23 hanno anche un altro lato negativo: i rimpalli. Ho seguito la scena competitiva per qualche giorno e il feeling dei pro-player è la stessa che ho ravvisato anche io: le nuove animazioni hanno creato una serie di rimpalli inverosimili.

In questo momento, lo scenario su FUT è proprio quello che state immaginando: contropiedi fulminei, lanci lunghi e rimpalli fortunosi. Le partite su Ultimate Team sembrano sembrano dei flipper in cui la palla corre, ma i giocatori sono troppo macchinosi per seguire la sfera. Una dicotomia strana che rende il nuovo capitolo di EA Sports uno strano ibrido: i difetti dell’ex PES si uniscono all’arcade game di FIFA, in un mix strano, comunque ancora molto legato al passato del franchise dell’azienda di Redwood City.

Stili di corsa

Gli stili di corsa sono ancora un mistero per l’intera community, ma sembra possano cambiare radicalmente il Meta di Ultimate Team; infatti, potrebbero rendere giocabili alcuni calciatori che prima erano ingiustamente impacciati: tra gli attaccanti Erling Haaland e Robert Lewandowski; tra i difensori Virgil van Dijk.

Fino ad oggi, oltre alle statistiche, i calciatori di FIFA si dividevano per body type – la loro struttura fisica – che poteva cambiare completamente l’impatto delle statistiche del calciatore. A questa feature, adesso si aggiunge anche lo stile di corsa introdotta da un nuovo algoritmo; AcceleRATE modifica lo il modo di correre di ogni giocatore in tre categorie: controllato, esplosivo o prolungato. La formula prevede che un giocatore piccolo e agile sia veloce sul breve e perda terreno sul lungo (corsa esplosiva); un difensore alto e forte avrà meno accelerazione, ma guadagnerà terreno sul lungo periodo.

I veterani probabilmente ricordano che qualcosa di simile già esiste con la suddivisione in accelerazione e velocità scatto nella statistica della velocità, ma su FIFA 23 le cose sono molto più interessanti. Lo stile di corsa ha un impatto importantissimo nella struttura di un giocatore, così tanto da cambiare il Meta di Ultimate Team. In aggiunta, alcuni videogiocatori si sono accorti che lo stile di corsa cambia in base ai parametri del calciatore, al netto degli stili intesa. Una scoperta che potrebbe creare nuove scelte nella costruzione della propria squadra.

Recensione FIFA 23: Stili di Corsa

Power Shot e Calci Piazzati

Il tiro potente è una nuova feature, potenzialmente letale: premendo i dorsali (L1+R1) mentre si tira, il calciatore simula un vero e proprio tiro della tigre. Il nuovo tiro è molto forte, ma ha due malus: come insegna Kojiro Hyuga, richiede del tempo per essere caricato; inoltre, il tiro ha una direzione praticamente manuale, come i colpi di testa: svirgolare è veramente semplice. Vale la pena masterarlo? Sì, anche perché quando tirate la camera si stringe creando un effetto in stile “anime giapponese” che tanto abbiamo amato da piccoli.

Infine, gli sviluppatori di Redwood hanno messo mani anche ai calci piazzati, rendendoli meno dinamici e molto simili a quanto abbiamo già avuto modo di vedere sui vari capitoli di Pro Evolution Soccer; in pratica, decideremo l’effetto da dare al pallone prima di calciare, con l’utilizzo della levetta analogica destra.

Recensione FIFA 23: Tiro Potente

FUT: FIFA Ultimate Team

La modalità regina del nuovo modello di guadagni videoludico si aggiorna con diverse novità, tutte molto piacevoli.

Nuova intesa

Il maggior cambiamento di FUT 23 è il nuovo sistema di intesa tra i calciatori. Gli sviluppatori di EA Sports hanno rimosso il vincolo per cui l’intesa doveva essere creata tra giocatori contigui; ora, l’intesa può essere di tre livelli – indicati da altrettanti rombetti – e aumenta quando il team contiene, indipendentemente dalla posizione, calciatori che giochino nello stesso campionato, squadra o siano della stessa nazionalità. L’enorme vantaggio è la possibilità di avere i migliori giocatori di ogni squadra, senza dover portarsi dietro un intero reparto.

La limitazione imposta da FIFA 23 è sul ruolo di ogni calciatore. Finisce l’era di Mbappé centrocampista centrale: ogni membro della squadra può ricoprire un numero limitato di ruoli, solitamente molto simili a quelli di origine. Fortunatamente, non tutti i mali vengono per nuocere; infatti, alcuni esterni possono giocare su entrambe le fasce mantenendo la massima intesa. Questo crea maggior realismo, che aumenta ulteriormente quando Pierluigi Pardo scandirà l’intera formazione, con ogni calciatore nel proprio ruolo.

Cross-Play

Il tanto desiderato cross-play è finalmente arrivato anche su FIFA. Nel mio caso, giocando su Xbox Series X, la nuova feature mi ha fatto incontrare soprattutto utenti provenienti dal mondo PC. Durante queste partite, il gameplay è sempre stato piacevole; inoltre, avere un unico mercato (console) aumenta ulteriormente la godibilità della modalità. Purtroppo, il competitivo è ancora relegato a un’unica console: PlayStation 5, con buona pace degli utenti Xbox e PC.

Infine, un’interessante aggiunta per i try harder sono i Momenti: una nuova modalità di Utimate Team, che prevede il completamento di diverse mini-sfide. Rispetto alle Squad Battles, in cui si ricevono pacchetti ogni settimana, le sfide dei Momenti permettono di accumulare delle stelline scambiabili nell’apposito negozio per pacchetti – al momento solo “normali”.

Recensione FIFA 23: Momenti

Grafica: manca ancora qualcosa

Anche se la recente debacle ne ha ridimensionato la fama, Pro Evolution Soccer è sempre stato un passo avanti in termini di qualità visiva, soprattutto nei volti degli atleti. Lo stesso vale quest’anno: FIFA 23 è carino da vedere, ma non scatena mai l’effetto wow che ci si aspetta da una produzione di Electronic Arts.

I volti di FIFA 23 sono a tratti eccezionali, ma troppe facce famose del panorama europeo che non hanno ricevuto la giusta attenzione. Il problema si accentua ulteriormente in tutto il contorno stilistico: dallo stadio al pubblico, tutto sembra ancora ben lontano dal realismo che eFootball riesce a fornire, nonostante tutto.

Le tracce audio invece sono sempre di altissimo livello, anche quest’anno.

Le altre novità

La modalità Carriera non offre particolari sussulti. Equamente divisa tra Allenatore e Giocatore, la modalità Carriera di FIFA 23 permette di impersonare i più famosi allenatori come Pep Guardiola o Antonio Conte.

L’unica novità della modalità Pro Club e Volta Football è il loro accorpamento in un’unica entità.

Per quanto riguarda i contenuti, invece Electronic Arts ha già portato nel suo nuovo titolo i club di calcio femminile e aggiungerà nei prossimi mesi anche l’evento dell’anno: la FIFA World Cup Qatar 2022.

Conclusione

EA Sports punta ancora sulla sua tecnologia basata su dati e l’intelligenza artificiale. HyperMotion2 porta dei cambiamenti, ma il risultato è ben lontano dal realismo preannunciato. FIFA 23 è il solito titolo arcade, reso un po’ più ibrido, sicuramente più macchinoso, ma non troppo diverso dai sui predecessori.

I maggiori cambiamenti dell’HyperMotion2 si riscontrano nel Meta della modalità Ultimate Team, che potrà fare a meno dei giocatori molto agili e sembra aver dato una dignità a calciatori di grande spicco del calcio mondiale fino ad oggi ignorati dai pro player. I giocatori di FUT che già apprezzano la modalità, troveranno FIFA 23 interessante. Chi non ha mai amato Ultimate Team invece non ha grandi motivi per provare questa nuova annata calcistica.

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: Sportivo, Calcio
  • Lingua: Italiano
  • Multiplayer: Si
  • Prezzo: 79,99€
  • Piattaforme: PlayStation 5, PlayStation 4, Xbox One, Xbox Series S|X, PC
  • Versione provata: Xbox Series X

Ho solcato i campi nazionali e internazionali per oltre 25 ore grazie a un codice gentilmente fornito dal publisher.

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Soulstice – Recensione: dinamico orgoglio italiano

Recensione in BREVE

Soulstice mi ha stupito. La trama originale e l’ottima caratterizzazione dei personaggi principali sono dei buoni punti di forza. La “sinergia” che si crea in campo di battaglia fra le sorelle, sia nel gameplay che nella narrazione, lo rende un titolo credibile. Il set di armi, i comandi disponibili e le modalità presenti fanno in modo che il gameplay risulti innovativo e fresco. Tecnicamente l’aspetto grafico è buono seppur migliorabile e la colonna sonora risulta godibile ma non miracolosa. Videogioco di qualità, che farà parlare di sé nonostante non rivoluzioni il genere.

8.5


Soulstice è la prima avventura, tutta italiana, di Reply Game Studios e si è rivelata di assoluta qualità; un hack-n-slash con un volto da action RPG, dalle tinte orientaleggianti che strizzano l’occhio ai classici del genere, come la saga Devil May Cry, opera che, come vedremo in questa recensione, ha sicuramente ispirato gli sviluppatori di Soulstice.

Questo genere di giochi ha degli elementi classici che li caratterizzano, primo fra tutti le spettacolari scene d’intermezzo, caratterizzate da atmosfere intense e colori vivi. Elemento di spicco è anche il combat system, che in un gioco del genere deve essere passato sotto la lente d’ingrandimento, essendone il punto cardine del gameplay. Già, perché ogni gioco che vuole essere considerato importante deve porre la giocabilità alla base, così da legare insieme tutti gli elementi di trama e tecnici in un unico corpo.

L’assenza di bug infine è diventata una caratteristica desiderabile ed assolutamente non scontata, per evitare potenziali terremoti – come i recenti disastri che hanno colpito titoli importanti come Cyberpunk 2077.

Tecnicamente solido

La Breccia di Ilden in Soulstice
La Breccia nella città della Portatrice della Fiamma

Il comparto grafico è di discreto impatto anche se si deve ammettere che, rispetto a titoli blasonati, pecca di qualità. Impostando infatti i dettagli al massimo, non si ottengono effetti sbalorditivi ma solo di buona qualità. Con le texture, ombre, antialiasing e risoluzione al massimo si notano comunque le scalettature dell’immagine, anche se i dettagli dei volti e della fisionomia delle due protagoniste rimangono godibili e di buona fattura.

Discorso a parte meritano i video, che hanno una discreta resa grafica, sono interessanti e godibili. Aiutano molto bene a spiegare la trama e si riescono a seguire senza essere troppo concitati, riuscendo a cogliere anche i dialoghi.
Ciò fa pensare che nonostante i buoni video, la resa grafica finale sia mediocre. Si poteva fare meglio, decisamente.
Per quanto riguarda l’audio abbiamo musiche di discreta qualità, che fanno da buon accompagnamento durante i combattimenti ed i video. Fa il suo lavoro il comparto audio dunque, senza infamia e senza lode, non facendo gridare di certo al miracolo.

Il Caos e gli Dei come non gli avete mai visti

Briar e Lute di Soulstice
Briar e Lute, le due sorelle protagoniste

L’universo di gioco è basato su un mondo costruito da tre combattenti che hanno imbrigliato e dato forma al Caos, creando l’uomo. Una premessa originale, seppur presenti più di un richiamo a giochi storici.

Di sicuro è anche molto interessante la storia delle nostre protagoniste, Briar e Lute. Briar è la cinica combattente bendata e Lute la sua Ombra, una sorta di fantasma guida per ogni Chimera.

L’intera avventura è incentrata sulla scoperta del misterioso fenomeno che ha provocato una sorta di enorme squarcio nel cielo, da cui stanno uscendo creature malvagie capaci di impossessarsi delle persone e distruggere tutto ciò che incontrano. Ma il viaggio non è solo questo, è anche una scoperta dell’intimo legame presente fra le sorelle. Questo elemento è fondamentale durante la storia, poiché capace di rendere interessante e profonda l’avventura, dando quel qualcosa in più alla solita distruzione di mostri vari.

Il connubio trama/gameplay è un collante non da poco, rendendo il gioco più divertente ed appetibile.

Combattimenti dinamici ed innovativi

Boss Fight
Uno degli scontri con un boss

Parliamo del combat system, la base di ogni action RPG ed hack-n-slash che si rispetti. Devo dire che sono rimasto anche qui piacevolmente stupito. Le due sorelle hanno abilità nettamente distinte e complementari, entrambe fondamentali da padroneggiare. Se da una parte questa è una pecca, in quanto obbligano ad un certo grado di familiarità con i comandi e switch fra gli stessi durante i combattimenti, ne è anche l’elemento di forza.

Le capacità di Briar di padroneggiare varie armi, in numero peraltro affatto limitato, con varie combo associate ed intercambiabili in corso d’opera, già arricchisce molto le possibilità di combattimento. A questo si deve aggiungere la capacità di intervallare azioni di attacco con quelle complementari della sorella Lute, non necessariamente solo di difesa.

Ci si trova per questo spesso a non dover attaccare forsennatamente ma anche difendersi con le abilità di Lute, da utilizzare al momento giusto. Sì, perché se non si agisce con il giusto tempismo si subisce un attacco, e questo oltre al danno contribuisce al ridurre la sintonia fra sorelle. E la sintonia non è solo un elemento di contorno, ma è anche ciò che permette di compiere attacchi in modalità furia, se caricata a dovere.

Briar in modalità Furia
Primo piano di Briar in modalità Furia

Che cos’è la furia? È un modalità in cui le abilità di Briar e Lute vengono amplificate, votando però tutto sull’attacco per un breve lasso di tempo. La finisher, ovvero l’attacco al culmine e poco prima del termine della modalità, dipende dall’allineamento di Lute.

Qui entra in gioco l’albero delle abilità di Lute. Anche Briar ha il suo, orientato alle armi e relative combo da sbloccare con i punti. Per quanto riguarda l’Ombra però, dipende tutto da che stili di attacco e difesa si prediligono. Si, perché scegliendo attacchi che provocano danni enormi, si favorisce uno stile di combattimento Caotico, con diretti effetti sugli attacchi furia e relative conseguenze. Con stile Caotico ad esempio si perde una certa quantità di salute ad ogni attacco finale di Furia, mentre con un orientamento Equilibrato si ottiene un attacco più contenuto ma senza arrecare alcun danno a Briar.

C’è infine la padronanza di Lute dei campi di Esilio ed Evocazione. I campi sono delle “bolle” dove combattere determinati tipi di nemici e rompere blocchi simili a rocce, che impediscono l’accesso a determinate aree di gioco. Per questo i campi hanno duplice funzione di elementi di contorno fuori dal combattimento ed elementi attivi nel combat system, in cui si deve swithcare tra le due protagoniste per affrontare certi tipi di nemici. Se si utilizzano per troppo tempo i campi senza abbassare l’entropia, si rischia il sovraccarico e si perde Lute per qualche secondo. Dunque, il combat system mi sembra decisamente innovativo ed a mia memoria non mi pare di aver visto nulla di simile. Complimenti agli sviluppatori davvero!

Ottimo lavoro made in Italy

Briar in combattimento
Briar in un momento di difficoltà

Come elemento di menzione speciale, non si può non far presente che la casa di sviluppo è tutta italiana. Comincia ad essere maturo il mondo del gaming nostrano, con giochi di primo ordine ormai abbastanza consolidati all’orizzonte. Di sicuro Soulstice entrerà a far parte di questo Pantheon di titoli, con merito.

Il combat system merita attenzione per innovatività e capacità di essere coinvolgente, nonostante la non troppa facilità di padronanza. Unito al legame fra trama e combattimento, ci si trova davanti a davvero un ottimo titolo action che sono sicuro farà parlare di se.

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: Hack-n-Slash, Action RPG
  • Lingua: Italiano
  • Multiplayer: No
  • Prezzo39,99€
  • Piattaforme: PC, Xbox Series X/S, PlayStation 5
  • Versione provata: PC

Ho attraversato le lande del Sacro Regno di Keidas per circa 20 ore, grazie a un codice gentilmente fornito dal publisher.

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Cult of the Lamb – Recensione: una dissacrante liturgia

Recensione in BREVE

Cult of the Lamb è divertente nella sua semplicità. L’idea di trovare un punto di contatto tra un roguelike in stile The Binding of Isaac e un gestionale alla Harvest Moon è vincente, ma durante le ore passate a giocare, ci si aspetta un climax di crescente difficoltà che non arriva mai. I giocatori meno esigenti troveranno il titolo soddisfacente, mentre i fan dei roguelike non saranno mai messi veramente alla prova.

8.5


Il calendario annuale dei videogiochi ha dei dogmi ben precisi: se un gioco esce durante la settimana di ferragosto, non sarà memorabile. Questa dottrina, unita alla voglia di spiaggia, ha posticipato la mia recensione di Cult of the Lamb. Un peccato mortale.

Cult of the Lamb è il terzo titolo, non mobile, di Massive Monster. La software house australiana, che ha accumulato esperienza con i platform, ha unito le forze con l’ormai celebre publisher Devolver Digital per portare sul mercato un irriverente roguelike con accentuate meccaniche gestionali dalla grafica dolce e dai toni cupi.

Rinascere profeta

Il protagonista dell’opera è un agnello, letteralmente, sacrificale. Cult of the Lamb inizia con il nostro eroe pronto per essere sacrificato sai quattro vescovi simil-lovecraftiani. In realtà, il sacrificio è reale e la vita del povero agnello, apparentemente, termina; almeno fino a quando non ha un incontro onirico con The One Who Waits: una divinità imprigionata alla ricerca di un profeta che possa dare il via alla sua nuova ascesa. Ovviamente per farlo sarà necessario demolire l’attuale religione a favore della nostra.

Come altri videogiochi moderni – per esempio, Fire Emblem: Three Houses di cui abbiamo già parlato in passato – Cult of the Lamb si dirama su due piani: combattimenti e gestione.

Ogni credo che si rispetti ha un cospicuo numero di fedeli. L’agnello, cioè il videogiocatore, li recupera all’interno dei dungeon più pericolosi, uno per ognuno dei quattro vescovi. Solitamente si tratta di povere creature pronte per il sacrificio, che prima l’agnello salva e poi li converte alla nostra religione, facendogli spesso fare una fine anche peggiore.

Cult of the Lamb: i sermoni

Gestionale

La gestione del credo prevede mantenere un villaggio pieno di fedeli basato su tre indicatori: fame, malattie e fede. La fame si attenua cucinando cibo per i nostri credenti, mentre le malattie si curano facendo riposare i malati e mantenendo pulito il villaggio. Infine, la fede può essere tenuta alta esercitando rituali. Come dicevamo però, il nuovo profeta non è necessariamente migliore dei suoi predecessori e l’agnello può sacrificare i suoi discepoli per un bene maggiore, molto spesso molto conveniente per il proseguo del gioco.

Durante la fase gestionale, ho passato per la maggior parte del tempo all’interno del villaggio dove l’agnello può, o incaricare i suoi adepti, di raccogliere risorse (legno e pietre) o pregare per aumentare la devozione. Sotto le vesti dell’agnello possiamo anche creare nuove strutture ed eseguire una serie di riti all’interno del Tempio; in particolare, le liturgie sono tre: sermon, per aumentare i bonus quando entriamo all’interno di un dungeon; crown, per instaurare nuove dottrine che aumentano la nostra forza in combattimento e aggiungono nuovi rituali; rituals, liturgie di vario genere, tra cui i sacrifici, per migliorare lo status del villaggio e dei suoi abitanti.

Cult of the Lamb: il villaggio

L’esplorazione

Una volta usciti dal villaggio è possibile raggiungere due luoghi: i dungeon e altre zone della mappa in cui alcuni NPC incontrati durante le missioni ci permettono di completare una serie di quest secondarie.

Nella parte bellicosa di Cult of the Lamb, il numero quattro si ripete più volte. Quattro sono i vescovi, quattro sono le tipologie dei dungeon e quattro sono le volte che bisogna ripetere le zone di guerra prima di affrontare il boss finale dell’area.

Una volta dentro i dungeon – come già visto in tantissimi roguelike come Darkest Dungeon – una mappa permette all’agnello di scegliere il percorso sino alla battaglia finale. Ogni luogo d’interesse può avere diversi incontri, più o meno positivi, tra cui gli, ovviamente, gli scontri.

I combattimenti

I combattimenti sono abbastanza basilari. Qunado l’agnello entra in una stanza, deve essere l’ultimo, e unico, a uscirne. Per farlo, può attaccare con la sua arma o con una maledizione (una magia): le armi si differenziano per velocità e danni causati; le maledizioni sono scelte casualmente all’inizio di ogni dungeon da un pool ampliabile con perk ottenuti con i sermoni. Infine, si può schivare e saremo invulnerabili in quel momento.

I nemici, così come i dungeon, sono pochi, ma ogni avversario ha i suoi pattern da imparare pressoché a memoria. I boss, e mini-boss, hanno degli schemi d’attacco più complicati rispetto ai normali nemici, ma a livello normale – difficoltà consigliata dal gioco – ho terminato il gioco morendo soltanto una volta durante l’ultimo boss del videogioco.

Conclusione

La recensione di Cult of the Lamb non può non considerare la dissacrante satira rivolta alle religioni. Non ci sono giri di parole: la vita dell’agnello è stata risparmiata e gli sono stati donati enormi poteri. Non c’è alcun bonus se si trattano bene i propri discepoli; anzi, più si è senza scrupoli, più si progredisce velocemente. L’agnello è in realtà solo un travestimento per il lupo. Nonostante l’intera trama contenga tante, troppe, similitudini con Death’s Door – un’altra opera indie di Devolver Digital che abbiamo anche recensito – Cult of the Lamb ha molto carattere e una veste grafica 2.5D originale.

Cult of the Lamb non è un gioco perfetto, poiché troppo semplificato nelle meccaniche, tanto quelle gestionali quanto nei combattimenti. Però è dannatamente assuefacente. Il roguelike di Massive Monster mi ha fatto continuamente pensare: “Ancora una stanza” oppure: “Ancora un sermone”, cioè qualcosa di assolutamente non necessario perché il quick resume di Xbox Series X permette di riprendere da qualsiasi punto ogni volta che si vuole.

Ancora una volta, Devolver Digital è riuscita ad attirare la mia attenzione. Questa volta non è un must-have, ma un videogioco che riesce a mettere insieme tutte le meccaniche più amate dei titoli recenti in un videogioco immediato, divertente e dissacrante.

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: Azione, Roguelike, Gestionale
  • Lingua: Inglese
  • Multiplayer: No
  • Prezzo: 29,99€
  • Piattaforme: PC, Playstation 4, PlayStation 5, Xbox One, Xbox Series S|X, Nintendo Switch
  • Versione provata: Xbox Series X

Ho rafforzato il culto dell’Agnello in circa 15 ore grazie a un codice gentilmente fornito dal publisher.

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Editoriali

Possiamo ancora chiamarli MMORPG?

Oggi voglio parlarvi di un genere al quale sono particolarmente legato, ovvero quello degli MMORPG. Enormi mondi da esplorare ed epiche avventure da vivere, in compagnia di altri migliaia di giocatori come noi. Un sogno che si realizzava davanti ai miei occhi da ragazzino mentre inserivo il CD di Ragnarok Online, allegato ad un numero di Giochi per il Mio Computer.

Questo accadeva nel lontano 2004, proprio durante la release europea del titolo in questione. Ricordo ancora lo stupore provato quando vidi Prontera – la capitale e cuore del regno – per la prima volta. Centinaia e centinaia di altri personaggi si muovevano freneticamente, conversavano, allestivano bancarelle in cui vendere i ricavati del farming quotidiano. Ma non erano i soliti NPC visti e rivisti. Quelle erano persone, proprio come me!

Quella che oggi potrebbe sembrare una banalità era letteralmente magia per me. Una magia destinata a sparire, ed è proprio di questo che oggi voglio parlare.

Il vecchio cede il passo al nuovo

Facciamo subito una premessa, nel genere degli MMORPG esistono vari titoli che hanno segnato la storia, basti pensare a pietre miliari come Ultima Online o Everquest. Tra questi titoli ne spicca uno però: sto parlando di World of Warcraft. Letteralmente l’MMORPG dei record, che dopo la bellezza di 18 anni conta ancora milioni e milioni di utenti giocanti e paganti, impresa riuscita solo e soltanto a quello che è il re di questo genere.

MMORPG World of Warcraft Classic
World of Warcraft Classic

Bene, fatta questa premessa, cosa significa tutto ciò? Semplicemente WoW fu lo spartiacque tra ciò che era “nuovo” e ciò che era “vecchio”. Il difficilissimo mercato dei MMORPG – caratterizzato da costi di sviluppo/gestione enormi e chance di successo abbastanza risicate – era finalmente stato decodificato. Blizzard aveva tracciato la strada per le quasi due decadi a venire. Strada percorsa da un po’ tutti gli studi di sviluppo, forse stanchi di sperimentare questa o quella stramba formula di gioco, chissà.

Una strada monumentale, sia chiaro, e chi ha giocato WoW ai tempi della release sa benissimo di cosa parlo. Esplorare Azeroth per la prima volta fu qualcosa di incredibile, davvero.

Parco a tema

WoW fa parte di quel grande filone di MMORPG definiti “theme park”, letteralmente “parchi a tema”. Gli sviluppatori creano per voi un bel parco a tema (mondo di gioco) da farvi visitare, con tante attrazioni (quest, dungeons, raids e tutto il resto). Insomma, vi danno uno scopo, come affrontare l’ultimo raid rilasciato ad esempio. Voi fate il vostro bel giro lungo un percorso prestabilito, ma quel parco rimarrà sempre tale, statico, nel concreto nessun giocatore apporterà mai alcuna modifica ad esso.

Final Fantasy XIV
Final Fantasy XIV

Sandbox

In contrapposizione esistono i cosiddetti “sandbox”. Titoli dove lo sviluppatore crea sempre un bel mondo di gioco, lo riempie sì di attrazioni, ma lascia ai giocatori la libertà di interpretarlo, di “viverlo”. Ognuno è libero di creare la propria avventura. Esistono anche delle vie di mezzo tra le due tipologie, ma per comodità differenziamoli così.

Come abbiamo detto WoW fa parte dei theme park, ed indovinate quale tipologia di MMORPG spopola dal 2004 ad oggi, e quale invece è quasi del tutto scomparsa? Basti pensare che i maggiori MMORPG attivi sul mercato sono tutti theme park. Mentre i sandbox sono ormai relegati a produzioni di nicchia, indirizzate al solo zoccolo duro del genere.

Ecco, uno degli effetti dei theme park è proprio quello di spingervi su delle rotaie prestabilite, e questo ci porta a quello che secondo me è l’enorme difetto degli MMORPG moderni.

Viaggio nella memoria

Torniamo per un attimo alla mia avventura su Ragnarok Online. Ricordo ancora benissimo il viaggio verso Morroc, la città del deserto, dove il mio personaggio Novizio avrebbe finalmente classato a Ladro. E ricordo i mille giri per capire dove andare, le tante morti lungo la strada. Ma soprattutto ricordo i tanti giocatori, compagni avventurieri, a cui chiedevo indicazioni circa la mia meta, ma anche consigli su cosa equipaggiare, come ripartire i miei punti abilità.

MMORPG Ragnarok Online
Ragnarok Online

Ed ancora ricordo il mercato di Prontera, pieno di centinaia di bancarelle gestite da noi giocatori. La caccia al miglior prezzo per quel determinato oggetto, o magari la possibilità di speculare un po’ comprando a basso prezzo per poi rivendere il tutto più in là.

La ricerca del fabbro di fiducia – anche i potenziamenti alle armi erano unicamente gestiti dai giocatori – che sapevo mi avrebbe fatto un buon prezzo se sarei rimasto suo cliente. Il mondo di Ragnarok, un titolo abbastanza basilare, era vivo, pieno di gente con cui socializzare, con cui magari si era costretti ad interagire. Tutto questo lo rendeva un MMORPG.

Quello era il mio viaggio, formato sì dal mondo che esploravo, i tesori che trovavo ed i nemici che sconfiggevo. Ma anche dai legami creati con altri giocatori, a volte per pura voglia di socializzare, molte altre per semplice necessità. Semplicemente il titolo mi invogliava a condividere la mia avventura con il resto del mondo (virtuale).

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New World, l’ultima speranza per gli MMORPG

MSORPG

Massive Single Player Online Role Playing Game, ovvero quello ad oggi penso sia il termine corretto per definire gli MMORPG. Perché di massive multiplayer ci vedo davvero poco.

Prima ho parlato di Ragnarok, ora vi parlo di Final Fantasy XIV, titolo che ritengo un fantastico rpg singleplayer con elementi multiplayer. Un MSORPG insomma. Ivalice è un mondo fantastico, e non mi sarei aspettato altro dal team di Yoshida. Una grandissima varietà di classi, gameplay solido e divertente, tantissimi contenuti e soprattutto una trama degna dei migliori jrpg in circolazione.

Final Fantasy XIV
Final Fantasy XIV

Eppure durante quei mesi passati ad Ivalice sentivo che mancava qualcosa. Quel mondo era pieno zeppo di giocatori, eppure nessuno ha mai provato a socializzare con me durante le mie decine (direi centinaia) di ore a vagare per quelle terre. Certo, c’erano le gilde, ma non un reale motivo per entrare a farvi parte, almeno non per chi come me era ancora alle prese con la mastodontica main quest.

C’erano i dungeon, attività di gruppo per eccellenza negli mmorpg theme park. Ma nessun bisogno di formare un party, o di recarsi all’entrata del dungeon. Pensava a tutto il duty finder, nome del classico LFG (Looking For a Group). E così mi ritrovavo insieme ad altre tre persone, pronto ad affrontare un dungeon. Tre persone che sarebbero potuti benissimo essere tre npc comandati dal gioco, dato che nessuno proferiva mai parola.

Poi c’era un bellissimo sistema di crafting, con tante professioni di raccolta/creazione, dove ognuna richiedeva i materiali raccolti dall’altra. Ho pensato “magari è così che il gioco ti porta ad interagire con altre persone”. Ed invece no, perché il personaggio può benissimo “skillare” tutte le professioni in autonomia. E se proprio non si ha voglia basta recarsi al mercato.

Final Fantasy XIV
Final Fantasy XIV

Non il mercato di Prontera, quello pieno di bancarelle, con il fabbro di fiducia, dove puoi perdere ore e spulciarle tutte in cerca dell’affare di una vita. Dove contrattare il prezzo con altri giocatori come noi, e strappare un piccolo sconto. Davanti a me si presenta una schermata di ricerca, inserisco quel che voglio et voilà, ecco le risorse da acquistare ed ecco i prezzi. Semplice, efficiente… Freddo, aggiungerei io.

Insomma, tecnicamente FFXIV è un MMORPG, ne mantiene l’ossatura. Ma giocandolo la sensazione che ho avuto è “ok, è un bel jrpg, ma la parte massive dove sarebbe?”. Non proprio il massimo per un MMORPG. E ci tengo a precisare che considero FFXIV come uno dei più social in circolazione.

Cosa ci aspetta?

Qualcuno potrebbe dire che sto indossando i famigerati occhiali della nostalgia, e magari avrebbe pure ragione. Tendiamo sempre a ricordare con affetto i momenti della nostra giovinezza, ed è giusto che sia così. Tuttavia non credo sia questo il caso, o quantomeno penso che la nostalgia non sia il solo fattore da tenere in considerazione.

Io credo che negli anni il mercato videoludico sia cambiato. Che noi videogiocatori siamo profondamente cambiati. Cose come il raggiungere fisicamente l’entrata di un dungeon un tempo erano viste sì come perdite di tempo, ma anche come opportunità di trovare altri giocatori con cui formare party, e perché no, stringere un’amicizia virtuale. Oggi la stessa azione è vista come una scocciatura, perché non è efficiente. Ed allora arriva viaggio rapido, è veloce ed ottimizza i tempi.

Monastero Scarlatto
World of Warcraft Classic: il Monastero Scarlatto

Spulciare i tantissimi negozietti di Prontera richiede del tempo, non è efficiente. Ed ecco a voi un bel mercato centralizzato, con tanto di barra di ricerca, così da non spendere un secondo di troppo. Comodo, sicuramente.

Creare un party per reclutare qualcuno con cui expare o affrontare il prossimo dungeon? O magari scambiarci semplicemente quattro chiacchiere, che non fa mai male. Troppo tedioso, ma per fortuna arriva in nostro aiuto il LFG, così possiamo mantenere le interazioni sociali a zero!

Insomma, avete sicuramente intuito quale sia il mio punto di vista. Ed invece voi che ne pensate? Romantici da tastiera o power players da ottimizzazione selvaggia?

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La Trama di Monkey Island

Se andaste su un’enciclopedia dei videogiochi trovereste, sotto la voce “Guybrush Threepwood”, la seguente dicitura : “Guybrush Threepwood, aspirante pirata. Personaggio dal passato oscuro, indefinito. Di lui si conosce che sa trattenere il respiro per 10 minuti, che ama girovagare nei boschi in cerca di tesori, che sa duellare di spada, di insulti e, a volte, anche di banjo (un cordofono di origine sudafricana).Segni particolari biondo, stato civile celibe (almeno nel momento della sua apparizione sull’isola di Melee).”

Se voleste poi allargare i vostri orizzonti e cercare il binomio “Monkey Island”, scoprireste che la saga di Monkey Island, serie di avventure grafiche edite dalla Lucasarts (per capirci, Indiana Jones e Star Wars in ambito cinematografico), è quanto di più abbia saputo stimolare e solleticare l’immaginario collettivo del popolo videoludico, almeno quello dei primi anni 90, sul tema dei pirati e del mondo ad esso correlato.

A pochi giorni dall’uscita di Return of Monkey Island, vi riportiamo nel mondo di uno dei videogiochi sui pirati più belli di sempre, raccontandovi la trama di Monkey Island, gioco per gioco.

The Secret Of Monkey Island

La storia si sviluppa intorno al personaggio di Guybrush Threepwood, aspirante pirata, che sbarca, da non si sa dove, sull’isola di Melee per diventare un pirata affermato; ben presto si scoprirà che le sue attitudini sono alquanto lontane da quelle necessarie a diventare pirata e che in un modo o nell’altro riuscirà, anche con trovate geniali ed ilari, a risolvere i problemi che gli si porranno davanti. Quali problemi? Uno su tutti, il pirata fantasma LeChuck al quale Guybrush, nel primo episodio (The Secret of Monkey Island), soffierà la ragazza e promessa sposa Elaine Marley; diciamoci la verità, Elaine non è che ardeva dal desiderio di sposare LeChuck!

Per salvare Elaine, rapita dall’ormai disperato fantasma innamorato, Guybrush dovrà fare addirittura rotta per Monkey Island e scendere nei suoi inferi per inseguire il malvagio pirata e la sua ciurma fantasma. Inutile dire come, alla fine del primo episodio, LeChuck verrà sconfitto – o meglio, dissolto – in un turbinio di fuochi d’artificio!

The Secret Of Monkey Island

Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge

Nel secondo episodio, “Monkey Island 2: Lechuck’s revenge”, le cose si fanno più mature: ritroviamo un Guybrush cresciuto, più spavaldo e più espert…ok non esageriamo! L’avventura si dipana su ben tre isole, insomma anche il team di sviluppo, dopo l’azzardo del primo episodio, ha ben in mente cosa vuole dal gioco e si vede! Gli enigmi sono ben strutturati e la storia…anche! La vendetta di LeChuck quindi…un errore (veniale) del nostro Guybrush infatti, farà riportare in vita il corpo putrido e marcio del suo nemico.

Mentre il nostro eroe sarà intento a ricomporre una mappa che lo porterà alla scoperta di un tesoro favoloso, il nefasto zombie opererà dietro le quinte per attuare la sua vendetta. Vendetta che si compirà, alla fine del titolo, intrappolando Guybrush nella “Fiera dei dannati”, con la consapevolezza che LeChuck sia in realtà suo fratello, morto anni prima.

Monkey Island 2: LeChuck's Revenge

The Curse of Monkey Island

Ora, al dettaglio della fratellanza, per altro non trascurabile della saga, non si è più accennato nei successivi capitoli. La scelta sta forse da individuare nel fatto che a partire dal terzo capitolo, il team di produzione è cambiato, improntando il tutto su un’altra linea e facendo sembrare, in pratica, The Curse of Monkey Island, terzo capitolo della serie, un prodotto quasi stand alone. Questo episodio, seppur divergendo dalla storia come l’aveva immaginata il creatore di Monkey Island, Ron Gilbert, lascia un’impronta decisa nel panorama videoludico, poiché è tra i primi titoli ad avere il parlato, una grafica godibilissima e una trama comunque intrisa di ironia, anche se non ai livelli dei primi due capitoli.

Si scade a volte, purtroppo, in cliché già visti nei primi due episodi. La storia racconta di come Guybrush abbia chiesto ad Elaine di sposarlo, e di come, per farlo, abbia utilizzato un anello maledetto (tipico del nostro antieroe) trasformandola in una statua d’oro (poi trafugata da una ciurma di scimmie). Dopo mille peripezie, Guybrush salvare la donna del suo cuore e sconfigge nuovamente un LeChuck, che, per l’occasione, sfoggia un look del tutto nuovo con una barba bella e fiammeggiante.

The Curse of Monkey Island

Escape from Monkey Island

Arriviamo dunque al quarto capitolo, quell’Escape from Monkey Island che ha deluso più di un fan; se il terzo Monkey, per quanto con dei cliché e per quanto non segua la storia pensata da Gilbert, come detto, gode di una grafica godibilissima, di un buon doppiaggio e di una trama accettabile,  l’ultimo capitolo rasenta, a mio modesto parere, il punto più basso della serie.

Per carità, un Monkey Island è sempre un Monkey Island e per questo doveva essere giocato. Ma il motore 3D che molto era piaciuto su Grim Fandango, con Guybrush perde un po’ i colpi, unito ad una gestione discutibile del personaggio da tastiera e non più da mouse. Beh ma è sempre Monkey Island… la trama riuscirà a colmare le lacune… e invece no! Anche la trama fa acqua da tutte le parti, regalandoci una storia che di piratesco ha ben poco, dovendo affrontare, il nostro eroe, stuoli di avvocati e burocrati. Guybrush ed Elaine tornano dal meritato e focoso viaggio di nozze.

Su Melee scoprono che sono stati dichiarati morti e nuove elezioni sono in corso per sostituire il governatore, ruolo che fino a poco prima era ricoperto da Elaine. L’antagonista politico si rivelerà essere Charles L. Charles (LeChuck sotto mentite spoglie) che cercherà di incastrare i due giovani. Ma Guybrush, dopo aver scoperto il famigerato “insulto supremo”, al seguito di un rocambolesco ritorno sull’isola di Monkey Island e dopo un finale, secondo il sottoscritto, poco degno di un capitolo della saga, riuscirà a ristabilire l’ordine naturale delle cose sconfiggendo LeChuck per l’ennesima volta. La saga si conclude qui… o forse no!

Il ritorno di Guybrush…

Segnatevi questa data: 19 settembre 2022. Monkey Island ritorna con un nuovo, imperdibile, attesissimo capitolo: Return to Monkey Island. Il team di sviluppo? Ron Gilbert, ideatore, insieme a Dave Grossman dei primi due episodi e infatti Return to Monkey Island inizierà proprio dove Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge si è concluso. Le domande che attanagliano la trama di Monkey Island sono ancora tante: LeChuck e Guybrush sono davvero fratelli? Verrà mai scoperto il reale segreto di Monkey Island? Sarà mai previsto un altro pollo con la carrucola? Speriamo che a queste ma anche ad altre entusiasmanti domande riusciremo ad avere risposta con l’uscita dell’acclamato seguito. 

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I migliori picchiaduro del 2022

Ah, i picchiaduro! Certamente oggi quello dei beat-them-up non è il genere videoludico più popolare né quello maggiormente al centro dell’attenzione di pubblico e critica. Tuttavia, se con un bel tuffo nel passato ci spostassimo negli ormai lontani anni novanta, troveremmo una situazione ben diversa. In quegli anni, infatti, i picchiaduro, in particolare quelli 1vs1, erano i dominatori incontrastati nel settore, sia per quanto riguarda le console casalinghe sia all’interno delle mai troppo compiante sale giochi. In esse infatti ogni giorno plotoni interi di ragazzi (e non solo) erano pronti a darsi battaglia in sfide all’ultimo sangue ai vari Street Fighter, Mortal Kombat, Fatal Fury e compagnia cantante. Un esempio emblematico di questa situazione era il Neo-Geo, la famosa console SNK, il cui parco titoli era formato praticamente per il 70% da picchiaduro.

Un esempio di sala arcade anni 90, culla del genere dei picchiaduro

Un genere per pochi

Oggi, come già detto poc’anzi, la situazione è molto cambiata. L’enorme diffusione dei giochi mobile e la predilezione dei videogiocatori per altri generi ha relegato i picchiaduro a genere riservato solo agli appassionati. Una delle ragioni di questa situazione è sicuramente da ricercarsi nell’intrinseca difficoltà del genere. Certo, chiunque può prendere in mano un pad e tentare di farsi valere pigiando i tasti alla bell’e meglio. Tuttavia, imparare a giocare in modo corretto ed efficace a un qualsiasi gioco di questo genere richiede tempo, pazienza e allenamento. E non tutti i giocatori sono disposti a sottoporsi a queste condizioni.

Tuttavia proprio la complessità e la profondità di questo genere gli ha permesso di assumere un ruolo di primo piano all’interno del mondo degli esports.

EVO 2022, il più grande torneo di picchiaduro al mondo

Sono numerosissimi infatti i tornei e le manifestazioni, interamente dedicati ai picchiaduro, primo tra tutti il famoso EVO, torneo di livello mondiale che ogni anno ospita i migliori giocatori da tutto il mondo pronti a darsi battaglia coi più famosi picchiaduro sulla piazza.

Ma quali sono oggi i migliori titoli legati al genere Beat them up? È proprio quello che scopriremo all’interno di questo articolo, con una panoramica dei titoli più importanti e famosi del momento. Cercheremo di mostrare cosa caratterizza maggiormente ognuno di questi giochi, in modo da renderci conto di quanto vasto e frastagliato sia il mondo dei giochi di combattimento 1vs1.

Miglior Picchiaduro 3D: Tekken 7

Visto l’ondata di popolarità portata al titolo Bandai Namco dalle recente serie di animazione apparsa su Netflix (Tekken Bloodlines) inizieremo il nostro viaggio proprio dall’ultimo esponente della gloriosa saga di Tekken, ovvero Tekken 7.

Miglior Picchiaduro 3D: Tekken 7
Tekken 7, per molti versi è tuttora il dominatore dei picchiaduro 3D

La Saga dei Mishima

Nata nell’ormai lontano 1994 in sala giochi, la serie di Tekken è senz’altro una delle più famose e iconiche all’interno del panorama dei picchiaduro ed è quasi certamente il picchiaduro in grafica 3D più famoso al mondo.

Punti di forza di questa saga sono da sempre la trama, la forte caratterizzazione dei personaggi e il fortissimo equilibrio del suo gameplay. Tutte caratteristiche che ritroviamo espresse al massimo del loro potenziale in Tekken 7.

Il gioco presenta una solida modalità storia, che permette sia di vivere le vicende principali della trama del gioco sia di approfondire le singole storie dei personaggi. La trama della serie Tekken ruota intorno alle faide interne della terribile famiglia Mishima, dominatrice della Mishima Zaibatsu, la più grande multinazionale del mondo. Un ruolo chiave è anche svolto dal Devil Gene, misterioso gene in grado di donare a chi ne è in possesso tremendi poteri demoniaci. La modalità storia di Tekken 7 narra di un punto di svolta epocale all’interno di queste vicende.

Un party molto affollato

Tekken 7 presenta anche un roster solidissimo, con ben 54 lottatori (contando naturalmente anche i DLC), quasi tutti con uno stile di lotta unico. Per l’occasione, Bandai Namco ha aperto le porte anche ad alcune guest star, come Akuma di Street Fighter o Noctis di Final Fantasy XV. Anche sul versante tecnico, è stato fatto un lavoro davvero egregio, con grafica e animazioni che ancora oggi, a 7 anni dall’uscita, non sfigurano minimamente. Anche il comparto sonoro si presenta assolutamente all’altezza, con una serie di tracce rock e techno molto azzeccate e d’atmosfera. Ma concentriamoci ora sul gameplay, aspetto che più ci interessa.

Akuma di Street Figther è stato aggiunto su Tekken 7

Parola d’ordine: profondità

Come abbiamo già precisato, Tekken 7 è un picchiaduro 3D a tutti gli effetti. Ciò significa che ai lottatori è possibile spostarsi non solo lungo il loro asse orizzontale, ma anche in profondità, sia tramite spostamenti e schivate laterali, sia attraverso una serie di mosse che porteranno automaticamente il lottatore a muoversi attraverso  lo spazio di gioco e attaccare lateralmente, rendendo vani eventuali contrattacchi.

I pulsanti di attacco sono solamente 4, due pugni e due calci, mentre la parata avviene automaticamente premendo indietro. Ogni lottatore dispone di un numero di mosse molto elevato, che dovranno essere memorizzate (almeno in parte) per permettere di ottenere risultati soddisfacenti. Vi è poi una super mossa, attivabile solo quando l’energia rimasta raggiunge un livello molto basso, in grado di ribaltare totalmente l’esito di uno scontro (nonché di generare effetti speciali davvero spettacolari).

Gameplay

La curva di apprendimento del gioco non si presenta eccessivamente ardua e anche un giocatore novizio potrà riuscire a destreggiarsi in maniera efficace. Tuttavia, quando si passa al lato competitivo, le cose cambiano radicalmente. Come spiegato più sopra, i combattenti hanno la possibilità di muoversi in uno spazio tridimensionale. Ebbene, la gestione di questo spazio rappresenta proprio la chiave per comprendere la reale profondità del gioco.

La chiave per giocare a Tekken ad alti livelli è infatti imparare a muoversi correttamente intorno all’avversario, con vari movimenti che lascino sempre al nostro lottatore la possibilità di colpire e allo stesso tempo fungere da “esca”, in modo da mandare a vuoto un attacco avversario e innescare facilmente il proprio contrattacco.  Un altro aspetto fondamentale è il cosiddetto calcolo dei frames, ovvero la durata delle mosse. Comprendere questa meccanica rende il giocatore in grado di diventare padrone degli scambi e in grado di mantenersi costantemente in vantaggio.

Kazuya Mishima

Combo aeree

L’ultimo fondamentale elemento sono le combo aeree, croce e delizia di ogni giocatore di Tekken e che  spesso rappresentano la chiave per la vittoria. In Tekken, infatti, una volta che si viene lanciati in aria, si resta completamente indifesi. Questo, naturalmente, permette all’avversario di inanellare una serie di mosse una dietro l’altra che talvolta riescono persino a prosciugare la barra della vita senza che il malcapitato che le subisce abbia alcuna opzione di difesa (sebbene in Tekken 7 sia stata inserita una meccanica che va a diminuire costantemente la percentuale di danno subita da queste situazioni). È chiaro quindi come, per un giocatore esperto, risulti fondamentale imparare a memoria queste combo e le situazioni in cui iniziare a inserirle.

Questo è, in sostanza, il gameplay di Tekken 7, un gioco fondato su tempismo, controllo e abilità nelle combo. Tutti questi elementi, combinati insieme, danno spesso vita a scontri assolutamente spettacolari. Una nota di merito va agli effetti di rallenty che vanno a enfatizzare i momenti dello scontro in cui due lottatori attaccano quasi in contemporanea, rendendo incerto fino all’ultimo millisecondo chi sarà a colpire per primo.

Picchiaduro 3D: menzione d’onore

Altri picchiaduro 3D in qualche modo simili a Tekken sono per esempio la serie Soul Calibur, arrivata al sesto episodio. Vi è poi, Dead Or Alive di Tecmo. Per chi invece cercasse un titolo in 3D ancora più profondo e complesso, la scelta non può che cadere sulla saga Virtua Fighter di SEGA.

Miglior Picchiaduro in “finto” 3D: Mortal Kombat 11

E veniamo ora a parlare di Mortal Kombat, serie che, nonostante affondi le sue origini nell’ormai lontano 1992, svolge tuttora un ruolo di primo piano nel panorama videoludico. Dimostrazione di ciò è anche la pellicola del 2021 dedicata al franchise (sebbene la qualità di quest’ultima sia più che discutibile).

Miglior Picchiaduro in “finto” 3D: Mortal Kombat 11
La saga di Mortal Kombat è certamente una delle più iconiche della storia dei videogiochi

Violenza e ninja

Giunta ormai addirittura alla sua undicesima incarnazione (Mk11 è uscito nel 2019, ricevendo tutta una serie di aggiunte e aggiornamenti in questi anni, fino alla versione Ultimate) la saga di Mortal Kombat è riuscita fin da subito a conquistare i cuori dei videogiocatori grazie alla sua grafica fotorealistica  e a quello che è da sempre il suo tratto più caratteristico: l’enorme dose di violenza.

In ogni titolo della serie, infatti, i combattimenti sono letteralmente infarciti di violenza e spruzzi di sangue. Alla fine dello scontro, sarà anche possibile infliggere il colpo di grazia al proprio avversario tramite le famose fatality. Esse talvolta raggiungono un tale livello di brutalità e sadismo da non sfigurare persino in un film dell’orrore.

Il torneo del destino

Come per Tekken, anche in Mortal Kombat il fattore trama ha sempre avuto un ruolo molto importante all’interno della saga. Il primo Mortal Kombat fu il primo picchiaduro in cui i vari background dei personaggi venivano mostrati durante la demo dell’arcade.

L’episodio reboot della serie, pubblicato nel 2011 semplicemente col titolo Mortal Kombat, fu il primo picchiaduro a presentare una vera e propria modalità storia cinematografica. In essa il giocatore avrebbe vestito i panni di tutti i vari lottatori a seconda delle esigenze della trama.

La storia di Mortal Kombat ruota intorno all’eterna lotta tra il bene e il male, qui incarnata in un grande torneo, chiamato proprio Mortal Kombat. In esso le forze della Terra e quelle del Regno Esterno si sfidano ciclicamente per la sopravvivenza e il predominio. In questa vicenda si intrecciano le storie dei vari protagonisti, alcuni talmente famosi da essere divenuti vere e proprie icone pop, come i due ninja Scorpion e Sub-Zero.

Piatto ricco mi ci ficco

Ma passiamo ora in modo più specifico a Mortal Kombat 11. Se c’è una parola che più di ogni altra riesce a descrivere questo titolo essa è senz’altro “completezza”.

Mortal Kombat 11 infatti presenta un’offerta in grado di soddisfare qualsiasi tipo di giocatore, con un numero enorme di modalità.

Oltre alle ormai rodate storia e arcade, spicca la modalità Torri, che permette al giocatore di mettersi alla prova contro una serie di avversari assortiti in modo sempre diverso. In questi scontri avremo una nutrita serie di bonus, malus e condizioni particolari (oscurità, ribaltamento dei comandi, interferenze di personaggi esterni ecc.). Molte di queste torri si aggiornano costantemente, in modo che i giocatori possano sempre trovare una sfida nuova e fresca con cui confrontarsi.

The Joker su Mortal Kombat 11

L’online si presenta ricchissimo di modalità differenti, con sfide causal e lotte competitive con tanto di ranking. Ritorna anche la modalità re della collina (in cui ogni sfidante continua a lottare finchè non viene battuto e chi lo sconfigge prende il suo posto).

La modalità training è forse la più ricca e completa mai vista in un picchiaduro. Essa permette di conoscere e approfondire sia la conoscenza base dei personaggi, sia l’apprendimento di meccaniche avanzate utili per i match competitivi.

Per i collezionisti, infine, la modalità kripta offre tonnellate di skin, bozzetti e oggetti bonus.

Anche il roster dei personaggi è davvero impressionante e presenta anche tutta una serie di star del mondo cinematografico, come Joker, Rambo, Robocop e Terminator.

La potenza è nulla senza controllo

E arriviamo finalmente al gameplay, l’aspetto che maggiormente ci interessa. Ho definito Mortal Kombat un gioco in finto 3d dal momento che, pur presentandosi con una veste grafica di ultimissima generazione, i lottatori possono muoversi unicamente lungo l’asse orizzontale, come nei tradizionali picchiaduro 2D.

Questa scelta porta da una parte a ricreare molte delle meccaniche e delle sensazioni dei classici capitoli 2D della saga; dall’altra sposta l’attenzione dal controllo dello spazio al controllo del personaggio stesso.

Anche in MK, come in Tekken, il numero di comandi è estremamente semplice. Avremo due tipi di pugni, due calci più la parata, le prese e alcune interazioni con l’ambiente. Ogni personaggio avrà poi il suo set di mosse speciali e combo base, che potranno essere apprese e padroneggiate nella modalità allenamento.

Imparare le regole base del gioco risulterà piuttosto semplice, anche grazie all’eccellente fluidità dei movimenti e al ritmo incalzante dei combattimenti. Ma, ancora una volta, riuscire a giocare in modo realmente competitivo richiederà molte ore di studio, esercizio e osservazione.

L’evoluzione delle Fatality su Mortal Kombat 11

Una sanguinosa partita a scacchi

Come accennato, infatti, la chiave del successo in Mortal Kombat risulterà nell’avere il maggior controllo possibile sul proprio personaggio. Ciò vale sia in fase di attacco sia, soprattutto, quando ci troveremo in difesa.

Anche in questo caso, infatti, ogni singolo movimento del nostro personaggio è caratterizzato da una particolare durata (i famosi frames). Risulterà fondamentale conoscere perfettamente sia il proprio set completo di mosse sia quello di ogni singolo personaggio, in modo da sapere quali siano le potenziali risposte vincenti a ogni singola situazione.

Occorrerà inoltre imparare a non abusare dei salti, i quali, sebbene molto comodi per avvicinarsi rapidamente al nemico, lasciano spesso completamente scoperti e vulnerabili.

Gli sviluppatori hanno inoltre fatto la scelta di ridurre, in generale, l’ammontare di danni causato dagli attacchi e soprattutto dalle combo. In questo modo si evitano situazioni in cui un giocatore debba pagare un singolo errore con la perdita dell’intero round. Questa scelta rende il gameplay ancor più tattico e ragionato e trasforma le sfide in vere e proprie partite a scacchi in cui la vittoria arriderà a chi saprà maggiormente controllare l’andamento dello scontro e le varie dinamiche che si creeranno in esso.

Picchiaduro in finto 3D menzione d’onore

Per chi cercasse altri giochi con caratteristiche simile ad MK11 non si può non consigliare la serie Injustice. Essa propone un gameplay molto simile a Mortal Kombat inserito in una versione distopica dell’universo DC.

Miglior Picchiaduro 2.5D: Street Fighter V

Ed eccoci arrivati al re dei picchiaduro! Nessuno più di Street Fighter, infatti, può fregiarsi con maggior merito di questo titolo.

Fu proprio l’avvento di Street Fighter 2 nelle sale giochi, nell’ormai lontano  1991, a generare quell’onda di interesse e passione che rese il genere dei picchiaduro il più giocato e apprezzato sulla piazza.

Ogni cosa all’interno di Street Fighter è ormai divenuta iconica. I suoi leggendari personaggi (nomi come Ryu, Ken, Chun-Li o Guile sono conosciuti a praticamente chiunque abbia mai preso in mano un pad), i suoi notissimi brani musicali e, naturalmente, i nomi delle tecniche dei protagonisti, ormai entrate di diritto nel mito (Hadouken!).

La saga di street fighter è stata a lungo sinonimo di picchiaduro

L’ultimo erede della dinastia

L’eredità di Street Fighter viene ancora oggi portata avanti degnamente da Capcom con l’ultimo capitolo uscito, Street Figher V. Per questo gioco Capcom ha adottato una strategia simile a quella utilizzata a suo tempo con Street Fighter 2. Sono state infatti rilasciate nel tempo tutta una serie di versioni rivedute e corrette del titolo. Esse sono uscite principalmente tramite aggiornamenti, ma anche con release vere e proprie delle versioni “potenziate”.

L’ultima di queste versioni è stata Street Fighter V Champion Edition. Questo gioco che ha proposto un roster di personaggi davvero nutrito (ben 40 lottatori) comprendente tutti i vari DLC rilasciati nel tempo. Inoltre ha unito tutte le modalità già viste in SFV e in SFV Arcade Edition (le principali sono Storia, Arcade, Sopravvivenza e naturalmente Online).

In modo simile a Mortal Kombat, Street Fighter presenta una formula in “finto 3D”, con sfondi e personaggi realizzati in 3D che però potranno spostarsi solamente lungo l’asse orizzontale. A differenza del titolo di NetherRealm, però, Street Fighter V sfoggia una grafica dai toni molto più colorati e cartooneschi, che meglio si adattano alle atmosfere e ai protagonisti del titolo Capcom.

Rispetto ai titoli presi in esame finora, la trama in SFV ha un ruolo decisamente secondario, sebbene i personaggi risultino tutti estremamente interessanti. Il tutto si riduce ai malvagi piani dell’organizzazione Shadaloo, guidata dal perfido M. Bison, per la conquista del mondo e alle azioni dei protagonisti per fermarla.

Ken, storico personaggio di Street Fighter

Solo per veri campioni

Il cuore di Street Fighter V infatti sta nello scontro vero e proprio e, in particolare, nello scontro pvp. A differenza di Tekken o Mortal Kombat, infatti, Street Fighter è un gioco quasi unicamente rivolto ai giocatori esperti. Senza se e senza ma.

Ogni lottatore ha a disposizione tre attacchi con i pugni (debole, medio e forte) e altrettanti con i calci. A questi si andranno ad aggiungere le varie mosse speciali di ogni personaggio (circa quattro o cinque). Ci saranno poi le V-skills, attacchi o abilità uniche a cui il personaggio potrà ricorrere tramite la pressione contemporanea del pugno e del calcio medio.

Fa il suo ritorno anche la barra ex, indicatore che va riempiendosi via via che lo scontro prosegue a seconda dei colpi messi a segno. Questa barra sarà divisa in tre tacche. Ognuna di esse, una volta riempita, consentirà di eseguire una versione “potenziata” di ognuna delle nostre mosse speciali. Quando la barra sarà totalmente piena il giocatore potrà ricorrere alla critical art, supermossa dalla potenza devastante.

Street Fighter V propone inoltre una seconda barra, denominata V. A essa sarà legato il V-trigger, una particolare abilità a cui il giocatore potrà ricorrere solo dopo aver incassato una certa quantità di colpi.

Senza margine di errore

Per poter avere anche solo la minima possibilità di progredire in SFV, il giocatore dovrà conoscere ognuno di questi attacchi alla perfezione. Il sistema di controllo di Street Fighter è di una precisione millimetrica ed è pronto a punire ogni singolo errore in maniera anche spietata.

Inoltre Street Fighter V, salvo rari casi, non propone vere e proprie combo standard da imparare. Infatti ogni singolo attacco può essere concatenato all’altro. Starà quindi al giocatore comprendere le combinazioni più efficaci con la pratica e l’osservazione dei suoi avversari.

Tutti i concetti che abbiamo affrontato in precedenza, (framing degli attacchi, gestione dello spazio e controllo del personaggio) ora vengono portati agli estremi. Il giocatore dovrà imparare a essere costantemente in guardia, sia che si trovi in una posizione di stallo (neutral), in attacco o sulla difensiva.

Frame e data frame sono fondamentali nei picchiaduro

Un picchiaduro da competizione

Quindi è chiaro che, per raggiungere risultati positivi, occorreranno ore di gioco e numerosissimi incontri di pratica. Tuttavia, la soddisfazione che si prova al raggiungimento dei primi risultati è davvero incredibile, molto simile alla conquista dei primi successi nelle attività sportive.

Non a caso, Street Fighter V è ancora oggi il dominatore indiscusso dei vari circuiti legati al mondo degli esport. Questo grazie soprattutto ai numerosi Capcom Pro tours, eventi competitivi organizzati da Capcom stessa e al ruolo di main eventer assoluto che Street Fighter V ha rivestito negli ultimi anni all’interno dell’EVO.

Picchiaduro in 2.5D: menzione d’onore

Se volessimo trovare altri titoli con caratteristiche simili a Street Fighter V potremmo citare il nuovo Samurai Shodown e il recente The King of Fighters XV, che abbiamo recensito.

Miglior picchiaduro a squadre: Dragon Ball Fighterz

Alzi la mano chi, tra coloro che leggono, non ha mai visto Dragon Ball o addirittura non ha mai sentito parlare di questa serie. Il capolavoro di Akira Toriyama, nato sulle pagine di Shonen Jump nel 1984, è indiscutibilmente il manga/anime più famoso e seguito al mondo.

Si può ben dire che le avventure di Goku e dei suoi amici alla ricerca delle sfere del drago, tra situazioni demenziali, avventure ai confini dell’universo e combattimenti all’ultimo sangue, abbiano ormai guadagnato un posto importante nell’immaginario collettivo della nostra società.

Ancor più dall’inizio della serie Super, che, a partire dal 2016, ha ripreso e portato avanti la trama del manga, ferma ormai dalla metà degli anni ’90, rendendo il brand di Dragon Ball ancora più “vivo” e attuale.

Miglior picchiaduro a squadre: Dragon Ball Fighterz
Dopo anni di sofferenza ecco il picchiaduro di riferimento per i fan di Dragon Ball

Una tradizione di cui non andare fieri

Naturalmente, nel corso di tutta la sua storia, la saga di Dragon Ball ha visto il proliferare di un numero davvero incalcolabile di videogiochi a essa dedicati.

Fin dai tempi del NES, a quelli della PS4, sono davvero molti i titoli usciti dedicati a Dragon Ball, con una prevalenza per gli rpg e, naturalmente, per i picchiaduro.

La maggior parte di questi titoli, sfortunatamente, erano assolutamente mediocri e dimenticabili, spesso ben al di sotto delle aspettative dei fan (mi limito qui a ricordare l’osceno Dragon Ball Final Bout per la prima playstation, uno dei picchiaduro 3D peggiori di sempre).

Le cose cominciarono a migliorare con serie come Budokai, Budokai Tenkaichi e i più recenti Xenoverse, che, pur senza risultare capolavori, seppero alzare in modo importante la qualità dei titoli legati al mondo di Dragon Ball.

Giungiamo così al 2018, anno in cui Arc System Works, casa produttrice già famosa per la serie Guilty Gear, realizza Dragon Ball Fighterz, titolo poi edito da Bandai Namco.

Combattiamo!

Il gioco si presenta come un picchiaduro 2D a squadre, nel quale ogni giocatore dovrà selezionare un gruppo di tre combattenti per fronteggiare altrettanti guerrieri nemici, finché tutti i lottatori di una delle due squadre non saranno annientati.

Il titolo non presenta particolari artifici di trama o elaborati collegamenti con l’anime a cui si ispira. Certo, esiste una modalità storia ma sembra quasi un riempitivo, giusto per spiegare in qualche modo la presenza di personaggi che nella continuity della saga dovrebbero essere defunti.

Anche per quanto riguarda il numero di modalità, il gioco non propone nulla di particolarmente innovativo, oltre agli ormai noti arcade, allenamento, modalità online e storia (sebbene uno dei successivi aggiornamenti abbia introdotto anche la modalità camp, composta da una serie di sfide più varie e particolari).

Basterà tuttavia impugnare il joypad e iniziare ad addentrarsi negli scontri per rendersi conto di come il cuore di FighterZ sia nel suo eccezionale gameplay e nell’incredibile spettacolarità dei suoi combattimenti.

Gli assist in Dragon Ball FighterZ

Anime Interattivo

Per quel che riguarda la grafica, il lavoro compiuto da Arc Syetm è semplicemente magistrale. I modelli dei protagonisti sono identici a quelli della serie originale e sono animati con una fluidità e un’eleganza dei movimenti degna delle più recenti produzioni cinematografiche (addirittura, ogni singolo movimento di ogni lottatore è stato ricalcato da tavole originali del maga o da schizzi dell’anime!).

Per quanto concerne il gameplay, invece, esso si presenta subito come piuttosto complesso. Le sfide avverranno 1vs1, con gli altri due personaggi che faranno da supporto e potranno essere chiamati all’azione in ogni momento per sostituire il personaggio attivo o semplicemente per eseguire un attacco di supporto.

Affinare le proprie armi

I personaggi potranno muoversi solo lungo l’asse orizzontale e avranno la possibilità di eseguire due tipi diversi di salto (più lungo o più corto) e anche un doppio salto a mezz’aria. Il giocatore avrà poi a disposizione tre tipologie di attacco (rapido medio e potente), la possibilità di sparare un proiettile di aura e di eseguire una presa, qui chiamata dragon rush, in grado di generare automaticamente una combo.

Ogni combattente avrà anche a disposizione uno scatto (sia a terra che in aria) e persino un super scatto, che ci proietterà automaticamente contro il nemico, innescando possibili combo. Nelle prime fasi di gioco sarà molto semplice abusare di questa tecnica, ma ci renderemo presto conto di quanto essa vada invece usata con attenzione, dal momento che lascia totalmente scoperti a possibili contrattacchi.

Ogni personaggio avrà poi naturalmente a disposizione le proprie mosse speciali e due attacchi dell’aura (denominati attacco speciale e attacco finale), eseguibili tramite l’apposita barra (che può essere caricata automaticamente premendo due tasti insieme) che andranno a consumare rispettivamente uno e tre indicatori del suddetto indicatore. Questi attacchi sono naturalmente molto spettacolari e distruttivi e propongono animazioni di fattura davvero pregevole, andando a ricalcare tutte le mosse segrete più devastanti sfoggiate dai personaggi nel corso dell’anime. La barra dell’aura può arrivare fino a sette indicatori e sarà addirittura possibile eseguire in serie i colpi dell’aura di tutti e tre i nostri lottatori, con risultati a dir poco apocalittici (anche per i fondali!).

Dragon Ball FighterZ è probabilmente il miglior gioco di sempre dedicato all’anime

Il signore delle combo

Rispetto ai picchiaduro affrontati finora, con FighterZ la parola d’ordine è una soltanto: combo!

Il sistema di gioco creato da Arc System infatti si basa fondamentalmente nel riuscire a creare un’apertura nelle difese nemiche per poi andare a inanellare il maggior numero di colpi possibile (si può facilmente superare il centinaio di colpi consecutivi!) per riuscire a decimare i personaggi nemici con una singola offensiva.

Naturalmente, un simile stile di gioco richiede molta pazienza e applicazione. Oltre a dover imparare A MENADITO le combo più potenti dei nostri combattenti (il tutorial in questo purtroppo è abbastanza carente) ed essere in grado di eseguirle sempre alla perfezione, senza errori (il gioco propone anche un sistema di autocombo per venire incontro ai novizi, ma ci si renderà presto conto di quanto esse risultino poco efficaci in una sfida contro un giocatore esperto), sarà altrettanto importante imparare a gestire le primissime fasi del combattimento (il cosiddetto neutral) per evitare passi falsi e mosse avventate e riuscire a cogliere il momento esatto per dare il via alla nostra offensiva e mettere a segno devastanti combinazioni di colpi, super, attacchi di supporto e tutto quanto ci sarà nel nostro arsenale.

Certo, uno stile incentrato in modo così ossessivo sulle combo potrà sembrare poco divertente, ma assicuriamo che si sposa perfettamente sia con l’atmosfera del gioco che coi ritmi indiavolati delle battaglie.

Lavoro di Squadra

Infine, ricordiamo come anche la scelta delle squadre necessiti di molta strategia. I personaggi infatti non andranno scelti solo in base alla nostra capacità di destreggiarci con essi, ma anche in base al ruolo che intendiamo affidare loro.

Il personaggio iniziale sarà colui che avrà il compito di iniziare a mettere a segno le prime combo e, soprattutto, di accumulare gli indicatori d’aura. Il personaggio mezzano disporrà di solito di un attacco di supporto molto forte o comunque insidioso e dovrà essere pronto a sostituire il primo in ogni momento della battaglia. L’ultimo, infine, dovrà capitalizzare il lavoro della squadra, sfruttando gli indicatori messi da parte per scatenare tremendi attacchi in grado di andare a eliminare i membri della squadra avversaria.

Dunque è chiaro come FighterZ rappresenti un incredibile mix tra la frenesia e la velocità delle sue battaglie e la strategia e la tattica per quanto riguarderà la scelta della squadra e la pratica con essa.

Picchiaduro a squadre menzione d’onore

Titoli che richiamano in qualche modo FighterZ sono la serie Guilty Gear di Arc System e la saga crossover Marvel vs Capcom, il cui ultimo episodio, Infinite, ha dato però una sterzata in favore dei giocatori più casual.

La nuova frontiera dei picchiaduro: Super smash Bros Ultimate

E concludiamo il nostro viaggio con quello che è diventato, a tutti gli effetti, il nuovo dominatore del mercato dei picchiaduro. Con quasi 30 milioni di copie vendute, infatti, Super Smash Bros Ultimate è a tutti gli effetti il picchiaduro più venduto di sempre, dopo essere riuscito nell’impresa di superare persino le vendite di un mostro sacro come Street Fighter 2.

Ultimate rappresenta il quarto capitolo dell’ormai leggendaria saga super smash bros, nata nel 1999 su Nintendo 64 ed è apparso su nintendo Switch nel dicembre del 2018.

Benvenuti al party Nintendo delle mazzate!

Botte per tutti i gusti

Se per descrivere Mortal Kombat 11 ero ricorso al termine completezza, per Ultimate il termine più consono sarebbe abbondanza. In questo gioco infatti si ha enorme abbondanza di ogni cosa: a partire dai personaggi giocabili (arrivati, grazie ai DLC, all’incredibile cifra di 89), proseguendo per il numero degli stage (espandibile quasi all’infinito grazie all’editor), delle modalità (c’è davvero di tutto: classica, sopravvivenza, avventura, gara di home run, sfide personalizzabili…) e dei bonus e sfide sbloccabili.

Sembra davvero di trovarsi non di fronte a una torta, ma di un’intera pasticceria, al punto che riesce quasi difficile orientarsi all’interno delle possibilità offerte.

Un picchiaduro insolito

Per quanto riguarda il gameplay, il gioco ripropone quasi inalterata la formula vincente dei suoi predecessori.

A differenza dei picchiaduro tradizionali, in Smash Bros l’obiettivo non sarà quello di mandare a zero la barra dell’energia dell’avversario (anche se è possibile giocare anche in questa modalità), bensì riuscire a scagliare il proprio avversario fuori dallo schermo. Per fare ciò però sarà molto importante riuscire a danneggiarlo a sufficienza coi nostri attacchi, finché la percentuale di danno subita dal suo personaggio non sarà sufficientemente alta da permetterne l’eliminazione.

I comandi del gioco sono in apparenza molto semplici: un pulsante per l’attacco, uno per le mosse speciali, uno per il salto, uno per la parata e uno per la presa.

Da questa premessa, il gioco crea un numero incredibile di varianti, con sfide da un minimo di 2 fino a 8 combattenti, incontri a coppie, incontri di sopravvivenza contro stormi di avversari, sfide contro nemici giganti e chi più ne ha più ne metta.

La varietà è tale che, anche in single player, il gioco risulta sempre estremamente fresco e divertente.

Un originale party game

Come ogni picchiaduro che si rispetti, però, Ultimate mostra il meglio di sé nelle sfide multigiocatore.

In questo particolare caso, tuttavia, occorre fare una distinzione. Come accennato in precedenza, smash permette di competere a un massimo di otto contendenti.

Inoltre il gioco presenta stage estremamente complessi e diversificati tra loro, con piattaforme, ostacoli, fasi a scorrimento, rotazioni improvvise dell’asse di gioco e moltissime altre stranezze. Come se non bastasse, durante la sfida appariranno casualmente nello stage una serie di armi e potenziamenti, spesso in grado di capovolgere l’andamento dello scontro.

Ciò vale soprattutto per le capsule degli alleati e la famosa sfera smash, che se spezzata permetterà di ricorrere ai famosi attacchi smash, devastanti tecniche in grado di regalare facilmente una o più eliminazioni.

Super Smash Bros. Ultimate è anche un party game

Con l’anima di un vero picchiaduro

È chiaro come tutti questi fattori aumentino di molto la randomicità delle battaglie, con una serie di dinamiche che male si sposano con la natura competitiva di un picchiaduro, ricordando più da vicino i party games.

Ecco allora la distinzione di cui parlavo: mentre i giocatori casual potranno sfidarsi e divertirsi ricorrendo a tutte queste particolari dinamiche e ai numerosi azzardi che il gioco propone, i giocatori hardcore di smash ricorreranno a un set di regole ben definito, che è poi quello presente nei tornei ufficiali (e di cui abbiamo parlato approfonditamente in questo articolo sul competitivo di Super Smah Bros. Ultimate)

Le sfide saranno rigorosamente 1vs1 (o 2vs2 nel caso di gioco a squadre) a vite (di solito 3) in stage di dimensioni ridotte e assolutamente privi di qualunque tipo di ostacolo o azzardo, e senza alcun tipo di arma o bonus, eccezion fatta, a volte, per la sfera smash.

Giocato in questa maniera, Smash sembra un titolo totalmente diverso e rivela tutta la sua complessità e profondità.

La chiave per il successo

Ogni personaggio, infatti, è dotato di un set di mosse e attacchi speciali estremamente vasto, dal momento che entrambi i pulsanti di attacco andranno a combinarsi con la levetta direzionale per generare un numero elevatissimo di tecniche diverse.

Inutile sottolineare che, per riuscire a giocare in modo efficace, il giocatore sarà chiamato ad avere una conoscenza e un controllo praticamente totali del suo personaggio e delle sue caratteristiche. Con un roster sconfinato come quello di Ultimate, sarà davvero arduo memorizzare le caratteristiche e i movimenti di ogni lottatore e raggiungere un buon livello richiederà davvero moltissima pratica e dedizione.

Scalata verso il successo

Il primo passo sarà imparare in modo perfetto i movimenti, in particolare i salti, onde evitare errori grossolani ed eliminazioni banali.

Occorrerà poi individuare la tipologia di personaggio più adatta al nostro stile di gioco (personaggi bilanciati, veloci, massicci, specializzati negli attacchi a distanza, ecc.).

Inoltre, bisogna scegliere quello che tra tutti si adatta maggiormente alle nostre caratteristiche e studiarne ogni attacco e movimento fin nei minimi dettagli.

L’ultimo passo, il più complesso, sarà imparare a conoscere anche tutti gli altri personaggi di Smash, in modo da comprenderne punti di forza e debolezze e avere un gameplan con cui affrontare ognuno di loro.

Ancora una volta, è chiaro che tutti questi passi richiederanno moltissimo tempo e molta, molta pratica, ma in fondo è proprio questo il bello dei picchiaduro: impegnarsi e fare costantemente pratica per riuscire a migliorarsi e diventare sempre più performanti, senza scorciatoie, trucchi o potenziamenti, ma solo con le nostre abilità e la nostra voglia di vincere.

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Editoriali

I 4 migliori videogiochi sui pirati di sempre

Nell’immaginario collettivo quella dei pirati è la categoria che, probabilmente, più suscita emozioni. Si pensi al coraggio, all’efferatezza, ai tradimenti, alle imprese eroiche… se poi ci mescoliamo anche la magia vodoo, antiche tradizioni e tesori meravigliosi, il cocktail è perfetto. I pirati sono i cattivi ai quali tutto è concesso ed è per questo che sono, forse, tra i personaggi più amati.

Innumerevoli sono le trasposizioni cinematografiche del mondo piratesco: alla famosissima saga di Capitan Jack Sparrow e dei suoi Pirati dei Caraibi, che tutti conosciamo ed amiamo, mi piace affiancare Master and Commander, film del 2003 diretto da Peter Weir con protagonista Russell Crowe, che narra le vicende del Capitano Jack Aubrey alle prese con l’inseguimento di una nave corsara. Il film, lontano dalla trama ai confini con la realtà di Sparrow, riporta tutto su un piano più realistico, sulla vita dei marinai di fine XVII secolo, su tattiche di guerra navale e sul coraggio dei suoi protagonisti. E il mondo videoludico? Di certo non poteva restare a guardare!

Videogiochi corsari

La storia dei videogiochi è stata spesso costellata da titoli, di diversi generi, che hanno trattato i pirati. Il più grande di tutti? Monkey Island e i suoi ben quattro episodi – la cui trama è stata snocciolata in questo articolo – che ci guidano lungo la storia di un giovane pirata, inesperto, alla ricerca della sua avventura della vita. Il genere è quello di avventura grafica. Altri titoli che non possono mancare nella collezione di un appassionato che si rispetti è Sid Meier’s Pirates!, un adventure/gestionale e il più recente Sea of Thieves, un titolo in prima persona, che porta il giocatore in giro per i sette mari, alla ricerca di tesori, maledizioni pirata e leggende.

La Saga di Monkey Island

La più famosa serie di videogiochi sui pirati, nonché, la mia preferita, narra le gesta dell’aspirante pirata Guybrush Threepwood. Parliamo di Monkey Island, avventura grafica targata Lucasarts, soprattutto riferendosi ai primi due titoli: The Secret of Monkey Island e Monkey Island 2: Le Chuck’s Revenge. Nati entrambi dall’estro di Ron Gilbert, Tim Schafer e Dave Grossman.

I successivi due capitoli della serie, invece anche se prodotti sempre dalla Lucas hanno genitori diversi: The Curse of Monkey Island, che riprende idealmente le fila dalla fine del secondo capitolo e The Escape from Monkey Island, titolo che, ahimè, nonostante una buona storia di fondo, snatura un po’ il concetto di avventura grafica classica implementando un 3D che spesso storce il naso alla fluidità del gameplay creando problemi nella gestione della visuale.

Differenze tra gli episodi

C’è da chiarire un punto: i primi due capitoli, datati 1990 e 1992 sono frutto di quella mente geniale di Ron Gilbert e del suo team. e si vede. Le storie trasudano comicità ed ironia in ogni momento, spronando il giocatore ad andare avanti anche solo per il gusto di sapere quale altra battuta ironica o pungente lo aspetta.

I successivi due capitoli, per quanto la Lucasarts abbia tentato di renderli appetibili come i predecessori, risultano sì godibili, ma non hanno la stessa verve dei titoli di Gilbert: Nello specifico, il terzo capitolo, The Curse of Monkey Island, abbandona la “pixel art” dei primi due, prediligendo una grafica “cartoonata” gradevole, implementando contestualmente effetti vocali nella serie. Ebbene sì, conosceremo la voce del nostro amato Guybrush! Il sistema vocale è oggi la normalità per un videogioco, ma nel 1997, anno di uscita di The Curse of Monkey Island, la feature non era così scontata.

La storia del nostro Guybrush

Uno dei migliori videogiochi sui pirati di sempre: Monkey Island 2: Le Chuck’s Revenge

La trama è la classica storia di ogni bucaniere che si rispetti: Guybrush Threepwood, aspirante pirata, sbarca sull’isola di Melee per cercare fortuna, troverà invece l’amore della sua vita, Elaine Marley, governatore di Melee e ossessione della nemesi di Guybrush, il pirata fantasma Le Chuck che farà di tutto per sposare la donna. Guybrush però, tra battaglie di fini battute sarcastiche (avete presente il detto la lingua taglia più della spada? Ecco!), magie vodoo, teste di scimmia giganti, cannibali vegetariani e naufraghi strampalati, riuscirà nell’intento di rovinargli decisamente la festa distruggendo, alla fine del primo episodio, la sua essenza spirituale.

Nel secondo capitolo le cose si fanno decisamente più complicate: in Le Chuck’s Revenge il nostro eroe dovrà trovare il meraviglioso tesoro di Big Whoop, approdando su ben tre isole diverse, mentre il cadavere marcio, putrefatto e maleodorante di Le Chuck, riportato in vita dalla magia Vodoo, gli darà la caccia.

Per i puristi della saga la storia si ferma qui, i secondi due episodi (a cui volendo, potremmo aggiungere il quinto, prodotto da Telltale Games sotto licenza) non sono frutto della mente di Gilbert e quindi non degni di nota.

Return to Monkey Island : il suo segreto verrà finalmente rivelato?

Con queste premesse appare chiaro come l’hype, l’attesa per il tanto agognato sequel, firmato Ron Gilbert, di Monkey Island sia ormai a livelli altissimi. Per chi si fosse perso la notizia (ma dove vivete?!), il primo aprile scorso, in linea con un mega fantascientifico “pesce di aprile”, viene annunciato Return to Monkey Island. La comunità è in fibrillazione, ci si chiede se sia vero, ma fortunatamente man mano che il tempo passa le notizie diventano più certe, cominciano a girare i primi screenshots e addirittura l’anno di rilascio, 2022! Il gioco sarà disponibile inizialmente per PC e Switch, poi probabilmente anche per le altre piattaforme.

Il rilascio del titolo non ha solo un valore tecnico, non è solo un’altra avventura grafica che potrà essere bella per alcuni e brutta per altri. Return to Monkey Island sarà un tuffo nel passato per tutti coloro che hanno superato gli “anta”, per coloro che hanno trascorso la loro giovinezza dietro a dei pixel che lasciavano immaginare grandi imprese, duelli di spade e donzelle da salvare e poco importa se la grafica non è in linea con gli standard di oggi, cosa che ha deluso più d’uno.

Non importa se entrerà nella lista dei migliori videogiochi sui pirati o se la trama non soddisferà tutti. L’uscita di un nuovo Monkey Island è sempre un evento che lascia speranze di emozioni nuove, ma anche di emozioni che possano rinverdire i fasti di quelle passate; un titolo, quello di Gilbert, che è un’opera d’arte, senza tempo, a pieno titolo nel gotha della storia di videogiochi. Non ci resta che attendere il 19 settembre, data realistica del rilascio (a meno di clamorosi rinvii) davanti ad un rinfrescante boccale di grog!

Sea of Thieves

Uno dei migliori videogiochi sui pirati di sempre: Sea of Thieves

Sea of Thieves è un open world in cui si vivrà un’esperienza piratesca totale, dai combattimenti alla navigazione, dalla pesca alla caccia, con un’infinità di obiettivi secondari da sbloccare, scheletri da sconfiggere, tesori da trovare. Salpa con la tua ciurma: Sea of Thieves è uno dei migliori videogiochi sui pirati e l’unico di questa lista che supporta il gioco multiplayer consentendo di incontrare altre ciurme di pirati e decidere se allearsi con esse o combatterle. Una libertà praticamente infinita è data all’avventuriero che deciderà di solcare questi mari.

Sid Meier’s Pirates!

Uno dei migliori videogiochi sui pirati di sempre: Sid Meier's Pirates!

Sid Meier’s Pirates!, targato Microprose, anno di uscita 1987, è uno adventure/gestionale in cui si simulerà la vita di un pirata. Beh… non proprio di un pirata, ma di un corsaro al servizio di re di vari nazioni (la scelta della nazione da servire indica il livello di difficoltà del gioco). Però, la fedeltà ad una nazione non deve per forza rimanere tale. Nel corso del gioco si potrà cambiare bandiera, come si potranno catturare altri banditi e consegnarli alla legge per ottenere le ricompense, salvare donzelle rapite, conquistare città e forti. Non c’è una storia a fare da conduttore, ma la storia la creerà il giocatore mano mano che effettuerà le proprie scelte.

Nonostante l’anno d’uscita, Sid Meier’s Pirates! è uno dei migliori videogiochi sui pirati di sempre, tanto che nel 2004 è stato proposto un remake del titolo ad opera di Firaxis (che attualmente ne detiene i diritti) in cui è stato introdotto un motore 3D che ha migliorato il comparto grafica complessivo, è stato migliorato il sistema di combattimento e introdotto la fase del ballo, dove il protagonista prima di conquistare l’agognata donzella deve sfoggiare abilità danzanti.

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Monster Hunter Rise: Sunbreak – Recensione

Recensione in BREVE

Monster Hunter Rise: Sunbreak rappresenta quel che dovrebbe essere l’espansione tipo. Migliora ogni singolo aspetto del gioco base, ampliandolo enormemente al tempo stesso. Il roster è uno dei migliori dell’intera saga, e tutti i nuovi mostri sono più che convincenti. Le due nuove mappe sono un piacere da esplorare, ma da chi ha creato le mappe del gioco base non ci si poteva aspettare che questo. Le novità di gameplay sono tante e succose, dai compagni alle nuove tecniche scambio/fildiseta, fino ad arrivare ai rotoli di scambio abilità. Ovviamente viene introdotto il Grado Maestro, che dona nuova vita a tutti i mostri del gioco base. E questa volta Capcom non ha dimenticato di inserire un endgame loop per fortuna. Resta un po’ di amaro in bocca per il trattamento riservato alla Furia. Insomma, se siete appassionati della saga, ma più in generale dei buoni giochi, correte subito a comprarne una copia!

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Rieccoci qui a parlare di una delle serie a me più care, il mitico hunting game made by Capcom. L’ultima volta mi lancia in un paragone tra World e Rise, le nuove iterazioni della saga che ad uno sguardo più attento mostrano differenze strutturali mica da poco. Da una parte World che enfatizza ai massimi livelli l’esplorazione di mappe intricatissime – si, Foresta Antica, parlo di te – esaltando quella sensazione di star effettivamente cacciando qualcosa. Dall’altra Rise, con la sua mobilità estrema ed il focus quasi assoluto su gameplay e combattimento.

Metto le mani avanti, io preferisco la formula proposta da Rise. Pur reputando entrambi i titoli dei pesi massimi, e non potrei più fare a meno dei miei Insetti Filo. Detto questo, ho sempre reputato Rise un lavoro svolto a metà. Un ottimo gioco azzoppato dal mancato supporto Capcom nel periodo di post release. Certo, abbiamo avuto il finale della storia – seriamente? – in un update. E poi il trio delle meraviglie, e poi Valstrax, e poi altro ancora. Tutta roba che onestamente mi sarei aspettato già presente il 26 marzo 2021, giorno della release.

Insomma, un Rise 3.0 che somigliava più ad un Rise 1.1, con il ricordo lontano di eventi collab come il Behemoth o il Leshen. O un endgame loop, cosa praticamente assente in Rise, con i mostri Apex relegati a meri riempitivi. Quindi con un po’ di titubanza attendevo Sunbreak, la “massiva espansione” che avrebbe portato il Master Rank anche nelle terre di Kamura. Ci ho giocato tante, forse troppe ore, ma era necessario affinché ve ne potessi parlare con cognizione di causa. Quindi bando alle ciance e vediamo cosa ha da offrirci Capcom stavolta.

Una nuova minaccia, un nuovo regno

Kamura è finalmente salva, il regno del terrore di Narwa ed Ibushi è terminato e con esso le Furie. Ma una presenza sinistra si fa viva in una terra lontana, oltre il mare, e toccherà proprio al primo cacciatore di Kamura risolvere l’ennesima crisi. È così che ci ritroveremo nell’avamposto di ricerca di Elgado, di proprietà della Corona. Il regno è ancora una volta minacciato dal drago anziano di quelle terre, il Malzeno, o banalmente il flagship monster di Sunbreak.

Questo l’incipit della trama di Sunbreak, che come da tradizione non è che un pretesto per cacciare roba sempre più grossa e cattiva. Devo però ammettere che Capcom ha ascoltato le lamentele della fanbase circa le criticità della trama di Rise, che a conti fatti risultava un po’ buttata lì. Io ad esempio continuo a chiedermi che c’entra il Magnamalo con Ibushi e Narwa, ma credo che non riceverò mai risposta.

In Sunbreak ci troviamo alle prese con solita storiella tipica dei Monster Hunter, con una minaccia – il Malzeno – che nasconde un’altra minaccia ancora più grande, ma nascosta. Per quanto semplice ho apprezzato decisamente di più la storia di Sunbreak, forse anche grazie ad un cast di personaggi più curato ed alla maggiore presenza di cutscene e dialoghi.

Castelli, giungle e porti

Soffermiamoci un attimo sulle nuove aree esplorabili, partendo proprio dal nuovo hub di gioco. Elgado è un piccolo avamposto costiero dallo stile medievaleggiante, e sostanzialmente offre tutto ciò di cui un cacciatore necessita. Nulla di più, nulla di meno, letteralmente. Se avete giocato un qualsiasi titolo della saga saprete già cosa aspettarvi insomma.

Andiamo invece a quel che interessa davvero a noi cacciatori, ovvero il terreno di caccia. Sunbreak aggiunge due nuove mappe o per meglio dire, un lieto ritorno ed una new entry. Ritroviamo la Giungla, mappa introdotta nel lontanissimo Monster Hunter 2, e la Cittadella, location esclusiva di Sunbreak.

Non tutti gli eroi portano un mantello

La prima è un tuffo nel passato, e come già visto con la Foresta Inondata anche qui ci ritroviamo davanti ad un lavoro di rifacimento perfetto. Tutte le aree caratteristiche della vecchia mappa sono presenti, come ad esempio il tempio sulla spiaggia o la cascata sotterranea. Al tempo stesso Capcom ha svolto un gran lavoro di level design, creando una mappa a prima vista compatta, ma piena di cunicoli, scorciatoie e luoghi segreti da scoprire.

Ma ancora più bella è sicuramente la Cittadella, una strana unione tra più biomi. Laghi velenosi, pozze di resina, picchi ghiacciati ed un borgo in rovina con tanto di castello, il tutto in una sola mappa. E non mancano porte da far saltare in aria con esplosivi, cunicoli che passano sotto il castello e tanto altro ancora.

Il castello in rovina della Cittadella

In parole povere se avete giocato Rise sapete già cosa aspettarvi, mappe dalla verticalità spiccatissima, curate tanto sul lato visivo quanto su quello più giocoso, divertenti da esplorare e piene zeppe di piccoli segreti, come l’immancabile fauna endemica “rara” o le note del diario.

A volte ritornano…

Ovviamente le mappe aggiunte sono cosa assai gradita, ma a cosa servirebbero senza nuove prede da cacciare? Fortunatamente Sunbreak non delude sotto questo punto di vista, ed anzi, tra new entries ed attesissimi ritorni riesce ad offrire quel che reputo tra i migliori roster di sempre, non contando quello di Generations Ultimate per ovvie ragioni.

Questa variante di Bishaten è decisamente più pericolosa del suo cuginetto

Non starò qui ad elencarvi ogni nuovo mostro presente nell’espansione, ma sappiate che tutti i nuovi mostri, nessuno escluso, mi hanno convinto, ed in alcuni casi anche sorpreso. Cosa che invece non avevo provato in Rise, o quantomeno non fino in fondo, reputando alcune new entries poco sfruttate.

Poi troviamo illustri ritorni, come l’amatissimo – od odiatissimo, a voi la scelta – Gore Magala, il flagship di Monster Hunter 4, papà Shagaru Magala, o ancora il Seregios, il richiestissimo Astalos e tanti altri. Non posso poi non citare due tra i miei mostri preferiti di sempre, il duo dei crostacei giganti, il Damyio e lo Shogun. Ben vengano aggiunte come queste, mostri un po’ più esotici della classica viverna o belva. E spero questi due piccoli amici siano il preludio a qualcosa di ancor più interessante, come il Nerscylla o il mitico duo Seltas/Seltas Queen, chissà.

Finalmente anche lui è tornato, guardate come esulta!

E tutti gli altri mostri invece? Ricordiamo che Sunbreak aggiunge finalmente il Grado Maestro. Questo si traduce in una rivisitazione di quasi tutti i mostri già presenti in Rise, che per l’occasione hanno qualche nuovo asso nella manica da utilizzare contro noi cacciatori. Ognuno dei “vecchi” mostri infatti ha acquisito nuove mosse, spesso davvero pericolose. Ad esempio ora il Khezu dispone di un attacco AoE elettrico da distanza che potrebbe mettere in seria difficoltà il cacciatore meno attento. Addirittura il Ludroth Reale, simpaticamente rinominato “sacco da boxe” dal sottoscritto, potrà darci filo a torcere in Sunbreak. A questo aggiungiamo che il GM ci pone davanti a mostri più resistenti, più veloci e soprattutto fanno un gran male, e la sfida è servita.

Il terrificante Gore Magala

Insomma, uno dei grandi difetti di Rise, la difficoltà tarata verso il basso, qui in Sunbreak è un lontano ricordo. Badate bene, siamo ben lontani da sfide ai limiti del masochismo come il Molten Tigrex di MH4U, ma “cartare” sarà una costante in Sunbreak, ed era anche ora direi io.

Dracula, Frankenstein ed il Lupo Mannaro?

Mentirei se dicessi che tutti i mostri nascono uguali, poiché le vere stelle di Sunbreak sono tre, ovvero i Tre Signori – così nominati dai cavalieri del regno – ovvero potenti mostri che dominano i territori confinanti Elgado. Tre bestie che si ispirano all’immaginario del periodo buio, ed in particolare al folklore europeo.

Partiamo con Garangolm, una belva zannuta molto simile ad un gigantesco gorilla. Dall’aspetto decisamente imponente, questo gigante è in grado di utilizzare dei guantoni “fatti in casa” per picchiarci nelle maniere più disparate. Devo essere sincero, forse questo è il nuovo mostro che più mi ha stupito, ovviamente in positivo. Mai mi sarei aspettato di vedere un bestione simile che parte letteralmente a razzo sfruttando il suo pugno ricoperto di roccia lavica. Un mostro che ricorda Frankenstein già nell’aspetto fisico, tranquillo finché non viene provocato, e che si ricopre di altro materiale per lottare.

Granagolm è solitamente mansueto, ma occhio a farlo arrabbiare

Il secondo signore è invece il Lunagaron, di cui faremo la conoscenza proprio durante la prima quest di Sunbreak, ma che verrà affrontato solo molto più avanti. Inutile utilizzare mezzi termini, Lunagaron è a tutti gli effetti un lupo mannaro, la sua presenza è indissolubilmente legata alla luna piena. Durante la caccia assisteremo prima ad un Lunagaron molto simile ad un “comune” lupo, che corre sulle 4 zampe. Ad un certo punto però il nostro amico si arrabbierà, ricomprendosi di una corazza ghiacciata – alla Zamtrios maniera – ed ergendosi sulle zampe posteriori, trasformandosi a tutti gli effetti in un vero e proprio lupo mannaro. Anche qui poco da dire, bellissimo scontro, bellissimo mostro, a dir poco perfetto.

Il Lunagaron ulula alla luna.

Ed infine arriviamo al flagship monster di Sunbreak, sua Altezza Malzeno. Sono sicuro che durante il reveal trailer, alla vista di Malzeno, chiunque di noi abbia pensato “Ohhhhh, un drago vampiro!”. In effetti avevamo proprio ragione, per la sopresa di letteralmente nessuno. Malzeno rappresenta in maniera perfetta quello che sarebbe stato Dracula se fosse nato sottoforma di drago. Membrane scarlatte terribilmente simili a merletti d’abito d’altri tempi, la classica “posa” in cui il Malzeno si cela dietro le sue ali come fossero un mantello. O l’inaspettato teletrasporto di cui il drago è padrone, che fa tanto Dracula dei vari Castlevania. Che dire di lui? Probabilmente uno dei migliori flagship di sempre, maestoso, regale, veloce, cattivo e pieno di sorprese. Non voglio rovinarvi il brivido della prima caccia, quindi mi limiterò solo a questo.

La traduzione sarà corretta???

In realtà vi sarebbe anche un quarto signore, di cui però non voglio proprio parlarvi, sarete voi a scoprirlo sul finale di Sunbreak. Ovviamente anche quest’ultimo ispirato ad un altra figura che andava tanto in voga durante il periodo buio.

Cacciare in compagnia

Una delle aggiunte più gradite è sicuramente quella dei Compagni, ovvero la possibilità di andare a caccia con dei cavalieri del Regno stanziati ad Elgado, tra cui Fiorayne, la “comprimaria” di Sunbreak. Devo essere sincero, quando Capcom annunciò la possibilità di cacciare assieme a quelli che sono dei semplici bot, non è che me ne fregasse poi tanto. Neanche ricordavo della presenza di tale feature fin quando non l’ho sbloccata in game.

Adesso invece mi vien da dire “mai più senza”. I compagni hanno delle cacce a loro dedicate, e dopo un certo numero di richieste completate diventeranno disponibili per un numero via via crescente di missioni. Quel che stupisce è l’efficienza dei Compagni. Quando ho visto Fiorayne allontanarsi dal nostro bersaglio per poi tornare in sella ad un altro mostro e darmi man forte sono rimasto piacevolmente stupito. Ma potrei anche dirvi che i compagni riescono ad utilizzare meccaniche di gameplay più avanzate, come ad esempio lo sfruttamento dei guardpoints della Lama Caricata.

Si, potremo reclutare anche il nostro capo

Ognuno di essi ha a disposizione 5 armi diverse, e tutti hanno un proprio stile di caccia. C’è chi è più votato al supporto, magari utilizzando polveri curative per tirarvi fuori dai guai, e chi invece punta tutto sull’offensiva, o magari sulla difensiva distraendo l’attenzione del mostro. Il punto è che i compagni funzionano dannatamente bene, ed offrono l’opportunità di braccare un mostro in gruppo anche offline. Anzi, a volte risultano essere anche più bravi di noi o di eventuali compagni beccati nelle lobby di gioco.

Altra aggiunta gradita è l’interazione che hanno tra di loro. Possiamo portare fino a due compagni assieme a noi, ed in base alle combinazioni i due prescelti potrebbero scambiare battute uniche, cosa che fa sempre piacere ed aiuta nell’immedesimazione. Ovviamente, oltre ai cavalieri del regno, anche le nostre vecchie conoscenze a Kamura vorranno darci una mano. Se avete sempre desiderato cacciare assieme ad Hinoa e Minoto, o magari all’Anziano Fugen, Sunbreak ve ne dà l’opportunità.

Un piccolo cratere, si crede sia stato causato dal Malzeno

L’unica perplessità è che a conti fatti non potremo usufruire dei compagni in una missione qualsiasi del gioco, ma solo in quelle a loro dedicate, scelta che risulta alquanto strana. Tolto questo piccolo neo però spero che questa feature venga mantenuta anche nei futuri capitoli della saga.

Rotoli ed arsenali

Arriviamo infine al nostro arsenale, la cosa più cara a qualsiasi cacciatore. Ogni singola arma presente in Rise potrà essere portata fino al grado massimo, la rarità 10. Quindi non tutto quel che avete farmato su Rise è da buttare, e per fortuna direi. Ogni singola armatura del gioco ha poi una variante X, che richiede i materiali di grado GM ovviamente. Come da tradizione le armature X, oltre ad essere immensamente più potenti, differiscono da quelle basso/alto grado anche dal punto di vista estetico, raddoppiando a conti fatti le armature da far indossare al nostro cacciatore. Questo per la felicità di chi ricerca lo stile sopra ogni cosa.

Almudron X, l’armatura dei Gundam

Ovviamente anche la meccanica regina di Rise, le abilità scambio/fildiseta, gode di un grande aggiornamento. Ogni arma riceve così due nuove mosse, una abilità scambio ed una tecnica fil di seta. Due potrebbero sembrare pochine, e guardando solo il numerino vi darei pure ragione, ma anche qui Capcom ha fatto un lavorone. Ad esempio la Spadascia riceve finalmente la counter move di cui aveva dannatamente bisogno, cambiando di fatto lo stile di gioco dell’arma, che ora può essere mandata in stato amplificato quasi immediatamente. Lo Spadone può finalmente offrire un po’ di varietà grazie alla combo fendente super, che predilige attacchi veloci a discapito del classico fendente caricato. Questi sono solo due esempi, ma tutte le armi hanno ricevuto modifiche sostanziali.

Vecchie conoscenze

Capcom ha inoltre introdotto i rotoli di scambio, o in parole povere la possibilità di creare due set di abilità scambio/tecniche fil di seta liberamente selezionabili durante la caccia. In soldoni questo permette di avere una maggiore varietà di approcci allo scontro. Ad esempio io, giocando spesso con Spada e Scudo, utilizzo un primo set che mira a stordire il malcapitato mostro tramite l’utilizzo di colpi di scudo, per poi passare al secondo set che invece predilige combo di spada più lunghe ed un maggiore danno elementale. Un’aggiunta più che gradita che aumenta a dismisura la versatilità dei nostri moveset.

Pad alla mano Sunbreak risulta un’esperienza fresca, il feeling delle armi è sempre più convincente e soprattutto offre tanta varietà anche utilizzando un’unica arma. Non ho voluto parlare dell’endgame loop per scelta, ma sappiate che c’è ed offre un bel grado di sfida.

Pensieri finali

Come avrete intuito sì, Sunbreak mi ha stupito in positivo. Mi aspettavo una buona espansione, ed invece Capcom ha sfornato un’ottima espansione, ricchissima di contenuti già dalla release. Il roster dei mostri, tra new entries e vecchie conoscenze, è davvero eccezionale. Esplorare le nuove mappe e scoprirne tutti i segreti è stato un vero piacere. Il gameplay è più fluido che mai ed offre più varietà. I compagni sono un’ottima aggiunta che spero sarà mantenuta anche nei prossimi capitoli della saga.

C’è un po’ di perplessità circa il trattamento riservato alla modalità Furia, forse mi sarei aspettato una reinterpretazione di tale modalità piuttosto che il suo totale abbandono. Detto questo comunque Capcom è partita con il piede giusto stavolta, e la roadmap degli update sta lì a dimostrarlo. Quindi, se non lo avete ancora fatto, imbracciate le armi e correte a difendere il Regno da quel che si annida ad Elgado!

Dettagli e Modus Operandi

  • Genere: Action, GDR
  • Lingua: Italiano
  • Multiplayer: Si
  • Prezzo39,99€
  • Piattaforme: PC, Nintendo Switch
  • Versione provata: PC

Ho affrontato la nuova caccia per oltre 70 ore grazie a un codice gentilmente fornito dal publisher.

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