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Donkey Kong Bananza – Recensione

Donkey Kong non è solo un personaggio, è un’icona che ha attraversato decenni, generazioni e console, portando con sé un pezzo importante della storia dei videogiochi. Nato nel 1981 come antagonista di Mario (ancora “Jumpman” all’epoca), questo gorilla gigantesco ha fatto il suo debutto in un arcade leggendario che ha rivoluzionato il mondo videoludico.

Col tempo, Donkey è passato da “villain ad eroe”, protagonista di una serie di giochi che combinano platform, ritmo e tantissima… banana-energia (andate a leggere anche il nostro articolo su tutti giochi della saga di Donkey Kong). Con titoli come Donkey Kong Country, Jungle Beat e altri ancora, il personaggio si è evoluto, mantenendo però quel mix inconfondibile di forza bruta e simpatia animalesca.

Oggi, ogni nuovo capitolo della saga è atteso con entusiasmo da fan nostalgici e nuove leve, ansiosi di rituffarsi nella giungla di salti, barili e ritmi tribali. Donkey Kong Bananza si inserisce proprio in questo solco: un’avventura che richiama la tradizione, ma che potrebbe anche sorprenderci.

Trame giunglesche

In Donkey Kong Bananza, la giungla è in subbuglio: un misterioso gruppo di scimmie rivali, guidate da un enigmatico Kong mascherato, ha rubato la mitica Scorta Dorata di Banane, fonte di energia e armonia per l’isola. Donkey Kong, infuriato e deciso a ristabilire l’equilibrio, parte per un viaggio che lo porterà oltre la sua terra natale, affrontando nemici, ambienti ostili e… qualche vecchia conoscenza.

La narrazione si sviluppa in modo semplice ma efficace, con cutscene brevi e dialoghi umoristici che accompagnano la progressione. Non c’è bisogno di una storia profonda: la trama fa da sfondo all’azione, mantenendo quel tono scanzonato e ritmato che è marchio di fabbrica della saga.

Gameplay distruttivo

La centralità del gameplay si basa sulla distruzione totale (o quasi) degli ambienti di gioco. Il gioco nasce proprio così nella testa degli sviluppatori e la resa finale è, secondo me, veramente lodevole. Distruggere tutto dà un senso di appagamento al tatto, agli occhi ed alle orecchie indescrivibile. Bisogna solo provarlo per rendersene conto. Un grande plauso va agli sviluppatori che hanno integrato appunto alla perfezione responsi tattili sui joycon, responsi visivi e uditivi, rompere i diversi materiali di cui sono costituiti i vari livelli del gioco è sempre diverso in base al materiale distrutto (tecnica foley).

Ogni livello è composto da elementi voxel con proprietà fisiche diverse rocce, sabbia, terra rossa come abbiamo accennato che reagiscono realisticamente alla forza di Donkey Kong. Non solo si possono distruggere i percorsi per accedere a nuove aree, ma si possono generare vere e proprie reazioni a catena che diventano parte integrante della strategia.

La libertà è totale: vuoi sbriciolare il terreno sotto i nemici per farli precipitare o sollevare una roccia per usarla come ariete? Puoi farlo tranquillamente. Il gioco ti incoraggia a pensare come Kong: istintivo, creativo e sempre in movimento.

La tecnologia dietro la distruzione

Grazie alla tecnologia voxel implementata per la prima volta in un gioco Nintendo, ogni singolo pezzo dell’ambiente è simulato fisicamente. I voxel non sono soltanto decorativi: pesano, si incastrano, si rompono e reagiscono alla gravità e agli urti. Questa fisica “granulare” crea una dinamica quasi sandbox, pur mantenendo la precisione tipica dei platform Nintendo.

Il passaggio allo sviluppo su Switch 2 ha rappresentato un cambio di marcia. Il nuovo hardware consente una gestione fluida di milioni di voxel per livello, con effetti particellari, illuminazione dinamica e tempi di caricamento quasi nulli. A dir il vero, il framerate cala in alcune situazioni con i boss. Niente di trascendentale, un leggero fastidio e niente di più.

Curiosità di design

Il concept originale nasce dopo Super Mario Odyssey, da un esperimento interno Nintendo che voleva provare un Goomba con braccia giganti. Da lì è emersa l’idea di utilizzare la distruttibilità ambientale come linguaggio interattivo, e Donkey Kong è risultato il personaggio ideale per incarnarlo.

Il level design premia la sperimentazione: spesso non esiste una “soluzione giusta”, ma molte valide. Il gioco insegna a pensare con le mani, a modellare il mondo con la forza bruta e la curiosità.

Pauline & others

L’implementazione di Pauline, personaggio che abbiamo già conosciuto in veste di sindaco di New Donk City in Super Mario Odissey, ha un suo che di romantico e tenero. Provate a stare fermi con il joypad e vedrete come reagiscono i due personaggi.

Ma ovviamente le particolarità non si limitano a quello. Pauline, come DK e come anche i cattivoni della Void Company, vuole raggiungere il nucleo del pianeta per poter ritornare in superficie, sceglie di accompagnare DK per tenerezza e fiducia reciproca. Grazie a Pauline o meglio alla sua soave voce, DK potrà effettuare delle trasformazioni (gorillone, struzzo, zebra…) che sono un altro punto nodale del gameplay del gioco poiché consentono a DK di acquisire ed utilizzare nuove abilità necessarie per effettuare azioni normalmente impossibili, nonché una super forza.

La medaglia ovviamente ha due facce e dobbiamo sottolineare che la trasformazione è a tempo, ma può essere ricaricata acquisendo oro, fortunatamente presente in abbondanza negli scenari. Abbiamo già nominato Super Mario Odissey in questo articolo. Dobbiamo farlo per la terza volta, poiché anche con Mario erano possibili delle trasformazioni del personaggio, ma queste avvenivano in momenti specifici. Con DK invece potrete trasformarvi ogni qualvolta lo vorrete, a patto che abbiate sbloccato la trasformazione e che abbiate abbastanza oro, un punto di svolta che incide decisamente sul gameplay.

Grafica e sonoro ritmati

Come ogni DK che si rispetti, la musica ma anche la grafica danno a tutto il gioco quel senso di ritmo della giungla caratteristici della serie e che, diciamo la verità, di cui non potremmo farne a meno. Il sonoro raggiunge poi l’apice con le canzoni delle trasformazioni e la voce di Pauline, per quanto riguarda il comparto grafico, il framerate regge, regge benissimo (tranne in alcuni sporadici casi come accennato).

Le animazioni dei personaggi sono sublimi, Donkey Kong ha una varietà infinita di espressioni, il suo pelo si muove coordinato ai movimenti, l’acqua presente negli scenari è la migliore acqua mai vista su Switch. E poi niente, niente fa notare il salto generazionale tra Switch 1 e Switch 2 come la distruzione del paesaggio, che avviene in tempo reale, muovendo migliaia di elementi contemporaneamente.

Divertente?

La domanda nasce spontanea…ma non sarà noioso spaccare tutto? Dall’inizio alla fine del gioco? La risposta è ni. Nintendo è stata maestra nell’inserire un elemento di variazione proprio quando pensavate che il gioco si stesse facendo noioso. Questo elemento può essere un livello bonus, un livello bonus in 2D che riprende i classici DK, una missione particolare in cui invece di distruggere dovrete costruire. Insomma, la carne sul fuoco ne è tanta…e tutta di ottima qualità.

Donkey Kong è, secondo noi, il platform 3D, definitivo. Rompe (e qui il termine è d’uopo) con tutto di quello già visto, portando il livello di gioco su uno scalino superiore. Questo è ciò che vogliamo da Nintendo, molti, al lancio della Switch 2, si sono lamentati dell’hardware, ma la differenza Nintendo, l’ha sempre fatta coi giochi, e se questo è l’inizio non ci sarà altro che da divertirsi. Vario, colorato, tecnicamente quasi perfetto Donkey Kong Bananza tiene incollato il giocatore, diverte ed impegna maledettamente…cosa volere di più? Nel panorama attuale platform 3D così completi pochi se ne vedono, escludendo il pregevolissimo Astrobot su Playstation. Consigliato a grandi, piccini, mamme, papà, zii e nonni, indistintamente, forse, la vera killer app di Switch 2.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: Nintendo Switch 2
  • Data uscita: 17 luglio 2025
  • Prezzo: 69,99 versione digitale – 79,99 versione fisica

Ho giocato Donkey Kong Bananza al day one su Nintendo Switch 2

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Death Stranding 2: On the Beach – Recensione

Quando nel 2019 è uscito il primo Death Stranding, ho compreso due cose: la prima, che qualcosa di profondamente nuovo era atterrato nel panorama videoludico; la seconda, che non tutti erano pronti ad accoglierlo. In effetti, Hideo Kojima, libero da ogni catena editoriale, dopo l’addio burrascoso a Konami, si era finalmente concesso il lusso di creare un gioco che fosse “alla Kojima” fino in fondo (vedi qui per un approfondimento sui giochi di Kojima). Un atto di fede visionaria che, nel bene e nel male, ha diviso la community.

Io, da parte mia, ne fui catturato. Ricordo quelle passeggiate infinite tra montagne e vallate, le leggi della fisica da tenere sotto controllo mentre si hanno carichi preziosi sulle spalle, le melodie dei Low Roar che partivano nei momenti giusti, come una carezza in un mondo spaccato. Era un videogioco lento, contemplativo, eppure carico di tensione e significato. Un esperimento, sì, ma con un’anima.

E adesso? Adesso Kojima è tornato, e Death Stranding 2: On the Beach non è più un esperimento: è una conferma. Non perfetto, ma vivo, pulsante, disturbante e spesso geniale. Un titolo che ha il coraggio di farti rallentare in un medium che corre e che, nel farlo, ti fa riflettere su cosa significhi “giocare” oggi.

Un sequel che osa cambiare

Dimenticatevi per un attimo il Sam Porter Bridges silenzioso e operoso del primo capitolo. Death Stranding 2: On the Beach non è semplicemente “più” del precedente, ma è anche “diverso”. Kojima non si limita a iterare sul gameplay: riscrive intere dinamiche, aggiusta la narrazione, sposta l’obiettivo. Si passa dal “ricucire un’America fratturata” a un tentativo ancora più folle: capire se c’è qualcosa, o qualcuno, oltre il mare. Il concetto di “connettere” si allarga, e lo fa portando i personaggi verso l’ignoto, sia fisicamente che emotivamente.

E in questo salto di scala, si inserisce una delle sorprese più riuscite del gioco: il tono. Death Stranding 2: On the Beach è più ironico, più surreale, più grottesco. Alcuni momenti sembrano usciti da un teatro dell’assurdo, tra dialoghi criptici, comparse improbabili e picchi emotivi sincopati. Ma è proprio questo caos controllato, questa danza tra il ridicolo e il sublime, a rendere il viaggio appassionante.

Gameplay: fardelli nuovi, equilibri vecchi

Chi ha amato il gameplay del primo DS troverà qui pane per i suoi denti – e anche un bel po’ di carne sopra. Le meccaniche base della consegna, dell’equilibrio, del peso e del terreno restano, ma vengono rimescolate da una marea di nuovi strumenti, veicoli e ambientazioni. La mappa è più ampia, variegata e dinamica. Le condizioni atmosferiche, ad esempio, ora non sono solo ostacoli: diventano risorse o opportunità.

Ma è la costruzione della rete di infrastrutture – ponti, zipline, rifugi – che torna con più senso che mai. Vedere una corda lasciata da un altro giocatore, scoprire che ti ha appena salvato da una caduta mortale, o ritrovarti a ringraziare in silenzio chi ha costruito un ascensore su una parete impossibile… sono quelle le vere connessioni. E vi assicuro che creano una soddisfazione profonda, quasi “altruistica”, che pochi giochi riescono a regalare.

Certo, non tutto funziona alla perfezione. Alcune sezioni di stealth forzato rallentano un po’ troppo il ritmo, e c’è ancora qualche momento in cui l’interfaccia sembra voler giocare contro di te. Ma si tratta di inciampi minori, in un impianto generale solido e coerente con la visione del gioco.

Il confine tra cinema e follia

Parlare della trama senza spoiler è difficile, ma posso dire questo: Death Stranding 2 continua a camminare sul filo teso tra epica esistenziale e teatro kabuki. Kojima scrive con la penna del regista e il cuore del game designer, e la storia – pur tra mille bizzarrie – funziona. Non sempre è lineare, non sempre è chiara, ma è sempre evocativa.

Norman Reedus torna nei panni di Sam, ma questa volta con una consapevolezza nuova, quasi riluttante. Al suo fianco ritroviamo Fragile (una Léa Seydoux in stato di grazia), nuovi comprimari ambigui, e una serie di antagonisti che sembrano partoriti da un incubo collettivo.

Il punto di forza? Il gioco sa sorprenderti. Ti illude di aver capito dove stai andando, e poi ti tira fuori un plot twist che rimette tutto in discussione. Alcuni dialoghi fanno sorridere per la loro assurdità, altri colpiscono al petto per la loro intensità. Non è cinema, non è letteratura, non è solo videogioco: è Kojima Storytelling™, con tutte le sue luci e le sue ombre.

Tecnica e direzione artistica: tra l’organico e il sintetico

Death Stranding 2

Visivamente, Death Stranding 2 è uno spettacolo. Il Decima Engine si conferma una bestia tecnica, e su PS5 (dove l’ho giocato) gira fluido, con dettagli ambientali che tolgono il fiato. I volti sono realistici fino all’inquietudine, la gestione della luce è magistrale, e gli effetti atmosferici – pioggia, vento, neve – trasformano ogni uscita in un piccolo evento.

Ma è la direzione artistica a fare la differenza. Alcuni scenari sembrano usciti da una mente in preda a un sogno lucido, altri ricordano più un’opera concettuale che un videogame. Kojima gioca con colori, simmetrie, suoni e assenza di suoni, per evocare stati d’animo più che ambientazioni. Si va da deserti rossi e brulli a architetture liquide e distorte che sembrano sussurrare qualcosa mentre ci cammini dentro. È un’esperienza percettiva, prima ancora che ludica.

Un’opera di precisione millimetrica

Death Stranding 2: On the Beach rappresenta uno dei picchi più alti mai raggiunti sul piano tecnico da uno studio di sviluppo. Kojima Productions ha saputo spingersi oltre i confini già estremi del primo capitolo, confezionando un’esperienza visivamente e acusticamente sorprendente. Basato sull’evoluto Decima Engine (lo stesso utilizzato da Guerrilla Games per Horizon), il gioco mostra un livello di dettaglio che lascia spesso a bocca aperta: dalle gocce di pioggia che si infrangono sulla tuta del protagonista, fino alla resa del terreno che muta in tempo reale in base a pioggia, vento e calpestii. Gli elementi atmosferici non sono solo scenografici ma hanno impatti concreti su fisica e interazioni, rendendo il mondo tangibile e dinamico. La gestione dell’illuminazione globale, dei riflessi e delle ombre dinamiche riesce a creare una sensazione di realismo che ha pochi eguali nel panorama attuale.

La fluidità è un altro punto di forza: su PlayStation 5 il gioco si mantiene stabilmente sui 60 fps in modalità performance, garantendo un controllo sempre reattivo anche nelle situazioni più concitate. I caricamenti sono praticamente inesistenti permettendo un’esperienza senza interruzioni. Dal punto di vista audio, Death Stranding 2 non è da meno: il lavoro svolto sul sound design è minuzioso, con ambienti che respirano, suoni ambientali stratificati, e una colonna sonora che ritorna con il suo carico di emozioni firmato ancora una volta da Ludvig Forssell e da band come Low Roar, presente in tracce inedite postume. L’effetto è quello di una sinestesia, dove ogni passaggio tecnico concorre a costruire una sensazione immersiva profonda.

In particolare, la motion capture ha raggiunto nuove vette di perfezione: il volto di Sam, così come quello degli altri protagonisti, non è solo realistico, ma riesce a comunicare emozioni complesse anche nei momenti di silenzio. Le cutscene sono veri e propri cortometraggi cinematografici, diretti con la consueta attenzione quasi maniacale da parte di Hideo Kojima. In definitiva, il comparto tecnico di Death Stranding 2: On the Beach è qualcosa che va oltre il semplice “ben fatto”: è una dichiarazione di intenti, la dimostrazione che il videogioco può essere una forma d’arte capace di utilizzare tutte le tecnologie a disposizione per evocare mondi che sembrano più veri del reale.

Un capolavoro visionario

Parlare delle ambientazioni di Death Stranding 2: On the Beach significa entrare in un territorio che va oltre il concetto stesso di videogioco. Kojima e il suo team hanno realizzato una vera e propria opera d’arte interattiva, capace di fondere suggestioni visive, mitologia moderna e un’estetica post-apocalittica che trasmette poesia e disorientamento in egual misura. Ogni luogo esplorato in questo seguito è una narrazione in sé, un mondo vivo che racconta storie anche in assenza di dialoghi o di eventi scriptati. Le rovine abbandonate, le città sospese tra il recupero e il collasso, le coste deserte battute dal vento: tutto contribuisce a una visione quasi pittorica della fine e della rinascita.

La varietà di ambienti è sorprendente. Si passa da regioni desertiche punteggiate da architetture ciclopiche a foreste pluviali dove la vegetazione sembra crescere in modo sovrannaturale, fino a distese ghiacciate dominate da luci aurorali che spezzano il silenzio con un senso di meraviglia ancestrale. Ogni luogo sembra provenire da un sogno o da un ricordo, e al contempo esprime una tangibilità rara. Il design non è solo funzionale alla progressione di gioco, ma è profondamente simbolico: la spiaggia, in particolare, torna come metafora dell’inconscio e della soglia tra vita e morte, trasformandosi in uno spazio quasi sacro che il giocatore attraversa più volte con emozioni diverse.

Il modo in cui la regia virtuale sfrutta la macchina da presa per farci immergere in questi paesaggi è un esempio di come il linguaggio cinematografico possa essere perfettamente integrato in un’opera interattiva. Il mondo di Death Stranding 2 non è solo da esplorare: è da contemplare. Ci si ferma non per noia ma per rispetto, per la bellezza che emana anche nei luoghi più spogli.

È raro che un videogioco riesca a stimolare lo sguardo come farebbe un museo d’arte contemporanea. Death Stranding 2: On the Beach riesce in questa impresa, costruendo un universo che è al contempo affascinante, inquietante e indimenticabile. Un invito costante all’osservazione lenta, alla riflessione, all’empatia.

Un’avventura forse troppo frammentata

Il gameplay di Death Stranding 2: On the Beach prosegue il solco tracciato dal primo capitolo, espandendolo in direzioni inaspettate ma coerenti. La meccanica del delivery resta centrale, ma viene arricchita da nuove tecnologie, veicoli e strumenti che rendono l’attraversamento del mondo meno frustrante e più strategico. Le missioni di consegna non sono più semplici tragitti da punto A a punto B, ma diventano veri e propri puzzle ambientali, dove il giocatore deve tenere conto di morfologia del territorio, condizioni meteo e presenza di ostacoli dinamici. L’introduzione di nuove entità ostili e scenari “liquidi”, che mutano nel tempo e nello spazio, dona una freschezza notevole alla progressione.

Le fasi di combattimento, pur non essendo il focus dell’esperienza, sono state riviste e migliorate: ora risultano più dinamiche e meno legnose, con un sistema che premia la preparazione e l’equipaggiamento. Tuttavia, il vero cuore pulsante del gameplay resta la gestione delle risorse, del carico, e la pianificazione di ogni singolo passo. Si tratta di un gameplay riflessivo, quasi meditativo, che richiede attenzione e coinvolgimento totale. Non è per tutti, ma per chi ne abbraccia il ritmo, l’esperienza è profonda e gratificante.

Sul fronte narrativo, Death Stranding 2 introduce una galleria di personaggi vecchi e nuovi, ciascuno dotato di un’identità ben definita. Il ritorno di Fragile assume un peso maggiore, così come l’enigmatico ruolo di Elle Fanning, il cui personaggio resta volutamente sfuggente per buona parte dell’avventura. Nota a margine per Neil intepretato e doppiato dal nostro Luca Marinelli. Eppure, c’è qualcosa di disgiunto nel modo in cui si concatenano le missioni principali: le peripezie di Sam, pur essendo intense e ricche di contenuti simbolici, appaiono talvolta come episodi isolati, più che tappe di un unico grande viaggio.

Questa frammentazione narrativa non compromette la qualità complessiva, ma lascia una sensazione di distacco tra un momento e l’altro, come se mancasse un filo conduttore forte che tenga tutto saldamente insieme. Ed è proprio questo il punto dolente dell’esperienza videoludica. Kojima sembra voler raccontare più visioni che una trama lineare, e questo può affascinare quanto disorientare. Resta il fatto che ogni interazione, ogni incontro, lascia il segno: che si tratti di un nemico, di un alleato, o semplicemente di un viaggiatore solitario in cerca di connessione. Death Stranding 2 è un viaggio interiore mascherato da gioco d’azione e, anche nei suoi momenti più slegati, riesce comunque a toccare corde profonde e autentiche.

Un viaggio tra i confini dell’umanità e dell’ignoto

In Death Stranding 2: On the Beach, il mondo post-apocalittico immaginato da Hideo Kojima evolve, diventando non solo un territorio fisico da attraversare, ma anche uno spazio mentale e simbolico da esplorare. Dopo gli eventi del primo capitolo — che hanno segnato la nascita di nuove connessioni tra le persone, ma anche profonde ferite nel tessuto del tempo e della realtà — Sam Porter Bridges si ritrova ancora una volta coinvolto in un’impresa più grande di lui, chiamato a rispondere a un nuovo squilibrio che minaccia l’esistenza stessa dell’umanità.

La trama si sviluppa intorno a un misterioso evento che sembra avere origine da un’altra “spiaggia”, quelle dimensioni liminali che separano la vita dalla morte e che fungono da crocevia per ciò che è umano e ciò che non lo è. Ma a differenza del passato, il pericolo non è solo quello della disconnessione tra persone isolate: stavolta il rischio è una deriva dell’intero concetto di esistenza. Cosa succede quando i legami, anche quelli più forti, vengono stravolti? Quando le emozioni, la memoria, il dolore e la speranza si fondono fino a diventare indistinguibili?

Il gioco introduce nuovi personaggi enigmatici, ognuno portatore di un frammento di verità e riafferma il ruolo di alcune figure chiave del primo capitolo, approfondendone le motivazioni e i conflitti. La trama si sviluppa attraverso una serie di missioni e visioni, costruendo un mosaico che il giocatore è chiamato a ricomporre non solo con la logica, ma anche con l’empatia. Non tutto è chiaro, e non tutto viene spiegato: Death Stranding 2 sceglie consapevolmente l’ambiguità come linguaggio narrativo, preferendo il dubbio alla certezza.

Pur mantenendo uno scheletro “lineare” — Sam deve compiere un viaggio, affrontare ostacoli, incontrare alleati e nemici — la storia si concede libertà poetiche, deviazioni oniriche e riflessioni filosofiche. La spiaggia, ancora una volta, non è solo un luogo: è un concetto. È la soglia tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere. In questo senso, On the Beach è un racconto sul senso della connessione, ma anche sulla paura di perderla. Un’opera che parla di fine, ma anche di rinascita.

Infilate le cuffie, alzate il volume e chiudete gli occhi

Se nel primo DS la colonna sonora era uno dei protagonisti, qui torna con rinnovato splendore. Oltre a Low Roar, ormai parte dell’identità del gioco (nonostante la tragica scomparsa di Ryan Karazija), troviamo nuove collaborazioni musicali che si integrano perfettamente. I brani non sono messi lì per “riempire”, ma entrano nei momenti giusti, spesso silenziosi, per darti il colpo emotivo dove serve.

E anche il sound design fa un lavoro incredibile: ogni rumore – i passi sulla neve, il respiro di Sam, il fischio di un BT – ti avvolge, ti accompagna, ti fa sentire dentro quel mondo. Con le cuffie giuste, è quasi sinestesia.

Conclusioni: un cammino che vale la fatica

Death Stranding 2: On the Beach non è un gioco per tutti, e va bene così. Non vuole esserlo. È un titolo che ti chiede tempo, pazienza e apertura mentale. Ti chiede di ascoltare, di osservare, di accettare il fatto che a volte camminare è già un atto rivoluzionario, soprattutto in un mondo dove tutti vogliono correre.

L’ultima fatica di Kojima riesce ad essere un’esperienza nuova in un panorama spesso omologato. Perché osa, sperimenta, fallisce in alcune cose ma riesce in molte altre. Perché dietro ogni pacco consegnato, ogni collegamento creato, ogni scelta folle, c’è una coerenza autoriale rara. E perché, pur con tutti i suoi difetti, è un gioco che resta, che lascia il segno.

In un’industria che troppo spesso copia sé stessa, Kojima continua a raccontare storie con il coraggio dell’artista e la testardaggine del sognatore. E io, da videogiocatore incallito, non posso che dirgli grazie.

Se avete amato il primo, giocatelo. Se non l’avete capito… giocatelo lo stesso. E poi rigiocate il primo. Perché in Death Stranding 2, tutto si riconnette.

Conclusione

Death Stranding 2: On the Beach amplia in modo ambizioso la trama del primo capitolo, approfondendo i legami tra vita e morte e riportando in scena Sam Porter Bridges in un contesto ancora più complesso e simbolico.
Visivamente, il gioco è straordinario. Ogni paesaggio è curato nei minimi dettagli, creando un’atmosfera sospesa tra reale e surreale. Il nuovo motore grafico spinge al massimo l’espressività visiva, rendendo ogni ambientazione memorabile.
La colonna sonora è uno dei punti di forza: malinconica, potente, perfettamente integrata con l’esperienza di gioco. I brani scelti arricchiscono il viaggio emotivo, contribuendo alla costruzione del mondo in modo profondo.
Unico vero limite è la narrazione: spezzettata, frammentaria, a tratti dispersiva. Sebbene ricca di idee, può disorientare chi cerca un racconto lineare e coeso.
In sintesi, un’opera affascinante, esteticamente eccellente, ma non per tutti.

8,5

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: Playstation 5
  • Data uscita: 26 giugno 2025
  • Prezzo: 69,99 euro

Ho giocato e completato il gioco su Playstation 5

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Rematch – Recensione

Il calcio digitale è ormai da tanti anni terreno fertile per le microtransazioni, dominato da EA Sports per la maggior parte dei profitti. Questo monopolio genera annualmente dei giochi che ormai si stanno allontanando dalla qualità dei FIFA, e Pro Evolution Soccer, del passato. A guardar bene quindi è estremamente realistico andare a cercare fortuna nei videogiochi di calcio, poiché il terreno è monopolizzato ma non saturo. Ci ha provato prima, senza troppo successo, UFL e ci prova adesso Rematch guardando non solo EA Sports FC, ma anche Rocket League che ormai da 10 anni domina la sua, più o meno grande, nicchia. In questa recensione di Rematch scopriamo se i talentuosi sviluppatori di Slocap siano riusciti a portare la tanto attesa rivoluzione nel genere.

Recensione Rematch: il calciatore

Il calcio è semplice

Rematch si fonda su poche semplici regole volte a rendere il titolo calcistico accessabile a chiunque. In effetti, il tutto è reso, sulla carta, estremamente semplice. Il videogiocatore comanda un unico calciatore, cosa che genera uno scontato paragone con Rocket League, nonostante diverse volte si è tentato di proporre la strada della visuale dietro le spalle nei videogiochi calcistici (LiberoGrande il più famoso, I Play 3D Soccer il capostipite, le modalità Carriera speciali di FIFA e PES le più recenti).

La scelta del singolo giocatore allontana quindi Rematch da EA Sports FC, forse volutamente, ma rimane comunque un gioco di calcio, ben più di Rocket League; infatti, una volta preso possesso del nostro calciatore, entreremo in una partita 3v3, 4v4 o 5v5, quest’ultima unica modalità disponibile per le partite classificate. Ogni partita è online e nessuno sarà sostituito dai bot. Fortunatamente il sistema di ricerca funziona abbastanza bene e nel caso qualcuno abbandoni il match, qualcun altro entrerà dopo poco.

Lo scopo della partita è tanto semplice quanto ovvio: fare più gol degli avversari. Per farlo, dovremmo giocare al nostro meglio con tre comandi base: passaggio (o cross), tiro o dribbling. In aggiunta, a ogni gol preso o subito, un calciatore sarà il portiere designato, ma basterà lasciare la porta per perdere i guantoni e chiunque del team potrà gudagnarli quando si avvicinerà alla propria porta.

Recensione Rematch: dribbling

Solo il duro lavoro

Poche regole, semplici, ma estremamente complesse da masterare. Rispetto ad EA Sports FC ed eFootball dove esiste il passaggio e il tiro assistito, semi-assistito o manuale, in Rematch non è previsto alcun aiuto. Sloclap, memore delle fortune fatte con l’elevata difficoltà introdotta su Sifu, ha rimosso qualsiasi aiuto. I passaggi sono manuali e così anche i tiri. I passaggi tengono conto della pressione del tasto X (su Xbox) per dosare la forza e il movimento della levetta per scegliere il punto in cui passarla. Per i tiri, sarà necessario premere il dorsale destro e successivamente spostare la levetta per inquadrare la porta, con la possibilità di dare un effetto con la levetta del movimento.

A queste meccaniche si aggiungge anche la gestione degli sprint, della telecamera – da manovrare con la levetta destra come in un qualsiasi action 3D – e il dribbling. Quest’ultimo si traduce in molteplici “mosse”: sombrero, controllo orientato, cambio direzione. Ogni mossa è semplice da eseguire (premere un dorsale in più oppure semplicemente il tasto A quando si riceve la palla), ma imparare a farlo nel momento giusto diventa la vera sfida.

Lato difesa, così come in EA Sports FC, è presente la modalità difensiva in cui il nostro calciatore allargherà le gambe e si rivolgerà verso il portatore di palla. In generale, sembra che difendere sia più semplice che attaccare, ma la skill fa tutta la differenza del mondo. Quest’ultima frase mi aspetto che faccia la felicità di tanti videogiocatori.

Calciatore in erba

Se Rematch fosse un free-to-play, potrei velocemente bypassare i problemi attuali del gioco dicendo che ci si aspetta che il titolo diventi più maturo, soprattutto in termini di contenuti. Considerando però che l’opera è proposta a un prezzo consigliato di circa 25 euro, devo entrare, in scivolata, nel dettaglio. E sì, c’è ancora tanto da fare.

Rematch ha tre modalità: 3v3, 4v4, 5v5. La prima modalità serve a prendere dimestichezza con il gioco. Si tratta di una modalità entry-level in cui la skill individuale conta più del resto. Via via che il numero di calciatori in campo aumenta, cresce di conseguenza la necessità di fare squadra per coprire al meglio il campo. In realtà però la modalità classificata, che si sblocca automaticamente raggiunto il livello 5, è il fulcro di tutto. Lo stesso ovviamente vale per altri giochi online, che sono però solitamente free-to-play, come lo stesso eFooball o Rocket League.

Recensione Rematch: Stagione Zero

Il paragone in questo caso va fatto con EA Sports FC, che oltre alla modalità UT, ha anche altre modalità single player consolidate, e alcune molto apprezzate. In Rematch non c’è una modalità Carriera né modalità alternative in stile Volta. Un peccato, perché Rematch ha un livello di difficoltà tale che potrebbe incuriosire tanti videogiocatori che hanno voglia di sfidare sé stessi, in single player.

D’altro canto però Rematch non ha nemmeno microtransazioni che impattano il calcio giocato, come le carte di Ultimate Team. Le uniche spese possibili incidono solo sull’aspetto dei calciatori e di tutto il contorno, senza mai cambiare le sorti decise solo dalla skill in campo della squadra. E questa è sicuramente la migliore delle notizie.

Esteta del calcio

Rematch è delizioso da vedere. Lo stile grafico 3D ricorda Sifu, una scelta che condivido perché quest’ultimo ha un comparto grafico molto acclamato da videogiocatori e critica, e non vi era gran motivo per cambiare. Così come i registi cinematografici hanno il proprio stile, penso che anche le software house dovrebbero averne uno che gli permetta di contraddistinguersi e abbattere i costi di produzione.

Sloclap ha un motore 3D che ricorda, senza esserlo mai veramente, il cel shading. I calciatori, il campo che muta gol dopo gol e tutti gli extra stilistici che sono già arrivati, e arriveranno con le microtransazioni, sono perfettamente amalgamati. Il risultato è un gioco colorato e divertente, un carnevale di Rio digitale.

Infine anche qualche aspetto negativo: il motore grafico ha dovuto accettare un po’ di compromessi: a volte la palla finisce dentro dopo una parata, con tutto il portiere. Non sarà gol. Altre volte la traiettoria si aggiusta magicamente dopo un passaggio. Nessuna di queste scelte crea una vero problema, ma sicuramente c’è ancora margine di miglioramento.

Rematch porta linfa vitale nella categoria dei giochi online, per così dire, leggeri, inserendosi in una nicchia inesplorata tra Ultimate Team di EA Sports FC e Rocket League. Il risultato è un videogioco che rispetta i valori e il background di Sloclap. Rematch è complesso da maneggiare, così come Sifu. Una scelta azzardata, ma vincente perché è in grado di portare online il vero videogiocatore, cioè quel pubblico skillato che non trova motivazioni nel gioco online di massa. C’è ancora tanto su cui lavorare, ma l’intento ha trovato conferme nella realizzazione tecnica: Rematch è la squadra giusta da tifare.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PlayStation 5, Xbox Series S|X, PC
  • Data uscita: 19 giugno 2025
  • Prezzo: 25,65 euro

Ho giocato Rematch su Xbox Series X a partire dal day one grazie a un codice gentilmente fornito dal publisher.

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Mario Kart World – Recensione

E dopo il nostro unboxing di Switch 2, il passo successivo era mettere le mani sul succulento nuovo episodio di Mario Kart, ovvero Mario KArt World.

Quando Nintendo lo ha annunciato come titolo di lancio per la nuova Switch 2, la colonnina dell’hype è subito salita alle stelle. Non solo perché si tratta del primo capitolo completamente nuovo della serie dopo oltre un decennio, ma anche perché doveva raccogliere l’eredità titanica di Mario Kart 8 Deluxe, uno dei giochi più venduti e amati di sempre. La domanda era semplice: Mario Kart World riuscirà a reinventare la formula senza perdere la magia?

Diciamolo subito, la risposta breve è sì, ma allacciamo le cinture e partiamo!

Un mondo interconnesso: la vera novità

Il nome World non è solo un vezzo stilistico. Per la prima volta nella storia della serie, i circuiti non sono più entità isolate, ma fanno parte di un mondo interconnesso. Le piste sono collegate da strade, sentieri e ambienti esplorabili in stile open world, un po’ come accade in Forza Horizon. Questa modalità, chiamata Corsa Libera, una delle poche ma sostanziose novità del titolo, permette di esplorare liberamente le ambientazioni tra una gara e l’altra, raccogliere bonus, affrontare sfide secondarie e scoprire segreti.

È una scelta audace a nostro parere, che rompe con la tradizione e apre la porta a un nuovo modo di vivere Mario Kart. Tuttavia, non è ancora perfetta: l’open world è affascinante ma un po’ vuoto, e alcune attività risultano ripetitive. Ma sicuramente girovagare per una mappa enorme alla ricerca di segreti e bonus, risulta divertente

Mario Kart World

Gameplay: tra banane e gusci con qualche new entry

Fortunatamente, quando si torna in pista, Mario Kart World è puro divertimento. Il gameplay è stato rifinito con cura: la guida è fluida, i controlli reattivi e il bilanciamento tra abilità e “caos” è ancora una volta spettacolare. Le derapate sono soddisfacenti, i power-up iconici (come il guscio blu o la banana) sono sempre presenti e le nuove aggiunte, come il razzo a inseguimento o il campo magnetico, aggiungono varietà senza stravolgere l’equilibrio. Vi ritroverete ad inveire contro i vostri avversari, umani e non, molto spesso!

Una delle novità più impattanti è l’aumento dei partecipanti in gara: si passa da 12 a 24 corridori contemporanei. Il risultato? Un caos colorato e adrenalinico che rende ogni gara imprevedibile e spettacolare. In modalità Sopravvivenza, ad esempio, l’ultimo classificato viene eliminato a ogni giro, creando tensione crescente e momenti memorabili.

Mario Kart World

Tracciati: tra nostalgia ed innovazione

I tracciati sono il cuore pulsante di ogni Mario Kart, e World non delude. Ce ne sono 30 inediti, ognuno ispirato a un diverso universo Nintendo. Si passa dallo Stadio di Wario a un cinema a tema Luigi, da un porto spaziale Donkey Kong a una Rainbow Road reinventata, ancora più psichedelica e vertiginosa.

Ogni pista è un piccolo capolavoro di design, con scorciatoie, ostacoli dinamici e ambientazioni mozzafiato. Il passaggio fluido tra biomi diversi è poi molto soddisfacente e contribuisce a creare un senso di viaggio continuo, come se ogni gara fosse parte di un’avventura più grande.

Grafica e prestazioni: Switch 2 mostra i muscoli

Dal punto di vista tecnico, Mario Kart World è una vetrina perfetta per le capacità della Switch 2. Il gioco gira a 60 fps stabili in modalità single player (30 fps in modalità fotografica) con cali minimi solo in split-screen a quattro giocatori. I modelli dei personaggi sono dettagliati, le animazioni fluide e le ambientazioni ricche di effetti visivi, come riflessi dinamici, particelle e illuminazione volumetrica. Insomma la nuova generazione Nintendo si vede tutta!

La direzione artistica resta fedele allo stile cartoon della serie, ma con una pulizia e una profondità visiva che fanno davvero la differenza. È il Mario Kart più bello di sempre, senza dubbio.

Contenuti e modalità: parola d’ordine abbondanza

Oltre alla Corsa Libera, il gioco include tutte le modalità classiche: Gran Premio, Prova a Tempo, Battaglia, Sfida, e la già citata Sopravvivenza. Il multiplayer online supporta fino a 24 giocatori, con matchmaking rapido e stabile. In locale, si può giocare fino a 4 in split-screen o 8 in wireless locale.

Il roster dei personaggi è impressionante: 50 piloti, ognuno con costumi alternativi e veicoli personalizzabili. Tuttavia, il sistema di sblocco è un po’ macchinoso: le ricompense sono lente da ottenere, e alcune personalizzazioni sembrano bloccate dietro sfide troppo specifiche. Questo potrebbe portare i giocatori alla noia e portarli ad abbandonare la ricerca di tutti i personaggi.

Ovviamente il gioco supporta tutte le nuove funzionalità della nuova console Nintendo, come Gamechat e CameraPlay per chiacchierare e guardarsi mentre si corre come se si fosse davvero insieme.

Si, ma 90 euro?

Uno degli aspetti più discussi è il prezzo: Mario Kart World è il primo gioco Nintendo a costare 89,99 euro in versione fisica. È un prezzo alto, che impone aspettative altissime. E sebbene il gioco sia ricco, curato e divertente, non tutti saranno d’accordo sul fatto che valga ogni centesimo.

La modalità open world, ad esempio, è affascinante ma ancora acerba. Alcuni controlli in volo sono imprecisi, e il sistema di progressione potrebbe essere più gratificante. Non sono difetti gravi, ma in un titolo che si propone come “definitivo”, pesano.

Conclusione

Mario Kart World è un vero trionfo nel mondo dei racing game arcade. Nintendo dimostra ancora una volta di saper reinventare una formula amata da decenni, aggiungendo nuove meccaniche, tracciati mozzafiato e una componente online finalmente robusta. La varietà dei personaggi, la cura per i dettagli e il bilanciamento tra accessibilità e profondità competitiva rendono ogni gara memorabile. Adatto a veterani e neofiti, MK World non reinventa la ruota ma la lucida alla perfezione per lanciarla a tutta velocità nel futuro della serie.

9

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: Nintendo Switch 2
  • Data uscita: 5 giugno 2025
  • Prezzo: 89,99 euro

Ho giocato e completato il gioco su Nintendo Switch 2

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Clair Obscur: Expedition 33 – Recensione

In un mercato ricolmo di sequel fotocopia e produzioni senz’anima, trovare un gioco che trasmetta passione vera è diventato un’impresa. Clair Obscur: Expedition 33 è un raro gioiello che ogni videogiocatore aspettava da anni: un titolo capace di emozionare, stupire e, alla fine, far venire voglia di alzarsi in piedi e applaudire. È un atto d’amore verso i videogiochi, un’esperienza che unisce stile, cuore e dedizione in ogni sua scelta.

Sandfall Interactive: studio indipendente o team solido?

Sviluppato da Sandfall Interactive, pubblicato da Kepler Studio e distribuito da Bandai Namco, Clair Obscur: Expedition 33 nasce da un team francese ben strutturato: non una piccola produzione indipendente, ma un progetto ambizioso che sorprende per qualità. Si tratta di un RPG a turni, sebbene rinchiuderlo in quest’etichetta non renda giustizia alla complessità del titolo. Tra i suoi punti di forza c’è sicuramente l’ispirazione ai grandi classici del genere, sebbene il gioco proponga molte idee originali.

Alla guida del progetto troviamo Guillaume Broche, ex dipendente Ubisoft che, come ha raccontato in diverse interviste, si era ormai annoiato in quell’ambiente lavorativo, e ha scelto di rimettersi in gioco per dare vita a qualcosa di nuovo. Anche lo sceneggiatore ha un percorso insolito: scoperto su Reddit, rappresenta un perfetto esempio di come la passione per i videogiochi possa portare a risultati sorprendenti. È proprio questa dedizione a permeare ogni aspetto del gioco, nato non per obbligo, ma per pura volontà di ritagliarsi un posto nel mercato.

Trama e ambientazione di Clair Obscur: Expedition 33

Il titolo affascina sin dai primi istanti, grazie a un incipit narrativo che colpisce per intensità, proiettando il videogiocatore in un mondo vivido e suggestivo.

L’ambientazione unisce elementi della belle époque francese con un immaginario fantasy dalle tinte dark, dando vita a un universo unico. Ogni anno, una figura enigmatica conosciuta come “la Pittrice” si sveglia e dipinge un numero su un enorme monolite situato all’orizzonte della città di Lumière. Questa cifra rappresenta l’età delle persone che svaniranno nel nulla e diminuisce progressivamente ogni anno. Per sfuggire a questo destino, vengono organizzate le Spedizioni. Si tratta di gruppi, spesso composti da persone prossime alla sparizione, che si avventurano nel continente vicino alla ricerca di un modo per interrompere il ciclo. Tuttavia, nessuna spedizione è mai riuscita a tornare indietro.

Il mondo di gioco è incredibilmente vasto ed esplorabile con varie zone curate in ogni dettaglio, al punto da invogliare il videogiocatore a perdersi al loro interno. Non si tratta di un open world, ma piuttosto di un grande continente, con aree piene di segreti e numerose quest secondarie. Alcune di queste accessibili solo dopo specifici punti di trama.

Narrativa e tematiche di Clair Obscur: Expedition 33

L’aspetto narrativo del titolo rappresenta senza dubbio uno dei suoi migliori punti di forza. La narrazione colpisce per intensità ed emozione, grazie a un uso sapiente delle cutscene. Questo aspetto ricorda molto Final Fantasy X, dove le scene cinematiche sapevano esaltare i momenti più significativi senza mai risultare invadenti. In un genere che spesso preferisce i dialoghi testuali, questa scelta regala un ritmo narrativo più coinvolgente e cinematografico.  

Clair Obscur: Expedition 33 tratta inoltre con rara sensibilità temi attuali e universali: la perdita, la fragilità della vita davanti all’ineluttabilità della morte, il valore della famiglia, la ricerca di sé, l’arte e la musica come rifugio e salvezza. Una storia capace di scaldare anche i cuori più duri ci viene raccontata con una delicatezza e una forza che lasciano il segno.

I personaggi, intensi e splendidamente caratterizzati, entrano nel cuore e ci restano, trasformando l’avventura in un legame profondo difficile da sciogliere.

Al termine della storia principale il gioco offre un ricco postgame, con nuove aree da esplorare, boss opzionali e contenuti aggiuntivi. Ciò approfondisce ulteriormente la trama, fornendo al videogiocatore un incentivo importante per continuare anche dopo i titoli di coda. L’interfaccia di combattimento si ispira a Persona, riuscendo però a rielaborare i principaki elementi in una formula originale.

Colonna sonora di Clair Obscur: Expedition 33

Le OST di Expedition 33 meritano un plauso particolare. Le tracce sono armoniose e perfettamente integrate nell’esperienza di gioco, capaci di enfatizzare i momenti chiave di narrazione e combattimenti, oltre ad accompagnare l’esplorazione. La qualità dei brani è talmente elevata da spingere il giocatore a fermare il gameplay per ascoltarli con più attenzione. Curioso è il fatto che il compositore sia un artista scoperto su SoundCloud, un dettaglio che sottolinea ancora una volta lo spirito innovativo e aperto del progetto.

Gameplay e meccaniche

Dal punto di vista del gameplay, Expedition 33 offre un sistema solido e sfaccettato. A una classica struttura a turni si affianca un’ampia gamma di meccaniche che arricchiscono significativamente gli scontri.

Un grandissimo punto di forza del gioco è la sua capacità di combinare caratteristiche provenienti da generi diversi senza mai risultare dispersivo (in alcuni frangenti ci si scorda persino di star giocando a un titolo turn-based). È infatti presente un sistema di parry e schivate coadiuvate da un vasto numero di abilità attive e passive (i Picto e le Lumina), un albero delle abilità estremamente articolato e la distribuzione dei punti tipica dei GDR. Questa combinazione di elementi rende il titolo accessibile a un pubblico più ampio, uscendo dai confini del (J)RPG e strizzando l’occhio ai fan dei Souls-like e ai videogiocatori più casuali, prendendo ispirazione da numerosi videogiochi di successo.

Inoltre, i tre livelli di difficoltà garantiscono un’esperienza adatta a neofiti e veterani del genere.

Personalizzazione di gioco

Un altro aspetto di grande rilievo è la personalizzazione: il giocatore può modificare l’aspetto del personaggio attraverso cosmetici, vestiti e acconciature, ma anche personalizzare in profondità il gameplay grazie ai Picto e alle Lumina. Queste abilità passive permettono di creare build uniche, ad esempio aumentando i danni sotto una certa soglia di vita o potenziando la possibilità di colpi critici, adattandosi a diversi approcci e preferenze. Ogni personaggio può essere costruito a seconda dello stile di gioco del videogiocatore, senza limitazioni imposte da ruoli fissi come mago, guaritore o guerriero.

Un punto a sfavore è la relativa facilità con cui si può “rompere il gioco”, specialmente nel post-game. I giocatori più esperti possono infatti facilmente creare build in grado di eliminare con un solo colpo anche i boss più impegnativi del post game. Fortunatamente, il team di bilanciamento rilascia regolarmente patch mirate a correggere questi squilibri.

Un prezzo competitivo

Dal punto di vista economico, il titolo viene proposto a 49,99 € al lancio, un valore decisamente competitivo rispetto agli standard attuali del mercato. Inoltre, grazie a promozioni e sconti, è possibile reperirlo a cifre ancora più basse. Ciò lo rende molto appetibile sul fronte qualità/prezzo.

Per concludere, Clair Obscur: Expedition 33 è un titolo che è stato capace di emozionare profondamente e di creare una solida community di appassionati che condividono l’amore per questo gioco. Nonostante alcune pecche, la qualità elevatissima sotto quasi ogni aspetto lo rende il punto di partenza ideale per un mercato videoludico che aspiri a tornare a produzioni di grande valore, fondate sulla passione e sulla cura di ogni dettaglio. L’anno è ancora lungo, ma una cosa è certa: Expedition 33 si candida con forza come uno dei favoriti assoluti per il titolo di GOTY 2025.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, Microsoft Windows, Xbox Series X/S
  • Data uscita: 24/04/2025
  • Prezzo: 49,99€

Ho giocato e completato il gioco su PC.

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The Alters – Recensione

11 anni fa, 11 bit studios ha scosso il mondo dei videogiochi con This War of Mine, un’opera così potente da entrare nel programma scolastico polacco. Raccontava l’assedio di Sarajevo, ma soprattutto la guerra come fonte di crudeltà e lancinante dolore. Quattro anni dopo, nel 2018, la software house polacca riceve gli onori del pubblico e della critica con Frostpunk, un gestionale survival ricco di pathos narrativo e minuzioso gameplay.

Nel 2025, 11 bit studios chiude il cerchio – letteralmente come vedremo più avanti – con The Alters, un videogioco di sopravvivenza e gestione 3D che punta a unire This War of Mine e Frostpunk sotto un’unica etichetta. Il team polacco sarà riuscito nel suo intento o ha creato un mero clone del proprio passato? Scopriamolo in questa recensione di The Alters.

Un tragico incidente

Jan Dolski è un uomo che ha dovuto affrontare delle difficoltà nella vita. In particolare, ha subito un padre violento che poco si curava della volontà di Jan di continuare gli studi. Gli stessi gli hanno permesso di fuggire dalla sua famiglia e trovare un lavoro ben remunerato, e una donna che lo rendesse felice. Quando tutto sembrava andare per il verso giusto, però la sorte lo ha condotto nuovamente nel baratro. Jan Dolski perde il lavoro e anche l’amore. Tutto questo lo porta in una nuova azienda, Ally Corp, un’enorme multinazionale che ha un unico scopo: organizzare spedizioni nello spazio alla ricerca di un misterioso materiale dalle proprietà straordinarie, il Rapidium.

Jan parte per la spedizione, ma un tragico incidente sconvolge nuovamente la sua esistenza. Durante un viaggio verso un pianeta irradiato da tre soli, tutto l’equipaggio muore, tranne lui. Dolski si ritrova quindi solo, in un ambiente ostile, con l’unico obiettivo di uscirne vivo e tornare sulla Terra. Per farlo deve gestire una base mobile, che avrà la necessità di spostarsi ogniqualvolta un sole sarà troppo vicino alla sua base. Sopravvivere in queste condizioni richiede organizzazione, risorse e strumenti. E ben presto Jan si renderà conto che non riuscirà mai a sopravvivere con solamente le proprie forze, forse.

The Alters Recensione: Key Art

Esplorando la fantascienza

Solo in un pianeta ostile e privo di vita. Qui parte la nostra missione composta inizialmente dall’esplorazione e l’upgrade della nostra base, un’enorme ruota in cui al suo interno vi è una base componibile pari pari a quanto già visto in Fallout Shelter. Tra un nuovo modulo e una scampagnata in un ambiente sci-fi e fantascientifico, Dolski si imbatte nel tanto ambito Rapidium. Solo a questo punto, l’Ally Corp farà il suo ingresso, contattandoci e spiegandoci come usarlo per sopravvivere, e per intimarci di raccoglierne il più possibile.

Il Rapidium è il carburante delle clonazioni e curiosamente il computer di bordo della base ha memorizzato l’intera vita del suo ospite, ma non solo; infatti, il terminale è in grado di staccare nuovi rami nella vita di Jan, cioè degli alter ego, che hanno vissuto una parte di vita come quella di Dolski. Almeno fino a quando non hanno preso scelte diverse.

Da questo incipit nasce The Alters, un ambizioso titolo che dirama su tre generi: gioco di ruolo narrativo, gestionale e survival. In realtà, questa divisione è puramente teorica, perché il gioco si amalgama perfettamente risultando alla fine un videogioco di sopravvivenza con una fortissima base narrativa. Tutto il resto è una conseguenza ben sviluppata.

The Alters Recensione: Miniera

Soli con sé stessi

Nonostante la dichiarata volontà di prendere spunto da This War of Mine e Frostpunk, 11 bit studios ha intrapreso anche delle scelte diverse dal passato, tali da rendere The Alters un’opera ben distinta rispetto ai suoi predecessori. Mi riferisco nella fattispecie alla totale mancanza di combattimenti del gioco. In The Alters, l’unico nemico da battere è il tempo, da affrontare su un luogo ostile. Per il resto, saremo soli con, letteralmente, noi stessi.

L’obiettivo dunque è ritornare sulla terra. Per farlo sarà prima di tutto capire come farlo e per comprenderlo serve tempo. Il nostro scopo sarà quindi quello di sopravvivere il più a lungo possibile. Per farlo, inizieremo con l’esplorare l’esterno alla ricerca di miniere di metalli e gas, fondamentali per fornirci i beni di prima necessità, come il cibo, e necessari per ampliare la nostra base.

The Alters Recensione: Base

Rapidium

Tra i materiali fondamentali c’è il Rapidium, che permette di azionare l’incubatrice dei nostri alter ego. Quando lo faremo, creeremo una versione di noi stessi, che ha condiviso una parte di vita, ma che nei momenti cruciali, ha fatto scelte diverse. Queste scelte hanno caratterizzato il proprio modo di vedere il mondo, sviluppando pregi e difetti. Caratteristiche con cui ci scontreremo noi stessi e gli altri alter ego. È qui che si svolge la partita narrativa. The Alters è colmo di dialoghi, non localizzati in italiano, da affrontare con il massimo della concentrazione.

I dialoghi che faremo con gli alter ego, e le loro diatribe su cui dovremo far delle scelte, sono parte integrante della sopravvivenza. Dar sempre contro a un’unica persona o rifiutare il confronto verbale può significare generare conseguenze disastrose, che possono condurre anche alla fine del gioco, sia perché la situazione diventa ingestibile sia perché alcune scelte possono portare alla morte dei nostri simili.

The Alters Recensione: Scientist

Micromanagement

La giornata di Jan Dolski è divisa in tre parti: lavoro, pubbliche relazioni e riposo. Potremo decidere di rinunciare a una cosa piuttosto che un’altra – con alcune limitazioni, bypassabili da particolari scelte come il crunch – ma ognuna di queste dovrà essere ponderata al fine di garantire un equilibrio tra benessere delle persone ed efficienza. Il tempo scorre e non sempre sarà possibile soffermarsi a parlare. Allo stesso tempo, ci saranno dei momenti sociali da gestire, pena perdere la bussola e la partita.

Il Jan Dolski principale è solo una parte della macchina, che può funzionare solo in relazione alla buona salute degli altri. Ma a differenza di altri prende le decisioni. In particolare, tutto quello che facciamo noi può essere svolto anche da un alter ego, con la sola eccezione dell’esplorazione. Sarà dunque fondamentale incaricare qualcuno che prepari il cibo, qualcuno che raccolga risorse, chi costruisce equipaggiamento, chi si riposa in infermeria, preferibilmente in base alle caratteristiche degli Alter, tutti unici anche nelle loro specializzazioni, 12 in tutto.

Una volta gestite le code, andremo a decidere come gestire la nostra giornata fuori dalla base. Qui potremmo costruire punti di estrazione ed esplorare la mappa grazie a una particolare tuta che ci aiuta nella sopravvivenza, ma che ci limita perché ha bisogno di essere ricaricata per determinate azioni (i salti per esempio).

Il gameplay è un’elegante danza delle priorità che parte dalla gestione delle persone di This War of Mine e finisce nella conto delle risorse e delle sfortune di Frostpunk. Come in ogni gioco di 11 bit studios infatti dovremmo affrontare delle calamità naturali o delle disgrazie sociali. Il loro impatto è tremendo e la preparazione a quest’ultimo sarà l’ago della bilancia tra la vita e la morte (game over ben gestito dai salvataggi automatici nei punti critici).

Ma quando riusciremo a sopravvivere a una tempesta elettromagnetica o all’avvicinarsi del sole, saremo in qualche modo premiati. A volte ci coccoleremo con una canzone o un beer pong insieme ai nostri Alter. Altre volte riceveremo una chiamata dall’Ally Corp o da persone importanti della nostra vita. Piccoli premi per la nostra sanità mentale che ci permetteranno di arrivare fino alla fine della trama. Una storia semplice, quasi banale, per gli appassionati della fantascienza sci-fi. Ma il viaggio invece è introspettivo e divertente sia nei dialoghi che nel gameplay che innalza il team polacco ra i grandi sviluppatori di quest’era videoludica.

The Alters è un videogioco fondamentale per quest’era videoludica, perché è il punto di arrivo di quello che sarà uno dei team di sviluppo più importanti dei prossimi 10 anni. Con The Alters, 11 bit studios ha chiuso il proprio cerchio e ora si può affacciare al settore videoludico come un team veterano, garante della qualità del medium. The Alters è un videogioco di sopravvivenza che sfrutta al meglio la potente narrativa e l’esperienza nei gestionali del team polacco. La trama è semplice, ma il viaggio è potente sia nelle interazioni sociali con gli altri alter ego che nel gameplay. La mancanza di tempo è stata la mia bussola per tutto il tempo, sensazioni che mi hanno fatto appassionare all’avventura dei Jan Dolski con interesse, emozioni e impegno nel giocarlo. Tutto quello che un videogioco dovrebbe avere per entrare di diritto tra i grandi della storia.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: Xbox Series X|S, PS5, PC
  • Data uscita: 13/06/2025
  • Prezzo: 34,99€ su Steam, disponibile su Xbox Game Pass al Day One.

Ho giocato a The Alters su Xbox Series X grazie a un codice gentilmente fornito dal publisher pochi giorni prima del day one.

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Stellar Blade – Recensione

Da pochi giorni Stellar Blade è disponibile anche in versione PC. Sebbene l’action di Shift Up non sia riuscito ad ottenere consensi unanimi, si tratta indubbiamente di un gioco che, nel corso dell’anno passato, ha fatto parlare molto di se. Cogliamo dunque l’occasione per regalarvi la nostra recensione del gioco, frutto di una prova lunga ed approfondita. Lanciamoci insieme verso un’avventura davvero stellare!

Trama e ambientazione

Stellar Blade

La storia di Stellar Blade è ambientata in una sorta di futuro apocalittico. Gli umani sono stati costretti ad abbandonare il pianeta terra a causa della presenza di alcune creature mostruose, i Naytibas. Queste mostruosità hanno ormai conquistato gran parte della superficie terrestre. Solo una manciata di esseri umani resiste nei pochi avamposti ancora in piedi. La maggior parte degli uomini si è trasferita in un’immensa colonia spaziale.

Il giocatore veste i sinuosi panni di Eve, una ragazza androide creata, al pari delle sue compagne di unità, dalla misteriosa Sfera Madre, l’intelligenza che sembra essere il cuore pulsante della colonia. Assieme agli altri membri della sua squadra Eve viene inviata sulla terra per combattere i Naytiba e liberare il mondo. Dopo una disastrosa missione iniziale Eve entra in contatto con Adam e Lily, due degli umani sopravvissuti. Adam conduce la bella protagonista a Xion, ultima grande città degli uomini. Dopo l’incontro col misterioso Orcal, Eve intraprende un lungo viaggio per recuperare alcuni rari nuclei da determinati esemplari di Naytiba. Il recupero di questi nuclei sembrerebbero essere la chiave per la vittoria finale contro i Naytiba.

Stellar Blade o Nier?

Stellar Blade

Non ci nasconderemo dietro a un dito. La trama di Stellar Blade ha ben più di un punto in comune con quella del leggendario Nier Automata, famosissimo action rpg di Square. Non solo l’ambientazione è molto simile, ma molti dei colpi di scena che avvengono verso la fine dell’avventura richiamano MOLTO da vicino la trama della saga di Yokotaro. Questo, unito ad una certa somiglianza di gameplay, ha creato un senso davvero forte di déjà-vu.

In ogni caso, la storia di Stellar Blade, della durata di circa 25 ore, resta ben narrata e coinvolgente, soprattutto nel modo in cui narra la crescita e la maturazione di Eve attraverso gli incontri con gli altri personaggi e il modo in cui si sviluppano le varie relazioni. Anche la sezione finale della storia, sebbene resti piuttosto prevedibile, è oggettivamente molto coinvolgente. Nel complesso, quindi, trama e setting di Stellar Blade si assestano su buoni livelli. Peccato davvero per le troppe somiglianze con l’avventura di 2B e 9S.

Comparto tecnico

Se c’è un elemento di Stellar Blade che più di ogni altro riesce a colpire, questo è senza dubbio la sua grafica. I modelli poligonali dei protagonisti e dei nemici sono solidi, credibili e ricchissimi di particolari. Anche le animazioni sono incredibilmente fluide e realistiche, sia nelle fasi esplorative che durante i vari combattimenti.

Tutte le aree che il giocatore visita nel corso dell’avventura sono davvero ben pensate ed ottimamente realizzate, che si tratti di vaste aree desolate o di claustrofobici corridoi di basi segrete. Ogni luogo è realizzato con enorme cura e con grande attenzione ad ogni dettaglio.

Anche la colonna sonora di Stellar Blade è davvero eccellente ed alterna musiche con forte componente vocale ed orchestrale (altra strizzatina d’occhio a Nier) a brani più veloci ed incalzanti, che di solito accompagnano gli scontri più importanti. Anche il lavoro svolto con la vocalizzazione è di buon livello, sebbene alcuni dei personaggi secondari non siano stati doppiati al meglio.

Tra esplorazione e combattimenti

Come molti prodotti simili, anche Stellar Blade concentra il suo gameplay sull’esplorazione del mondo e sui combattimenti con le varie creature. Partendo da Xion, Eve andrà via via a sbloccare alcune macro aree, che potranno essere liberamente esplorate. Pur non essendo un vero e proprio open world, Stellar Blade propone ambientazioni davvero ampie e ricche. Riuscire a scovare ogni segreto e collezionabile si rivela un’impresa davvero ardua anche per i giocatori più smaliziati.

Sono naturalmente disponibili anche numerose missioni secondarie, che si sbloccano normalmente all’interno di Xion, ma che possono benissimo attivarsi anche in seguito ad un incontro effettuato nel mondo “esterno”. Queste missioni, pur non essendo originalissime si rivelano dei passatempo efficaci e contribuiscono ad aumentare varietà e longevità del titolo.

Ci sono poi alcune particolari aree “chiuse”, normalmente abmientate in basi tecnologiche. Qui l’open world lascia il passo agli enigmi e all’abilità nell’evitare trappole mortali. Nel complesso abbiamo apprezzato anche queste sezioni, che regalano ulteriore varietà al gameplay.

Scontri all’ultimo sangue

Dove Stellar Blade differisce in modo molto deciso da Nier è nel combat system. All’apparenza, anche qui ci sono molte similitudini. Eve dispone di due tipi di attacchi differenti (che possono essere alternati concatenandoli in combo devastanti), di una serie di armi a distanza e di un set di abilità speciali, che possono essere utilizzate sfruttando una particolare barra, che va ad esaurirsi man mano che questi attacchi vengono sfruttati. La nostra bella androide è naturalmente anche in grado di schivare e bloccare. Effettuare queste azioni difensive col giusto tempismo dona un bonus alla barra delle abilità

Tuttavia, gli scontri con i vari avversari sono molto simili a quanto visto in un soulslike. Gli attacchi nemici infatti consumano enormi quantità di energia e spesso, durante l’esplorazione, ci imbatteremo in intere orde di creature. Questo comporta la possibilità di morire in letteralmente qualunque battaglia. Per procedere diventa obbligatorio imparare bene gli schemi di attacco nemici e il giusto tempismo con cui ricorrere a parate e schivate. Anche la gestione delle nostre risorse diventa fondamentale.

Non abbiamo apprezzato fino in fondo questa scelta. Da un lato le boss fight sono davvero intense e coinvolgenti e regalano un enorme soddisfazione una volta superate. Gli scontri coi nemici comuni, però, a volte sono davvero eccessivamente frustranti, soprattutto se vanno continuamente a disturbare l’esplorazione mentre si è alla ricerca di un obiettivo particolarmente arduo da individuare.

Segnaliamo infine una serie di momenti in cui le abilità di attacco di Eve diverranno inservibili. Durante queste fasi dovremo fare affidamento unicamente sulle armi da fuoco. Pur essendo sezioni abbastanza brevi, abbiamo apprezzato la presenza di questi momenti, che obbligano il giocatore a ricorrere ad un approccio più attento e mirato.

Settaggio perfetto

Segnaliamo anche la presenza di numerosi elementi gestionali mutuati dal genere dei giochi di ruolo. Infatti, durante l’avventura possiamo raccogliere numerosi oggetti utili a potenziare o modificare le abilità di Eve. Sta a noi decidere se investire sulla salute, sulla forza d’attacco, sui colpi critici eccetera.

Eve dispone anche di diversi alberi delle abilità, che vanno a potenziarsi tramite i punti esperienza raccolti dopo le battaglie. Anche in questo caso, il giocatore ha la facoltà di decidere cosa potenziare e in quale ordine. Non mancano naturalmente anche numerosi costumi ed accessori estetici, che però non vanno ad influenzare il gameplay.

Parlando infine di longevità, Stellar Blade propone una storia principale della durata di circa 25 ore, che possono essere tranquillamente raddoppiate se si punta a completare tutte le missioni secondarie e a scoprire tutti i segreti della trama. Non manca la modalità new game plus, che permette di ricominciare la storia ad un diverso livello di difficoltà mantenendo molte delle quest secondarie e degli oggetti raccolti.

Tirando le somme, Stellar Blade è un’avventura solida, molto bella graficamente, con un sonoro notevole, un’ottima longevità ed una trama interessante. Peccato per il battle system, a volte davvero troppo frustrante e punitivo e per le troppe somiglianze tra questo gioco e la saga di Nier. Nel complesso comunque un’ottima avventura action che sarà certamente apprezzata dagli amanti del genere.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: Playstation 5
  • Data uscita: 26 giugno 2025
  • Prezzo: 69,99 euro

Ho giocato e completato il gioco su Playstation 5

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Metaphor: ReFantazio – Recensione

Metaphor: ReFantazio è stato certamente uno dei migliori giochi dello scorso anno, nonché uno dei principali successi di Atlus. Sembra davvero che i JRPG stiano vivendo una seconda giovinezza, come dimostra il successo di giochi come Persona 5 e dello stesso Metaphor.

Recentemente anche Clair Obscure: Expedition 33, basato su un classico sistema di combattimento a turni e su meccaniche tipiche dei giochi di ruolo giapponesi, ha ottenuto una serie di consensi davvero strepitosa. Alla faccia di chi riteneva che i JRPG tradizionali fossero ormai un genere vecchio e poco appetibile per il pubblico (vero Square Enix?)!

Cavalcando questo rinnovato interesse per il genere, vi proponiamo la nostra recensione approfondita di Metaphor, sperando che possa invogliare chi si è perso questa autentica perla a rimediare al più presto alla sua lacuna. Pronti ad immergervi con noi nella fantasia del re?

Trama e ambientazione

Metaphor

La storia di Metaphor è ambientata nel regno unito di Euchronia. Si tratta, apparentemente, di un enorme mondo fantasy abitato da numerose razze diverse. Tra esse spiccano i Cleimar, dotati di corna, i Roussainte, molto simili agli elfi e gli ishkia, dotati di ali simili a quelle degli angeli.

Il mondo di Euchronia è stracolmo di razzismo e gli abitanti di ogni razza tendono ad essere chiusi e diffidenti verso il diverso. Questa chiusura mentale è ulteriormente aggravata dalla chiesa Santista, la principale organizzazione religiosa del mondo, costruita intorno al pregiudizio e al pensiero unico.

Su Euchronia magia e tecnologia coesistono, ma sono pochissime le persone in grado di utilizzare la forza magica, chiamata magla, in modo naturale. La maggior parte delle persone ricorre a particolari dispositivi chiamati inneschi, che imbrigliano il potere del magla e lo utilizzano per varie funzioni. Infine, il mondo è popolato da mostruose e grottesche creature chiamate umani, che seminano terrore e distruzione al loro passaggio

La storia del gioco ha inizio con l’assassinio del sovrano ad opera del generale Louis, che si rivelerà il principale antagonista del gioco. Questo evento darà il via ad una catena di avvenimenti che porteranno ad una competizione per la scelta del successore del sovrano, voluta dallo spirito dello stesso re tramite un potente incantesimo.

Il giocatore veste i panni di un elda, la razza più disprezzata ed apparentemente più debole presente su Euchronia. Sebbene il protagonista possa essere rinominato a piacere, il suo nome ufficiale è Victor. Accompagnato dalla fatina Gallica, Victor ha inizialmente il compito di aiutare i membri della Resistenza nell’orchestrare l’omicidio di Louis. Victor infatti scopre che, ancor prima di uccidere il re, Louis aveva attentato anche alla vita del principe, che ora giace in uno stato comatoso in seguito agli effetti di una maledizione. Eliminare Louis sembra l’unico modo per salvare il legittimo erede al trono.

Questo tentato omicidio darà il via ad una serie di eventi che porterà il nostro protagonista a competere per il posto di nuovo sovrano, in un viaggio che lo condurrà ad esplorare tutti i principali regni di Euchronia e a scoprire incredibili verità non solo su se stesso ma sull’intero mondo in cui vive.

La trama di Metaphor è molto ben scritta e narrata ottimamente. L’intreccio è estremamente lungo e complesso, i personaggi sono ben diversificati e la gestione dei colpi di scena è davvero ottima. Soprattutto la fase finale vi terrà davvero col fiato sospeso. Certo, non si tratta di una storia originalissima. Quando i misteri hanno iniziato a diradarsi, ci siamo accorti che avevamo intuito molte delle svolte narrative principali. Anche il cattivo, Louis, sebbene per tutto il gioco appaia molto carismatico ed intrigante, una volta svelate le sue vere motivazioni, ci ha lasciati abbastanza delusi. Nel complesso, comunque, trama, ambientazione e personaggi di Metaphor sono promossi a pieni voti.

Alleati e archetipi

Durante il viaggio Victor conosce numerosi personaggi appartenenti a svariate razze, che finiscono col diventare i membri del nostro party. Sia Victor che i suoi amici scoprono di avere il potere di evocare gli archetipi. Si tratta di potenti spiriti ispirati a grandi eroi del passato. Ognuno di questi archetipi dona al personaggio che lo evoca abilità specifiche, che lo aiutano durante gli scontri.

Proseguendo nel gioco vengono sbloccati numerosi nuovi archetipi, sia livellando i nostri personaggi sia migliorando i nostri legami con loro (su questo aspetto torneremo). A differenza della serie Persona dove, ad eccezione del protagonista, i personaggi ricorrevano ad un solo spirito, in Metaphor ogni personaggio può utilizzare l’archetipo che preferisce, a patto di averlo sbloccato.

Merita subito una menzione il misterioso More. Si tratta di una figura in abiti neri che comincia ad apparire a Victor fin dalla prime fasi della storia e che lo accompagna per tutta l’avventura. Sarà proprio More a donare a Victor un misterioso libro che descrive un mondo utopico ricco di tecnologia e prosperità e in cui le differenze raziali non sembrano esserci. Un mondo che, tuttavia, ricorda molto pericolosamente il nostro…

Comparto tecnico

Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, Metaphor vanta una realizzazione davvero eccellente. Il sonoro del gioco è semplicemente sublime. Tutte le musiche posseggono delle tonalità molto alte e solenni e ricordano molto da vicino gli inni sacri. Oltre alla maestosità, la colonna sonora riesce sempre a trasmettere un tono di mistero e suspense.

Anche le musiche che caratterizzano le varie località che i protagonisti visitano nel corso dell’avventura ci sono parse sempre molto azzeccate e d’atmosfera. Ovviamente, le musiche che accompagnano le battaglie sono molto più ritmate e dinamiche, ma svolgono altrettanto bene il loro compito. Meritano una menzione speciale le musiche delle boss battle, soprattutto quelle contro alcuni umani, che sono davvero meravigliose.

Il comparto grafico non ci ha altrettanto ben impressionato. Intendiamoci, Metaphor presenta una grafica molto curata e ben realizzata, con vari rimandi agli anime e ai personaggi della tradizione fantasy medievali. Anche la direzione artistica generale è di ottima qualità.

Ci ha particolarmente colpiti quella sorta di alone luminoso che sembra accompagnare sempre sia i nostri personaggi che alcuni elementi degli sfondi. Sembra un particolare da nulla, ma accresce ancor di più l’atmosfera onirica e misteriosa del gioco. Molto bello anche il fatto che queste luminosità si manifestino in maniera ancora più forte quando i protagonisti fanno ricorso agli archetipi e in occasione dei rafforzamenti dei legami.

Anche le battaglie sono molto dinamiche e spettacolari e mostrano animazioni ed effetti speciali di altissimo livello, soprattutto quando riusciremo a realizzare le tecniche più devastanti, che sono accompagnate da animazioni lunghe, dettagliate e davvero mozzafiato.

Tuttavia, la grafica di Metaphor non ci è parsa del tutto adeguata alla potenza delle attuali console. Abbiamo avuto l’impressione che la cura generale dei modelli dei personaggi e delle ambientazioni avrebbe potuto essere anche migliore, soprattutto per quanto riguarda la realizzazione degli sfondi. Dunque, un comparto tecnico di fattura sicuramente pregevole, ma che probabilmente avrebbe potuto essere anche migliore.

Il gameplay di Metaphor

Tutti coloro che hanno giocato alla saga di Persona si troveranno immediatamente a casa con Metaphor. Il titolo Atlus, infatti, ricalca molto da vicino gli ultimi episodi della fortunata saga, in particolare Persona 5. Per chi invece non fosse avvezzo a questa saga, ecco qualche delucidazione.

L’avventura si sviluppa attraverso una serie di avvenimenti principali. Ognuno di questi eventi culmina con la visita ed il superamento di un dungeon (un po’ come accadeva coi palazzi di Persona). Tutto lo svolgimento dell’avventura è scandito da un calendario, che segna lo scorrere delle varie giornate. Nel corso di ogni giornata il giocatore è lasciato sostanzialmente libero di agire, a meno che la giornata in questione non sia già occupata da eventi di trama.

Il non superamento del dungeon entro la data stabilita segna inevitabilmente il game over. Nel corso delle giornate “libere”, il giocatore ha diverse possibilità. Può dedicarsi all’esplorazione e alla ricerca di missioni secondarie, potenziare le sue virtù regali (coraggio, saggezza, tolleranza, immaginazione ed eloquenza) oppure migliorare il rapporto coi nostri seguaci. Ognuna di queste azioni causerà il trascorrere del tempo e quindi il passaggio al giorno successivo.

Parlando dei seguaci, essi hanno lo stesso ruolo dei confidant. In pratica, durante l’avventura avremo la possibilità di approfondire la relazione coi principali personaggi che incontreremo. Una volta scelto con chi trascorrere il tempo, assisteremo ad una serie di eventi che porteranno ad una crescita del rapporto e, di conseguenza, al potenziamento delle nostre abilità. Da notare che, come già accennato, potenziare queste relazioni è fondamentale per avere accesso agli archetipi più potenti.

Rispetto a Persona, abbiamo trovato il meccanismo molto più accessibile in Metaphor. Le finestre temporali sono, in generale molto larghe e una buona gestione del tempo permette di avanzare in modo regolare su tutti i fronti. Già nella prima run abbiamo potenziato al massimo tutte le virtù (fondamentali per accedere agli eventi più avanzati legati ai seguaci) e siamo riusciti a massimizzare il rapporto con quasi tutti i seguaci, svolgendo allo stesso tempo un gran numero di missioni secondarie.

La gestione del tempo è resa ancora più semplice dalla presenza di Gallica. La nostra fatina infatti potrà ricordarci in qualsiasi momento quali sono le attività principali presenti nel corso della giornata (che in ogni caso risultano visibili anche dalla mappa) e anche quali seguaci sono disponibili per interagire. Consigliamo però di fare attenzione alle missioni di esplorazione principale. Spesso i dungeon, o comunque gli eventi legati alla trama, sono lunghi e complessi, quindi è sconsigliabile affrontarli con pochi giorni a disposizione.

Esplorazione e battaglie

Le fasi di esplorazione in Metaphor sono sempre vincolate alle mappe delle varie aree che esploreremo. Sebbene alcune città ed alcune aree di missione siano molto vaste e presentino numerose aree, non si può parlare di vera e propria esplorazione libera. La scelta, tuttavia, ci è parsa azzeccata, perché rende l’esperienza meno frustrante e dispersiva. Dal punto di vista esplorativo, la parte migliore sono senz’altro i Dungeon, che appaiono quasi sempre ben strutturati ed intriganti.

Oltre a quelle legate alla trama principale Metaphor propone anche molte aree secondarie, che potranno essere affrontate solamente una volta sbloccata la missione ad esse legata, che si tratti di una caccia o di un altro evento. Anche queste aree, spesso ambientate in foreste o grotte ci sono parse ben realizzate. Unico neo sono alcuni villaggi, che non sono esplorabili direttamente ma che si riducono ad immagini fisse. Sebbene si tratti solo di luoghi utilizzati per l’acquisto di materiale, ci sarebbe piaciuto poter esplorare anche quelli.

Durante l’esplorazione i nemici sono sempre ben visibili. Il giocatore ha la possibilità di evitarli oppure di cercare di attaccarli. Se gli attacchi azzereranno la barra della stamina del nemico, il giocatore avrà diritto ad un attacco preventivo. Se invece il nemico riesce a colpire il giocatore, sarà lui ad avere la priorità. Nel caso si incontrino nemici di livello molto inferiore, è possibile eliminarli direttamente con un solo attacco, senza nemmeno passare alla schermata di battaglia. Una vera manna dal cielo per il farming.

Per quanto concerne il battle system, esso appare molto tradizionale. Le battaglie si svolgono secondo un rigoroso sistema a turni. Nel corso del proprio turno, il giocatore può scegliere di attaccare, difendere, ricorrere alle abilità degli archetipi o spostare il personaggio in attacco o in difesa. Il passaggio di un personaggio dalla prima alla seconda linea non comporta la perdita del turno, a differenza della sostituzione del nostro personaggio (che è accessibile da subito, una volta che il party avrà superato i 4 membri).

Come nella serie Persona, ogni nemico avrà uno o più punti deboli che, se colpiti, garantiranno turni extra. Lo stesso però vale per i nostri personaggi, in base all’equipaggiamento e agli archetipi. Occorre quindi valutare con attenzione il nostro setup, anche a seconda delle abilità nemiche. Sono presenti poi particolari abilità, denominate sintesi. Esse permettono ai nostri personaggi di combinare le loro forze per scatenare potentissimi attacchi o abilità difensive particolarmente forti, che consumano però due intere icone turno.

Per una buona riuscita degli scontri, la parte più importante è sicuramente la pianificazione. La scelta degli archetipi e degli equipaggiamenti risulta infatti fondamentale. Gli archetipi ricordano i classici sistemi di classe presenti in altri giochi e permettono l’utilizzo di svariate abilità. Alcuni sono specializzati negli attacchi fisici, altri nelle magie, altri ancora nella cura o in abilità di supporto. Per affrontare i dungeon è necessario un gruppo con archetipi ben assortiti e che sappiano allo stesso tempo colpire le debolezze nemiche e metterci al sicuro dalle loro abilità. Non è infatti possibile cambiare archetipo nel corpo della battaglia.

Anche in questo caso, tuttavia, il gioco è molto generoso. Ogni città infatti ospita alcuni informatori, che svelano informazioni sui nemici presenti nei vari dungeon, boss compresi. Questo semplifica di molto la scelta degli archetipi più efficaci. Il discorso cambia radicalmente quando si parla dei boss nascosti, che presentano sfide davvero ostiche, anche a causa di alcune meccaniche nascoste che regolano il loro agire e che, in alcuni casi, possono costare una sconfitta immediata.

Longevità ed elementi strategici

Metaphor

Dal punto di vista strategico e gestionale, Metaphor risulta abbastanza profondo, senza allo stesso tempo essere eccessivamente complicato. Le parti più importanti sono la scelta dell’equipaggiamento e la gestione degli archetipi. Per quanto riguarda l’equipaggiamento, ogni personaggio potrà selezionare un’arma legata all’archetipo con cui è equipaggiato. L’archetipo va anche ad influenzare le armature e gli altri elementi dell’equipaggiamento. Sono anche presenti numerosi accessori, ognuno dotato di bonus e abilità particolari.

Gestire gli archetipi risulta più profondo ed interessante. Livellando i vari archetipi, come già scritto in precedenza, diventa possibile sbloccarne di più potenti ed elaborati. Il giocatore, sacrificando una certa quantità di MAG, può anche “salvare” determinate abilità, in modo da poterne assegnare un numero limitato anche ad archetipi diversi da quello a cui l’abilità è associata in origine. Questo elemento aggiunge un ulteriore tocco di strategia e rende ancora più semplice assegnare i “ruoli” ai nostri personaggi, individuando quelli votati all’attacco e coloro che invece dovranno concentrarsi sulla cura o sulle abilità di supporto.

Dal punto di vista della longevità, Metaphor certamente non delude. Completare l’avventura non richiederà meno di sessanta ore. Tuttavia, come già detto, per completare tutte le missioni e le attività secondarie saranno necessarie almeno due run, se non persino una terza.

Metaphor ReFantazio è un JRPG davvero solido, lungo, ricco e divertente. Vanta un sonoro eccellente, un’ottima trama ed un sistema di controllo magari non originalissimo ma sicuramente profondo e divertente. Gli archetipi ed il loro utilizzo donano profondità e originalità al gioco, le battaglie sono molto tatiche e divertenti e anche l’esplorazione è ben strutturata, soprattutto per quanto riguarda i dungeon. Unico neodel gioco sono alcuni aspetti della trama, non proprio originalissimi e il comparto grafico, di ottimo livello ma che non pare sfruttare appieno le potenzialità dei moderni sistemi di gioco. Da provare assolutamente, soprattutto se amate le avventure.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: Playstation 5
  • Data uscita: 26 giugno 2025
  • Prezzo: 69,99 euro

Ho giocato e completato il gioco su Playstation 5

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Recensioni

DOOM: The Dark Ages – Recensione

L’universo videoludico si è sempre contraddistinto per un’ingente mole di opere. Oggi viviamo nella bulimia più assoluta, ma anche 30 anni fa eravamo ricchi di giochi, che molto spesso ne copiavano altri molto influenti. Il titolo di cui parleremo oggi è tra quelli più plagiati, più amati, più venduti. Del resto il Doom di Romero e Carmack ha reso popolare gli FPS e creato un sacco di cloni, alcuni anche molto popolari come Duke Nukem 3D.

Dal 2016, Doom è rinato tra le mani di Bethesda che ha potuto sperimentare ed evolvere il franchise con risultati – per i primi due capitoli – di altissimo livello. Oggi, nel 2025, la trilogia si chiude con un prequel, Doom: The Dark Ages, che vi raccontiamo in questa recensione.

Le premesse del game director di Doom: The Dark Ages, Hugo Martin, sono sempre state molto chiare: vogliamo creare un Doom single-player, che abbia una trama e un’ambientazione unica, mai vista per la saga. È naturale che se queste parole vengono pronunciate da un membro di Bethesda, la mente viaggia nelle terre di Skyrim, nel post-apocalittico di Fallout e, soprattutto in questo caso, nello spazio di Starfield. C’è tanto di questo approccio nel nuovo Doom, ma vi garantisco che i titoli a cui si ispira The Dark Ages, vi sorprenderanno.

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Una trama e tanti cliché

È possibile dare una storia a Doom? John Carmack paragonava la trama di un videogioco a quella dei film a luci rossi: “Ti aspetti che ci sia, ma non serve a niente”. Doom: The Dark Ages prova ad andare oltre questa affermazione, crea una storia intorno al prequel di Doom, ma il risultato può essere paragonato a quello di un film action degli anni 80.

The Dark Ages è ambientato in un mondo dark fantasy, in cui la tecnologia si fonde con un’atmosfera medievale dai toni cupi e oscuri. Il palcoscenico in cui si esibirà lo Slayer ricorda soprattutto Berserk del compianto Kentaro Miura e quindi trova una sua naturale similitudine con tutte le opere videoludiche che da Berserk derivano. Ampliando il quadro, qualcuno ci vedrà Bloodborne per i toni medievali, altri, come me, System Shock per quello tecnologico. Ma penso che tutti concorderanno che quando si scende all’inferno il riferimento è Diablo 4. E se poi, a un certo punto, vi sembra di essere all’interno della Maschera di Inssmouth, qualche ora dopo ne avrete la conferma: sì, vedrete anche una forte ispirazione all’orrore sommerso di Lovecraft.

Per alcuni sa di già visto, per me è un sogno che diventa realtà. Tutte le opere che più amo fuse in un unico contesto con a capo il videogioco per eccellenza degli anni 90, Doom. E in questo contesto onirico, i demoni escono dall’inferno, come nel più classico dei canovacci, alla ricerca di un artefatto, il Cuore di Argent, che gli permetterebbe di avere il controllo totale su tutto l’universo. Da un lato demoni e diavoli, dall’altro la razza, per così dire, umana. Lo scopo è preservare l’artefatto, ma solo un’entità può affrontarli. Sempre lui, ma tanto diverso rispetto al passato: lo Slayer.

Un nuovo Slayer

Vi ho raccontato tutte le opere a cui si ispira Doom: The Dark Ages, ma a mio avviso è Berserk il punto focale. E il motivo sta proprio nel suo protagonista. A differenza del passato, il nuovo Slayer è più pesante, meno veloce ma di gran lunga più distruttivo. Le armi che impugna sono enormi e alla fine non puoi non notare le somiglianze con Gatsu. Il nuovo slayer è una macchina infernale, silenziosa e brutale, nata per combattere e per generare tante scene splatter, sia durante il gioco che nel cutscene realizzate divinamente con il portentoso motore idTech 8.

L’esagerazione di Berserk non si limita solamente all’ambientazione ma si fonde perfettamente con il gameplay di Doom, che ora è più compassato, meno veloce, meno verticale ma molto più cinematografico. Qualsiasi videogiocatore navigato capisce subito quando ci sarà da menar le mani, perché la mappa 3D ci mostrerà delle ampie zone in cui non può che esserci una battaglia epica, che è la grande novità di The Dark Ages. Il nostro Slayer si dovrà muovere tanto in battaglia e lo fa all’interno di arene molto grandi, dove medipack, munizioni e armature sono sparse in modo chirurgico, con l’esatto scopo di farci correre per tutta la zona, evitando i colpi e massacrando gli enormi mostri e i demoni da cannone.

La scelta è vincente. Le battaglie epocali che affronteremo generano un’enorme soddisfazione e si alternano tra grandi spazi all’aperto – tipiche dei migliori giochi di ruolo e soulslike in circolazione – e angusti spazi cibernetici, come visto in System Shock Remake. In tutto questo, i demoni che abbiamo odiato, e amato, in tutti Doom continuano a essere sempre gli stessi, con i loro pattern e le loro movenze, e con un personale e particolare odio per i Revenant.

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Ferri del mestiere

Le novità non mancano nemmeno per quanto riguarda il comparto armi, e aggiungerei difesa. Sono certo che tra di voi ci sarà chi le apprezzerà e chi assolutamente no. Cambiare in modo così drastico non è sempre apprezzato, ma le scelte di Hugo Martin sono molto sensate. Il nuovo Slayer ha tre tipologie di arma. Oltre alle vere e proprie “pistole”, ci sono nuovamente le armi da Mischia, ma la novità principale è lo Scudo, che diventa anche l’oggetto cardine di tutto il gioco.

Le armi sono tante, molto delle quali attingono dal passato e posseggono un fuoco alternativo che si sblocca andando avanti per i 22 capitoli del nuovo Doom. Non può mancare la mitica doppietta, ma i designer si sono concessi anche una morning star semi-automatica. Il risultato è un gunplay effervescente come tutti i Doom, in cui purtroppo la mira può anche essere secondaria. La sensazione infatti è che il gioco, almeno su Xbox Series X, favorisca molto il videogiocatore, anche il meno preciso.

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Alle armi a distanza si aggiunge l’attacco in Mischia. Si può scegliere un unico attacco in mischia alla volta, tra una manciata disponibili. Quest’ultimo non si potrà spammare perché ha solamente tre cariche, ricaricabili con le munizioni che trovano in giro o, così come gli altri caricatori, recuperabili colpendo i nemici grandi o piccoli che siano.

Arriviamo dunque alla novità: lo Scudo con tanto di lama rotante. Il tutorial vi dirà che serve per pararsi utilizzando il trigger sinistro. In realtà, ben presto scopriremo che possiamo lanciarlo sugli avversari come un boomerang e sarà fondamentale per scoprire tutte le aree segrete di Doom: The Dark Ages, perché permetterà di risolvere la maggior parte degli enigmi ambientali. Una scelta che sa molto di gioco di ruolo e che viene confermata anche dalla possibilità di sbloccare dei perk per Armi, Scudo e Mischia attraverso dei Santuari (Diablo docet) in cui spendere denaro e pietre preziose trovate nel mondo di gioco.

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Tanti contenuti infernali

Ho giocato a Doom: The Dark Ages per circa 20 ore, muovendomi tra i capitoli a diversi livelli di difficoltà (molto alta ai massimi livelli), senza riuscire a completarli tutti al 100%. Di conseguenza, mi aspetto che i completisti possano avere almeno 40 ore di divertimento, anche se alcuni livelli si possono terminare solo al 100% e mi riferisco alle sezioni meno riuscite del gioco.

Inoltre, oltre a comandare lo Slayer nella sua Gatsusità, in The Dark Ages sono diventato anche un Mech e ho cavalcato un Drago, fido servitore dello Slayer. Nella maggior parte è successo in livelli a sé stanti, ma qualche volta queste sezioni di gioco fanno da intermezzo tra una zona e l’altra per farci rifiatare. Atlan è un riempitivo non necessario. Avremmo appena un paio di azioni disponibili, tra pugni e palmate. Ben più riuscito invece è il Drago, perché ricalca quanto abbiamo già avuto modo di vedere con videogiochi ben oliati come Panzer Dragoon. In questo caso, dovremmo evitare i colpi degli avversari, quasi a tempo, e colpire quando mostreranno il fianco, con la possibilità di inseguire in cunicoli stretti dei nemici che dropperanno oro (sì, proprio come in Diablo, o Elden Ring).

Concludiamo questa recensione di Doom: The Dark Ages parlando di qualcosa di scontato: le musiche metal a cui si poteva chiedere qualcosa in più, ma che sanno caricarci nei momenti in cui veramente conta e il multiplayer, o meglio la sua assenza. Personalmente ritengo che Doom non sia il miglior esponente della modalità multiplayer e già sapevamo che The Dark Ages non era stato pensato per questo. A mio avviso è una scelta sensata non includerlo, perché probabilmente avrebbe tolto tempo alla realizzazione di qualcosa che, nella sua interezza, è veramente ben riuscito. D’altro canto però fa effetto non vedere una modalità multiplayer su quello che poteva comunque essere un gradevole arena shooter online, anche se più lento e compassato. Però non stiamo parlando né di Quake né di Unreal Tournament. Se Bethesda vuole ha tutte le IP necessarie per creare qualcosa di grandioso senza scomodare lo Slayer.

Doom: The Dark Ages è una nuova incarnazione dello storico franchise, in puro stile Bethesda. Dopo due capitoli eccellenti, Hugo Martin ha deciso di dare a Doom un tocco tipico della casa madre, includendo elementi da gioco di ruolo. Lo fa introducendo una trama più presente – seppur dimenticabile – e soprattutto offrendo la possibilità di esplorare vaste mappe per il puro piacere di scoprire nuovi segreti. Per ottenere questo risultato, ha dovuto sacrificare la velocità frenetica di Doom Eternal in favore di uno Slayer più lento, ma allo stesso tempo più possente ed epico. Il risultato è un videogioco evoluto e moderno, che prende forma attraverso la cultura pop contemporanea e in cui si citano – e si fondono con successo – Kentaro Miura, H. P. Lovecraft e i videogiochi cult degli anni ’90 nati proprio dopo Doom.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PS5, PS5 PRO, Xbox Series X/S
  • Data uscita: 15/05/2025
  • Prezzo: 79,99 €

Ho giocato a partire dal day one Doom: The Dark Ages su Xbox Series X, grazie a un codice della Premium Edtion gentilmente fornito dal publisher.

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Recensioni

Blue Prince – Recensione

In un panorama videoludico come quello moderno, è sempre più raro poter scoprire un videogioco nel vero senso della parola. Ormai tutto viene servito con tutorial su tutorial, spiegazioni dettagliate e sistemi pensati per assicurarsi di far capire ogni meccanica ancor prima di toccare il pad. Blue Prince, invece, va nella direzione opposta. Ci propone un modo di videogiocare che ricorda il passato: catapultati nel suo mondo con pochissime informazioni, abbiamo il compito di esplorare e capire il resto da soli.

Il nostro protagonista, Simon P. Jones, è il giovane erede di Mount Holly, una magione avvolta nel mistero. La sua vita prende una svolta inaspettata quando riceve un testamento dal defunto zio, Herbert S. Sinclair, che lo spinge a intraprendere un viaggio nella villa, alla ricerca della stanza n°46. Senza indicazioni chiare e senza nessuna guida, siamo costretti a fare affidamento esclusivamente sulla nostra intuizione e pazienza. Nessun combattimento, nessun obiettivo evidente: solo la determinazione di svelare i segreti che si celano dietro quel luogo.

Sviluppo e Gameplay di Blue Prince

Il titolo è stato interamente sviluppato da Tonda Ros, fondatore dello studio indipendente Dogubomb, con una lavorazione di quasi otto anni. Il lavoro è stato portato avanti con un gruppo estremamente ristretto, con il supporto di pochi collaboratori tra cui Davide Pellino, artista e designer italiano. Il progetto è stato fortemente ispirato all’opera Maze: Solve the World’s Most Challenging Puzzle, un libro illustrato che sfida il lettore a trovare il percorso più breve attraverso un labirinto di 45 stanze. Oltre a questo, sono state incorporate features prese da vari giochi da tavolo e di carte, come Magic: The Gathering a cui si deve il drafting delle stanze.

Blue Prince è, essenzialmente, un puzzle mystery con elementi roguelite. La villa che siamo chiamati ad esplorare è viva e mutevole e ogni sua stanza racconta qualcosa di ciò che è esistito prima di noi. Ogni giorno, il giocatore deve scegliere tra diverse stanze, alcune accessibili, altre chiuse o senza uscita (dead ends). Spesso queste decisioni determinano l’andamento della run, a volte costringendo a ricominciare da capo dopo pochi minuti. Il sistema di drafting non solo offre libertà di esplorazione, ma introduce un livello strategico importante, in cui ogni scelta ha peso. Al termine di ogni giornata, la villa ritorna allo stato iniziale, azzerando i progressi se non per alcuni cambiamenti permanenti. Questo meccanismo di reset spinge il giocatore a fare affidamento sulla propria memoria. Prendere appunti e annotarsi gli indizi è, infatti, parte integrante dell’esperienza.

Un esempio di drafting: scegli una delle tre stanze disponibili per proseguire l’esplorazione.

Narrazione ed estetica

Per quanto concerne l’aspetto narrativo, l’evoluzione della trama non è mai esplicita: si costruisce da sola, attraverso fogli, appunti, libri, disegni, schemi e frammenti sparsi di un passato da ricomporre. Sono presenti pochissime cutscene e la comprensione è affidata esclusivamente alla nostra deduzione, scelta che si integra perfettamente con il senso di scoperta che permea l’intero gioco. Il worldbuilding è ben approfondito, e si riesce a delineare una rete complessa di legami tra i personaggi, anche senza raccontarla in modo diretto. Pur vestendo i panni dell’unico personaggio vivo e tangibile, ci troviamo immersi in una storia ricca di intrighi di corte, guerre nazionali, relazioni e scambi epistolari. Il tutto supportato dalla colonna sonora di Trigg & Gusset, che rafforza l’atmosfera enigmatica e si fonde coerentemente al resto.

Dal punto di vista puramente grafico, Blue Prince adotta uno stile visivo che è, in un certo senso, la trasposizione videoludica del nostro taccuino per appunti. Le linee irregolari, i tratti frettolosi, e la sensazione di disordine visivo rappresentano l’atto stesso di prendere nota mentre si è immersi nella ricerca, con idee, mappe e pensieri che si incastrano senza mai darti tutte le risposte, bensì alimentando nuove domande.

L’estetica del titolo non ha quindi solo valore stilistico. In questo modo, Blue Prince diventa metafora visiva di come teniamo traccia dei nostri progressi, cercando di mettere ordine al caos.

Punti di forza e progressione

Per quanto atipico possa apparire in un contesto videoludico, uno degli aspetti più accattivanti risulta essere l’apparente assenza di una progressione, elemento che offre piena libertà all’utente. È possibile infatti esplorare la villa secondo i propri ritmi, decidendo autonomamente quali enigmi prioritizzare in base alle proprie preferenze.

L’obiettivo primario del gioco si completa in circa 15/20 ore da principiante, ma il raggiungimento dei titoli di coda è solo la punta dell’iceberg di un ghiacciaio infinito di cui è difficile stabilire i confini se non dopo averne raggiunto gli abissi.

Il team di sviluppo si è divertito a lasciarci la possibilità di scoprire tutte le sue sfaccettature, implementando sfide stimolanti e varie chicche da scopirire. Blue Prince strizza l’occhio anche ai completisti offrendo un sistema di trofei e modalità alternative che metteranno alla prova anche i videogiocatori più incalliti. Sebbene il gameplay loop possa risultare ripetitivo, l’elemento chiave risiede proprio nella voglia di fermarsi, guardarsi attorno e scoprire nuovi dettagli.

I difetti di Blue Prince

Nonostante ciò, il gioco non è privo di difetti. La frustrazione che può nascere in un punto morto è da non sottovalutare, specialmente per chi non è abituato al genere. Inoltre, l’assenza di tutorial e la difficoltà iniziale nel capire come proseguire potrebbero spingere alcuni giocatori all’abbandono. L’elemento fortuna, determinante nel drafting delle stanze, può influire negativamente sulla buona riuscita di una run e generare sconforto. Questa combinazione di casualità e illusione di una progressione chiara si presenta sia come punto di forza che come criticità: se da un lato stimola il videogiocatore a perdersi nell’esperienza ludica, dall’altro può risultare tedioso per chi ricerca un approccio più guidato. In ogni caso, la sensazione è che Blue Prince riesca sempre a tenerci coinvolti, grazie alla costante voglia di svelare nuove piste.

In definitiva, Blue Prince presenta una grandezza di contenuto impressionante, con la possibilità di scoprire sempre qualcosa di nuovo anche oltre le 50 ore di gioco, riuscendo a rimanere costantemente imprevedibile. Nonostante un gameplay loop a tratti ripetitivo e la presenza di diversi difetti, seppur facilmente arginabili, gli aspetti positivi sono decisamente superiori, rendendolo un titolo da tenere d’occhio per i GOTY, specialmente nella categoria indipendente.

Dettagli e Modus Operandi
  • Piattaforme: PlayStation 5, Xbox Series X/S, Microsoft Windows
  • Data uscita: 10/04/2025
  • Prezzo: 29,99€

Ho giocato e completato il gioco su PC.

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